I loro costi irrisori minacciano i profitti dell'industria militare, ma attorno a loro si potrebbe costituire un nuovo modello economico basato su un'ideologia del conflitto permanente. La propaganda è già all'opera.
L’accelerazione dell’evoluzione tecnologica durante il conflitto in Ucraina ha gettato nel panico l’industria bellica.
In pochi anni il modo tradizionale di fare guerra, basato su veicoli sempre più grandi e sofisticati – carri armati a terra, caccia supersonici in aria ed enormi navi in mare – è stato reso quasi obsoleto dall’avvento dei droni. Oltre a non aver bisogno di un pilota a bordo sono versatili, piccoli, semplici, economici e veloci da produrre anche su vasta scala. Si parte da qualche centinaio di euro per quelli più artigianali – che possono comunque avere effetti devastanti sul campo di battaglia –, mentre quelli professionali restano nell’ordine di poche decine di migliaia di euro. In aria per esempio vengono utilizzati a sciami, ondate di centinaia di droni che la difesa aerea deve intercettare uno alla volta. È una sfida nuova, perché la contraerea contemporanea è stata costruita per affrontare missili grandi, sofisticati e dispendiosissimi.
La guerra è anche e soprattutto una questione di soldi. La decisione di un comandante di usare una certa arma deve tenere conto anche del suo costo rispetto a quella nemica che si vuole intercettare e distruggere. Un missile antiaereo tradizionale può costare milioni, ed è dunque pensato per intercettare e abbattere un aereo o un missile che di milioni ne costa decine o centinaia. Oggi però questi missili spesso sono usati per abbattere un drone che magari costa mille euro: una sproporzione inaccettabile. Allo stesso modo, i caccia-bombardieri competono in aria con droni da pochi soldi, contro i quali hanno a disposizione solo missili aria-aria che costano mille volte di più. Sul terreno e sul mare il problema è simile: carri armati che costano centinaia di milioni si trovano a doversi difendere da droni che costano meno di un loro proiettile; grandi navi da guerra costate miliardi vengono affondate da droni-siluro con prezzi da Black Friday.
I militari stanno dunque adeguando rapidamente i sistemi di difesa. Si progettano per esempio sistemi che usano anch’essi droni a basso costo, oppure cannoni laser che possano mettere fuori combattimento un drone volante con un solo lampo di luce. Attaccanti e difensori sono concentrati sui sistemi di comunicazione, indispensabili per far funzionare i droni pilotati da remoto, e sulle difese elettroniche. Un’arma che riesce a neutralizzare o confondere le comunicazioni tra il centro di controllo nemico e lo sciame di droni può rendere l’attacco inefficace o sventarlo del tutto.
Per questo l’interesse dei militari per i satelliti per le telecomunicazioni in orbita bassa si è riacceso in questi ultimi anni. I satelliti sono un elemento fondamentale per garantire le comunicazioni sul campo di battaglia, ma soprattutto per mantenere il controllo dei propri droni e cercare di destabilizzare quelli avversari. E i satelliti sono solo il primo passo: si lavora già su piattaforme per comunicazioni da far volare ad alta quota, con l’ausilio di aerostati o aerei ultraleggeri. Insomma, l’industria bellica si sta aggiornando al nuovo modo di fare guerra, stimolando innovazione e nuove tecnologie. Come da sempre nella storia umana, la guerra purtroppo rimane il motore principale dello sviluppo tecnologico, o almeno un grande acceleratore.
“La guerra è anche e soprattutto una questione di soldi. La decisione di un comandante di usare una certa arma deve tenere conto anche del suo costo rispetto a quella nemica che si vuole intercettare e distruggere”.
Ma allora perché ho parlato di panico? Il problema è che i pezzi forti del catalogo militare sono proprio aerei, carri armati, navi da guerra, missili e siluri. Tutta roba che non solo è venduta a prezzi da capogiro, ma che soprattutto garantisce, tra vendita e manutenzione, un livello di guadagni costante: sia in guerra che in pace, i Paesi devono mantenere attivo e funzionante e rinnovare continuamente un buon contingente di costosissimi armamenti tradizionali.
I droni sconvolgono questo schema. Sono “a perdere”, nel senso che il loro utilizzo normalmente copre un paio di missioni al massimo. Oltre ai bassi costi di vendita quindi anche la manutenzione è economica o inesistente. Per questo un futuro in cui serviranno sempre meno aerei, navi, missili o siluri grandi e sofisticati, rimpiazzati da droni a basso costo, si prospetta meno remunerativo, e quindi molto preoccupante per l’industria, che infatti sta correndo ai ripari.
Innanzitutto premendo per un riarmo colossale e rapido: bisogna fare presto e vendere ai governi quante più armi tradizionali possibili prima che si accorgano che queste diventeranno presto obsolete (se non lo sono già). Così varie nazioni europee si affrettano, spinte dai lobbisti, a comprare centinaia di caccia supersonici, migliaia di carri armati e nuove navi da guerra. Stiamo parlando di spese di centinaia, migliaia di miliardi, che in questi mesi vengono approvate a pioggia dai governi europei.
