Un tempo il colonialismo passava dall'occupazione dei territori. Oggi è nascosto sotto al controllo dei brevetti.
È il 1955 ad Ambilobe, piccolo villaggio nel nord del Madagascar; alle prime luci del giorno, un anziano ombiasy, il guaritore del villaggio, raccoglie con cura le foglie da un cespuglio dai fiori azzurri-viola: le userà per preparare il ranon-vonenina, un infuso capace di alleviare i sintomi di una malattia chiamata areti-sifotra. Un gesto semplice, ordinario, che racchiude una profonda conoscenza della tradizione, testimonianza del profondo legame tra il popolo malgascio e la biodiversità dell’isola. A quindicimila chilometri di distanza, nei laboratori dell’Università di Western Ontario in Canada, i fratelli Clark e Robert Noble e il chimico Charles Beer studiano gli stessi germogli. Dopo anni di esperimenti, isolano finalmente due molecole che rivoluzioneranno la lotta contro il cancro e salveranno milioni di vite.
Due vicende distanti unite da un invisibile filo verde che attraversa oceani e culture: da un lato il sapere indigeno custodito e tramandato a livello locale, dall’altro la scienza moderna con protocolli e strumenti sofisticati. Ma questa non è solo la storia di una scoperta rivoluzionaria e di un incontro tra conoscenze, è anche il racconto di come saperi locali vengano trasformati in profitto a discapito proprio di coloro che per primi ne hanno compreso e custodito il valore.
Nel mosaico di biodiversità del Madagascar la pervinca, chiamata vonenina, è da sempre considerata una pianta salvavita. Gli ombiasy la utilizzavano per trattare numerosi disturbi, dall’areti-sifotra, una malattia i cui sintomi oggi riconduciamo a diabete, infezioni cutanee, febbri, emorragie, parassitosi, disturbi muscolari e ginecologici. Inoltre, l’infuso concentrato, pur provocando spossatezza, riduceva quelli che venivano considerati i “sangui cattivi”, credenza che anticipava inconsapevolmente le proprietà antileucemiche della pianta. Questo sapere empirico, sviluppato attraverso secoli di interazioni tra cultura e biodiversità, rappresentava un vero patrimonio collettivo.
Negli anni Cinquanta la pervinca compariva in diversi resoconti etnobotanici come rimedio antidiabetico diffuso in diversi Paesi, e per questo i fratelli Noble decisero di studiarne gli effetti in laboratorio. I primi risultati furono deludenti, ma emerse un’anomalia: la drastica riduzione dei globuli bianchi. In un contesto oncologico nascente, la capacità di sopprimere la divisione cellulare si rivelò una chiave potenziale per combattere il cancro, trasformando quella serendipità in una scoperta cruciale.
Tra il 1955 e il 1958, i due ricercatori isolano vincristina e vinblastina, due alcaloidi capaci di bloccare la divisione cellulare e distruggere le cellule tumorali a rapida proliferazione. La prima sarà approvata nel 1963 per la leucemia pediatrica, fino ad allora quasi sempre fatale, la seconda nel 1965 per il linfoma di Hodgkin. Ancora oggi entrambi i farmaci figurano nella Lista dei Medicinali Essenziali dell’OMS e si stima che solo negli Stati Uniti abbiano salvato oltre 100.000 vite. Eppure, l’accesso a questi farmaci rimane diseguale: in Madagascar e in altri Paesi a basso e medio reddito, molti bambini non ricevono cure adeguate, a dimostrazione delle profonde asimmetrie della bioeconomia globale.
La vicenda della pervinca del Madagascar rappresenta uno dei casi più emblematici di biopirateria. Questo termine, coniato nel 1993, descrive l’appropriazione di risorse biologiche e delle conoscenze tradizionali da parte di attori esterni. Tale pratica sfrutta il patrimonio immateriale sviluppato attraverso secoli di osservazioni e pratiche collettive da popolazioni spesso marginalizzate, trasformandolo in profitto su scala globale, e le comunità che per prime hanno custodito e compreso il valore di queste risorse vengono escluse da qualsiasi beneficio economico o riconoscimento scientifico.
Il merito dell’invenzione viene attribuito allo scienziato occidentale che isola il principio attivo in laboratorio, mentre le comunità locali vedono il loro contributo cancellato o ridotto a una funzione marginale, senza riconoscimento né benefici economici.
