Neuroni che giocano ai videogiochi, intelligenza biologica sintetica e la nano-intenzionalità della tecnologia.
1. Non ho bocca e devo giocare a Pong
In un laboratorio di biotecnologie in Australia, un piccolo grumo di neuroni umani brulica di minuscole scintille di elettricità. Questo mini-cervello in provetta non è in grado di percepire o agire: tutto ciò che sa della realtà gli viene comunicato in forma di segnali elettrici da una piccola matrice di elettrodi. Completamente isolato dal mondo, tenta di dare un senso alla sua esistenza cercando schemi prevedibili e adattando di conseguenza la struttura della sua rete neurale. Ha un solo scopo: giocare al videogioco Pong, creato nel 1972 da Atari.
Nel 2022, un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Neuron ha annunciato la nascita di DishBrain, un sistema di intelligenza artificiale basato su una coltura di neuroni umani e di ratto. I ricercatori – fondatori della startup di bio-computing Cortical Labs – hanno dimostrato le capacità cognitive di DishBrain allenando con successo i neuroni a giocare a un classico dei videogiochi arcade, Pong. DishBrain non solo è riuscito a imparare a giocare a Pong senza alcuna istruzione preliminare sulle sue regole, ma, secondo gli autori, nel farlo mostra segni di “senzienza”. Sebbene l’esperimento sembri un incubo distopico, la tecnologia – che gli autori definiscono “intelligenza biologica sintetica” – è molto più sottile di quanto possa sembrare.
Le colture di neuroni possono essere ottenute da fonti diverse. Spesso, provengono da cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC). Si tratta di normali cellule somatiche adulte che vengono “riprogammate” introducendo specifici geni nel loro DNA attraverso un virus tecnologicamente modificato (un processo simile a quello adottato nei vaccini a RNA, in cui un vettore virale trasporta il materiale genetico nelle cellule). La tecnologia iPSC funziona come una “macchina del tempo”: riporta le cellule adulte al loro stato embrionale, non specializzato. A partire da questa condizione, in circostanze fisico-chimiche controllate, le cellule possono essere indotte a differenziarsi di nuovo, sviluppandosi in neuroni o in qualsiasi altro tipo di cellula specializzata. Nel caso di DishBrain, questi neuroni sono stati coltivati su una matrice di otto elettrodi progettati per registrare i picchi di attività e fornire dei feedback alle cellule sotto forma di corrente elettrica.
Il metodo di allenamento di questa rete neurale biologica si basa su una teoria della cognizione conosciuta come inferenza attiva, avanzata dal neuroscienziato Karl J. Friston (che è anche uno degli autori dell’articolo su DishBrain). All’interno di questo quadro teorico, “comportamento intelligente” è inteso come l’emergere della minimizzazione della sorpresa. Secondo il principio dell’inferenza attiva, tutti i sistemi cognitivi tendono a ridurre la probabilità di incontrare schemi percettivi imprevedibili che potrebbero minacciare l’integrità del sistema stesso. Dunque termini come “percezione” e “sorpresa” non devono essere intesi nel loro senso comune. La teoria dell’inferenza attiva può essere applicata a qualsiasi sistema fisico che sia influenzato dai cambiamenti ambientali e che sia capace di rispondere a tali cambiamenti con un certo grado di controllo.Nel contesto di DishBrain, il principio dell’inferenza attiva è stato messo in pratica esponendo i neuroni a differenti schemi di stimolazione elettrica. Quando i neuroni nella provetta non riuscivano a produrre sufficiente attività elettrica per indirizzare il paddle verso la palla, venivano sottoposti a stimoli elettrici caotici e imprevedibili. Venivano invece ricompensati con stimolazioni regolari e prevedibili quando riuscivano a deviare la palla. Utilizzando questo sistema di stimolazione elettrica a circuito chiuso, i neuroni ricevevano feedback in tempo reale sulle loro decisioni. Secondo gli autori, questo meccanismo di feedback porta a un embodiment: crea una connessione significativa tra l’ambiente di gioco simulato e le azioni della rete neurale biologica. Dopo poche ore di allenamento, e senza alcuna altra direzione esterna, DishBrain è riuscito a modificare la propria attività elettrica per giocare con successo.