Ma, una volta esaurita questa ondata di contratti multi-miliardari, l’industria bellica dovrà comunque affrontare il problema di come gestire le armi del futuro. Naturalmente si sta già rapidamente adattando alla produzione di droni, sia per offesa che per difesa. Ma la guerra in corso in Ucraina, dove ognuno dei due contendenti dispiega centinaia di droni ogni giorno, insegna che non si tratta solo di progettare e sviluppare droni, ma anche di adattare i processi produttivi: mentre in tempo di guerra un’azienda deve essere in grado di sfornarne migliaia al giorno, in tempo di pace si troverebbe presto con un mercato saturo. Se un Paese belligerante consuma mille droni al giorno, di quanti ne avrà bisogno in tempo di pace? Diecimila? Centomila? E ogni quanto dovranno essere rimpiazzati nelle riserve? Ogni dieci anni? In ogni caso questi numeri, moltiplicati per il basso costo dei singoli droni, significano per le aziende produttrici un clamoroso crollo dei guadagni in tempo di pace, ben più significativo rispetto a quanto succede con le armi tradizionali.
Per questo l’industria bellica sta cercando di gestire questa nuova situazione. E la soluzione più ovvia, purtroppo, è molto semplice: ridurre la differenza tra pace e guerra fino a, idealmente, eliminarla. Fomentare e mantenere viva una guerra permanente che diventi parte della normalità, sia per i governi sia per la popolazione. Droni, possibilmente tanti, che quotidianamente vanno a colpire obiettivi “nemici”, e che quotidianamente dovranno essere rimpiazzati. Altre migliaia gireranno sulle nostre teste per difenderci da quei “nemici” che immancabilmente ci minacceranno.
“Di recente un paio di avvistamenti di droni vicino a Monaco di Baviera sono stati usati da alcuni politici tedeschi per sostenere la reintroduzione del servizio militare obbligatorio: il drone è uno strumento ideale per chi vuole scatenare conflitti o inasprire quelli in atto”.
In fondo stiamo già assistendo ai primi passi di questa trasformazione. La guerra in Ucraina si è avviata ormai da almeno due anni su questa china, con grande impiego di droni, fronti consolidati e un promettente prolungamento all’infinito delle ostilità. Ci sono già Paesi, come Israele, che quotidianamente bombardano (con aerei prima e droni più di recente) i Paesi vicini con una regolarità tale che ormai questi attacchi sono praticamente spariti dai notiziari. Altri, come gli USA, utilizzano droni da combattimento in territori di altri Stati per eliminare quelli che dichiarano essere pericolosi terroristi. Fino a qualche anno fa ogni azione di questo tipo scatenava lo sdegno mondiale e dibattiti etici. Oggi nessuno si scandalizza né protesta più.
Tra l’altro, i droni sono anche un ottimo strumento di propaganda. Il drone non ha insegne, vola basso, può essere lanciato da chiunque anche dal baule di un’auto e fatto sparire rapidamente. Chi vuole usare un drone per attaccare o disturbare un avversario può facilmente tirare il sasso e nascondere la mano. Non è provato, ma neanche tanto improbabile, che la Russia e i suoi alleati ne facciano uso per destabilizzare e confondere i Paesi a loro più ostili dell’Europa occidentale. Allo stesso modo, chiunque può usare i droni per accusare ingiustamente l’avversario. Basta farne alzare in volo un paio vicino a un’infrastruttura critica per far gridare alla violazione dello spazio aereo, al vile attacco terroristico del nemico prescelto, e giustificare così una reazione. Di recente un paio di avvistamenti di droni vicino all’aeroporto di Monaco di Baviera sono stati immediatamente usati da alcuni politici tedeschi per sostenere la reintroduzione del servizio militare obbligatorio. Insomma, il drone è uno strumento ideale per chi vuole impunemente scatenare conflitti o estendere e inasprire quelli già in atto.
Evidentemente c’è in Europa una chiara volontà politica di normalizzare nella popolazione l’idea stessa di guerra. La propaganda attraverso i mezzi di comunicazione di massa ci sta già abituando al nuovo termine, “guerra ibrida”: qualcosa di infido, nascosto ma onnipresente, che fa tanto comodo a chi con la guerra prospera. Meglio ancora: rende più facile giustificare le nostre eventuali azioni offensive, “preventive”, come si dice oggi. E si lavora anche per smantellare quel fastidioso pacifismo diffuso degli ultimi decenni. In questo senso ho letto in un recente libro di Tommaso Greco, Critica della ragione bellica (Laterza, 2025), un riferimento estremamente allarmante, direi agghiacciante, alla risoluzione approvata lo scorso aprile dal Parlamento europeo, in cui si “invitano l’UE e i suoi Stati membri a mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare le conoscenze e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate”. Praticamente un incoraggiamento a educare la popolazione e soprattutto i più giovani alla normalità della guerra.
Insomma, ho paura che ci abitueremo gradualmente allo stato di guerra permanente, che presto finiremo con l’accettarlo, e un giorno non ci meraviglieremo più se il palazzo a fianco al nostro improvvisamente verrà distrutto senza preavviso da un drone bombardiere. Dopo un momento di confusione e preoccupazione, ci scrolleremo la polvere di dosso, ci rallegreremo che non sia successo a noi, e continueremo la nostra vita come se niente fosse successo. Fino al prossimo drone.