Questa dinamica è profondamente radicata nelle eredità del colonialismo. Se un tempo l’appropriazione passava attraverso l’occupazione di territori, oggi si manifesta in modo più sottile attraverso il controllo dei brevetti. Il sistema brevettuale internazionale rafforza questa asimmetria, poiché la tutela della “novità” esclude l’uso ancestrale e collettivo di pratiche tradizionali, spesso liquidate come semplice “folklore”. In questo modo, il merito dell’invenzione viene attribuito allo scienziato occidentale che isola il principio attivo in laboratorio, mentre le comunità locali vedono il loro contributo cancellato o ridotto a una funzione marginale, senza riconoscimento né benefici economici.
A ciò si aggiunge la struttura stessa della proprietà intellettuale, fondata su criteri scritti e individuali, incompatibili con la dimensione orale e collettiva dei saperi tradizionali. Questa impostazione riflette una visione eurocentrica dell’innovazione che riconosce validità solo alla conoscenza documentata e certificata secondo parametri occidentali, marginalizzando epistemologie diverse. La conseguenza è una persistente disparità tra chi detiene strumenti tecnologici e giuridici e chi custodisce conoscenze millenarie.
Per contrastare la biopirateria, la comunità internazionale ha introdotto diversi strumenti giuridici. La Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), adottata a Rio nel 1992, riconobbe per la prima volta la sovranità degli Stati sulle risorse genetiche, sostituendo l’idea di una biodiversità libera e accessibile a tutti. Inoltre, introdusse due princìpi cardine: il consenso informato preventivo (PIC) e la condivisione giusta ed equa dei benefici (ABS), inclusi quelle derivanti dalle conoscenze tradizionali. Tuttavia, definizioni vaghe, assenza di vincoli concreti e conflitti tra diritti statali e comunitari ne limitarono l’efficacia.
Per rafforzare questi princìpi, nel 2010 fu approvato il Protocollo di Nagoya, entrato in vigore nel 2014. Questo strumento introdusse procedure dettagliate per il consenso informato, accordi formali tra le parti e strumenti di monitoraggio come i checkpoint nazionali e i certificati di conformità internazionale, pensati per garantire il rispetto delle norme. Nonostante i progressi, permangono limiti significativi: il Protocollo, non essendo retroattivo, esclude casi storici come quello della pervinca, inoltre i costi di applicazione rimangono molto elevati e rendono la sua attuazione tuttora disomogenea. Parallelamente l’accordo TRIPS ha rafforzato la logica brevettuale del commercio internazionale, spesso in conflitto con i princìpi di accesso e condivisione equa.
Nel complesso, la CBD ha segnato un progresso nel riconoscimento dei diritti degli Stati, il TRIPS ha consolidato interessi dei Paesi industrializzati, mentre il Protocollo di Nagoya ha tentato di colmare le lacune senza garantire reale equità. Il risultato è che la biopirateria rimane un terreno di tensione tra Nord e Sud del mondo, alimentando una visione che privilegia laboratori, brevetti e capitali a scapito delle comunità tropicali che custodiscono biodiversità e saperi. Questa contraddizione mette in luce la difficoltà, tuttora irrisolta, di riconoscere pienamente il valore delle comunità che da secoli preservano queste conoscenze. Da qui l’urgenza di immaginare nuovi modelli di cooperazione capaci di coniugare ricerca scientifica, valorizzazione delle risorse e giustizia sociale.
Distinguere tra biopirateria e bioprospezione etica è cruciale. Quest’ultima, a differenza della prima, si basa su collaborazione, riconoscimento dei diritti delle comunità locali e condivisione equa dei benefici, sostenendo al contempo la conservazione della biodiversità. Nella pratica però, il confine resta sottile: anche progetti “etici” possono riprodurre vecchie asimmetrie di potere.
Il nodo non riguarda solo la distribuzione dei vantaggi, ma anche le procedure, il riconoscimento epistemico e la trasmissione del sapere. La storia della pervinca mostra chiaramente che il sapere malgascio fu ritenuto valido solo quando “approvato” dalla scienza occidentale, a conferma di una gerarchia epistemica ancora presente.
L’open source biologico, un movimento che applica i princìpi dei software open source alla biologia, ne è un esempio. Prevede l’accesso condiviso alle risorse imponendo la redistribuzione dei benefici coinvolgendo attivamente le comunità e valorizzando i saperi indigeni.
Negli ultimi anni sono emersi modelli di bioprospezione più trasparenti, che coinvolgono attivamente le comunità e valorizzano i saperi indigeni. L’open source biologico, un movimento che applica i princìpi dei software open source alla biologia, ne è un esempio. Prevede l’accesso condiviso alle risorse imponendo la redistribuzione dei benefici. Esperienze come il progetto INBio in Costa Rica o l’accordo sulla Hoodia gordonii con il popolo San del Sudafrica, mostrano come lo sfruttamento possa trasformarsi in un’equa condivisione dei benefici, con pagamenti anticipati, royalties, trasferimento tecnologico e reinvestimento nella conservazione.