Immagine di DishBrain al microscopio elettronico a scansione che mostra gli elettrodi (rosa) coperti da neuroni umani (grigi). Fonte: Kagan et al.
2. Intelligenza biologica sintetica
Uno dei motivi dell’interesse crescente per il calcolo biologico (o bio-computing) oggi è la sua efficienza in termini di tempo ed energia rispetto ai sistemi di calcolo convenzionali. Confrontare quantitativamente la velocità e l’efficienza di un cervello umano a quelle di un computer non è un’operazione immediata, soprattutto perché ogni confronto in questo senso si basa su assunzioni molto forti sulla natura dei processi cognitivi. Secondo alcune stime basate sul numero di neuroni e sinapsi, il cervello umano dovrebbe essere considerato il supercomputer più potente in circolazione, in grado di eseguire un quintilione (10^18) di operazioni in virgola mobile con soli venti watt di energia, rispetto ai megawatt richiesti dai supercomputer al silicio. Ma la differenza tra il calcolo biologico e quello digitale non riguarda solo l’energia o la velocità. L’intelligenza biologica sintetica non solo può eguagliare o superare le prestazioni dell’IA o giocare ai videogiochi arcade, ma potrebbe rivelare anche nuove possibilità tecnologiche e cognitive.
Alcuni dei risultati più affascinanti dello studio su DishBrain non sono quelli più evidenti. La ricerca ha dimostrato la capacità dei neuroni di auto-organizzarsi in regioni distinte specializzate nell’esecuzione di compiti specifici, una caratteristica conosciuta in neurobiologia come “plasticità funzionale”. Proprio come accade nei cervelli degli organismi viventi, questa plasticità funzionale rende la rete neurale sintetico-biologica maggiormente capace di affrontare situazioni nuove. . Inoltre, gli autori hanno osservato la differenza nel comportamento tra le colture di neuroni di ratto e di umano. Sebbene i neuroni dei ratti inizialmente siano più abili, i neuroni umani sembrano imparare più velocemente, con mosse più “esplorative”. Questa differenza tra neuroni umani e neuroni di ratto non dipende dall’allenamento del sistema, che rimane invariato nei due esperimenti, ma emerge dalla materialità di ciascun tipo di tessuto neurale: nasce dalla biologia e non dalla programmazione. Sebbene queste differenze abbiano conseguenze limitate nel contesto di Pong, potrebbero influire su compiti cognitivi più complessi. I sistemi wetware sono unici nella loro storia e nella loro composizione materiale, il che porta a diverse capacità e comportamenti.
Possiamo immaginare un futuro in cui i computer, come gli animali e le persone, possiedano capacità e predisposizioni individuali?Dal 2022, anno dello sviluppo di DishBrain, i sistemi wetware sono diventati più complessi. Mentre DishBrain è uno strato bidimensionale di cellule, gli scienziati stanno già lavorando su sistemi basati su organoidi cerebrali, ossia organi tridimensionali in miniatura. Quest’anno la startup FinalSpark, con sede a Ginevra, ha sviluppato Neuroplatform, la prima piattaforma per la ricerca sul calcolo basato su organoidi. Neuroplatform consente ai ricercatori di tutto il mondo di lavorare sul chip biologico da remoto, testando comportamenti e metodi di allenamento differenti. Le reti neurali biologiche come Neuroplatform possono anche essere addestrate con neurotrasmettitori: il rilascio di dopamina nel sistema premia i neuroni e fornisce un rinforzo positivo per l’apprendimento. Con lo sviluppo della tecnologia per il calcolo wetware, possiamo aspettarci che le reti neurali biologiche arriveranno a confrontarsi con un numero molto più ampio di attività rispetto al semplice videogioco.

Neuroplatform, computer basato sugli organoidi cerebrali. Fonte: FinalSpark
3. La “nano-intenzionalità” della tecnologia
Lo sviluppo del calcolo biologico solleva nuove questioni sull’intelligenza artificiale, e, più in generale, sulla possibilità di sviluppare tecnologie intelligenti e senzienti. Secondo il neuroscienziato W. Tecumseh Fitch, l’IA al silicio è strutturalmente incapace di comportamenti veramente intelligenti a causa del suo sostrato materiale “rigido”. Fitch sostiene che i chip per computer convenzionali, composti da materiali inorganici che non percepiscono né si adattano al mondo circostante, non potranno mai eguagliare la flessibilità e la complessità comportamentale dei sistemi biologici. Ha coniato il termine “nano-intenzionalità” per riferirsi alla capacità delle strutture viventi (dalle semplici amebe ai cervelli umani) di percepire il mondo e adattarsi di conseguenza. “Una differenza cruciale tra una cellula e un transistor su un chip di silicio”, sostiene, “è che la prima ha una configurazione materiale che può modificarsi autonomamente e adattarsi in risposta alle circostanze, mentre il secondo non lo può fare”. Se accettiamo questa teoria, il calcolo wetware potrebbe essere il primo passo verso il raggiungimento di una IA “nano-intenzionale”. Incorporando materia vivente soffice e adattabile all’interno di un sistema tecnologico più ampio, innovazioni come DishBrain potrebbero colmare il divario tra le menti sintetiche e quelle biologiche. La nano-intenzionalità è un’idea molto potente nel momento in cui viene applicata al futuro della tecnologia. Suggerisce che progettare sistemi artificiali a partire da materiali capaci di percezione e adattabilità sia la chiave per comprendere e, gradualmente, colmare la differenza tra cognizione biologica e artificiale. Una IA dotata di nano-intenzionalità potrebbe rivelarsi qualcosa di più di un’evoluzione più energeticamente efficiente dell’attuale: potrebbe incarnare una forma completamente nuova e senza precedenti di intelligenza tecnologica.
“Forse i neuroni in provetta non saranno mai molto bravi a giocare a Pong, ma – se li lasciamo fare – potrebbero riuscire a fare cose ben più sorprendenti”.
Nel suo libro Modi di essere (Rizzoli, 2022) James Bridle propone tre princìpi guida per il futuro della computazione che potrebbero aiutarci a costruire tecnologie ecologiche e meno incentrate sullo sfruttamento. “Le macchine”, scrive Bridle, “dovrebbero essere non binarie, decentralizzate ed essere in uno stato di non-conoscenza [unknowing]”. “Esistere in uno stato di non-conoscenza rende necessaria una sorta di fiducia in noi stessi e nel mondo, per essere in grado di funzionare in un paesaggio complesso e mutevole su cui non abbiamo, e non possiamo avere, il controllo”. Ciò che trovo particolarmente interessante nello studio di DishBrain è che il comportamento dei neuroni, pur essendo orientato a uno scopo, non è del tutto prevedibile. Nelle stesse condizioni, ogni coltura di cellule trova percorsi unici e imprevisti per risolvere un dato problema. Lo stesso protocollo di allenamento potrebbe portare a soluzioni differenti, nate dalla storia filogenetica e ontogenetica di ciascun neurone. Quando si prendono in considerazione le applicazioni di calcolo tradizionale, tale elemento di “ignoranza” nella nostra relazione con la tecnologia può, rispetto ai sistemi “rigidi” e deterministici, essere visto come un difetto. Tuttavia, se il nostro approccio alla tecnologia fosse più soffice, potremmo costituire la base di una nuova creatività e inventiva tecnologica. Forse i neuroni in provetta non saranno mai molto bravi a giocare a Pong, ma – se li lasciamo fare – potrebbero riuscire a fare cose ben più sorprendenti.