Questi casi dimostrano che la compensazione va oltre l’aspetto economico e include benefici sociali, culturali e ambientali. Più che di uno scambio, si tratta di costruire relazioni basate su giustizia sostanziale e responsabilità condivisa, così da aprire la strada a un nuovo concetto di equità nella ricerca e nell’uso della biodiversità.
Le nuove tecnologie stanno ridefinendo la gestione della biodiversità. Strumenti come CRISPR, una tecnologia di editing genetico che permette di modificare in modo preciso, efficiente e relativamente economico il DNA di cellule e organismi, o la biologia sintetica, che consente di progettare e costruire nuovi sistemi biologici o di modificare organismi esistenti in modo programmato per svolgere funzioni specifiche, aprono prospettive inedite ma anche nuove forme di appropriazione genetica.
Queste tecnologie permettono infatti di produrre composti senza ricorrere all’organismo originario, sfruttando sequenze genetiche digitalizzate e dando così vita a una nuova forma di biopirateria digitale (DSI) che, non richiedendo il prelievo fisico di materiale biologico, aggira i controlli di legge. È il caso, ad esempio, dell’artemisinina semi-sintetica, derivata da una pianta usata nella medicina tradizionale cinese, o della stevia, oggi prodotta sinteticamente senza coinvolgere le comunità del Paraguay. Tali esempi evidenziano i limiti del Protocollo di Nagoya, ancora basato sull’accesso fisico alle risorse.
Anche l’intelligenza artificiale accelera ulteriormente la bioprospezione, analizzando enormi quantità di dati biologici per individuare nuove molecole potenzialmente utili. Tuttavia, l’uso di queste tecnologie solleva interrogativi sulla titolarità dei saperi e delle risorse da cui i dati derivano: chi detiene davvero i diritti sui risultati generati dall’IA — le comunità che hanno custodito quelle conoscenze, gli enti che le hanno raccolte o le aziende che le elaborano? Tecnologie e normative sfumano così i confini tra naturale e artificiale, scoperta e invenzione, rendendo urgente una revisione delle regole su proprietà intellettuale e condivisione dei benefici.
Contrastare la biopirateria, oggi, non significa soltanto rafforzare controlli o imporre divieti. Significa piuttosto ripensare il rapporto tra scienza, tecnologia e società, aprendo la strada a riforme legislative sulla proprietà intellettuale capaci di rispondere alle sfide contemporanee e, allo stesso tempo, a una nuova relazione con la natura e con i commons biologici e culturali. Al cuore di questo cambiamento c’è il riconoscimento della pluralità dei saperi e del valore condiviso della biodiversità.
Alcune esperienze di benefit-sharing dimostrano che alternative sono possibili, ma restano isolate in un sistema segnato da profonde disuguaglianze. Per questo contrastare la biopirateria significa ripensare a un nuovo paradigma, più equo e inclusivo.
La subordinazione delle conoscenze tradizionali alla scienza occidentale ha trasformato, per lungo tempo, saperi collettivi in risorse appropriabili. Eppure, queste conoscenze rivelano spesso una straordinaria capacità di osservazione empirica e di lettura delle relazioni ecologiche. Accoglierne la validità non vuol dire rinunciare al rigore scientifico, ma aprirsi a un dialogo più ampio tra diverse forme di conoscenza.
Su questo sfondo emergono domande etiche decisive: chi dovrebbe beneficiare della biodiversità? Solo chi possiede tecnologie e strumenti o anche chi ha custodito queste risorse per generazioni? È giusto che farmaci miliardari restino inaccessibili a chi vive accanto alle piante da cui sono stati ricavati?
Alcune esperienze di benefit-sharing dimostrano che alternative sono possibili, ma restano isolate in un sistema segnato da profonde disuguaglianze. Per questo contrastare la biopirateria significa ripensare a un nuovo paradigma, più equo e inclusivo, capace di restituire valore alla biodiversità e ai saperi che l’hanno accompagnata.
La vicenda della pervinca del Madagascar non è soltanto un monito sulle ingiustizie del passato, ma una lente attraverso cui leggere le questioni di giustizia ed equità della bioeconomia globale. È, al tempo stesso, un invito a immaginare futuri in cui biodiversità e conoscenze tradizionali diventino un patrimonio comune, tutelato e condiviso in nome dell’equità tra popoli e tra generazioni.