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Manuela Gialanella
La natura senza artigli

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Per Darwin la selezione naturale non era solo competizione spietata. Oggi la biologia sfata questa strumentalizzazione e mette in luce un altro fattore chiave dell'evoluzione: la cooperazione.

È domenica pomeriggio, siete sbracati sul divano e state guardando un documentario sugli animali. Uno di quelli classici, con riprese mozzafiato, paesaggi sconosciuti, creature misteriose, e in sottofondo una voce calda che racconta: “I lupi, ancora una volta, scelgono di cooperare fra di loro, lanciandosi in una danza giocosa, evitando il conflitto aperto. Del resto, gli esseri umani, maestri nella condivisione di risorse, fanno la stessa cosa. La cooperazione, l’aiuto reciproco, sono le forze fondamentali che dirigono i processi evolutivi e danno forma al nostro mondo, come scriveva Charles Darwin nell’Origine delle Specie. Ben lontana dalla matrigna che descrive Leopardi, la natura è priva di artigli e retta dalla cooperazione. Dalla minuscola simbiosi che ha luogo nelle nostre cellule fino all’altruismo fra membri di specie diverse, tutto in lei ci ricorda l’importanza del mutuo soccorso”.

Se vi sembra che qualcosa non quadri, se questo paragrafo vi è suonato straniante o poco familiare, avete ragione. È un testo del tutto inventato, non è mai comparso in nessun documentario. Il suo contenuto però non è falso, è solo esagerato. Presenta la cooperazione come forza motrice principale dei processi evolutivi nel mondo animale, sminuendo il ruolo della competizione. 

Un’operazione di esagerazione uguale e contraria viene portata avanti da moltissime persone, nell’ambito della biologia, della politica, della scrittura, da ormai centosessant’anni. Da quando Charles Darwin ha pubblicato L’Origine delle Specie, nel 1859, la retorica secondo cui la selezione naturale sarebbe frutto di una competizione spietata che giustifica e consente la sopravvivenza del più forte è stata usata e riproposta all’infinito. Questa narrazione attinge in maniera disonesta all’originale darwiniano, perché enfatizza il ruolo della competizione e dà a questo fenomeno un’accezione battagliera che non esisteva in Darwin. Allo stesso tempo sminuisce il ruolo della cooperazione, che invece era già presente, almeno come abbozzo, nel primo nucleo della teoria dell’evoluzione.

La selezione naturale descritta da Darwin non è il risultato di una lotta gladiatoria. È vero che i viventi sono in competizione fra loro e che solo alcuni riescono a sopravvivere e a riprodursi. In buona parte, però, si tratta di una competizione indiretta: il cervo che bruca un cespuglio non sta attaccando i suoi simili, non c’è nessuna lotta. Sta solo riducendo le risorse alimentari a cui gli altri cervi possono accedere e perciò sono, indirettamente, in competizione. Ma attenzione. Tutto questo non è in contrasto con l’idea che gli organismi viventi possano, o debbano, cooperare fra loro. Durante una videochiamata, il biologo inglese Josh Arbon me lo spiega meglio: “Spesso non è possibile fare da soli tutto ciò che serve per sopravvivere e soprattutto per riprodursi. La cooperazione in questo senso è un grosso aiuto, ed è diventata parte integrante della vita”. 

“La retorica secondo cui la selezione naturale sarebbe frutto di una competizione spietata che giustifica e consente la sopravvivenza del più forte è stata usata e riproposta all’infinito. Questa narrazione attinge in maniera disonesta all’originale darwiniano”.

Josh è un ricercatore dell’Università di Bristol e studia le manguste nane, i carnivori più piccoli di tutta l’Africa. Simili a minuscoli ermellini, lunghi al massimo una ventina di centimetri, vivono in gruppi che vanno dai due ai trenta individui e sopravvivono proprio grazie alla loro grande capacità di cooperazione. “Nei gruppi di manguste si vedono spesso individui che smettono di mangiare e vanno a mettersi su una roccia o su un cespuglio. Hanno il compito di stare all’erta per individuare i pericoli: diventano sentinelle. Se ci sono minacce, emettono particolari richiami per avvertire gli altri, che corrono a nascondersi. Così facendo sono più visibili per i predatori. Si espongono a un rischio, a beneficio dell’intero gruppo. E c’è reciprocità. La volta successiva qualcun altro sarà sentinella, e saranno loro a goderne. È una sorta di mercato di interazioni biologiche”, mi spiega Josh, agitandosi nella sua t-shirt a righe bianche e nere. 

Darwin non sapeva ancora nulla delle manguste, o dello studio moderno del comportamento animale, l’etologia. Eppure, riconosceva già l’importante ruolo della cooperazione, soprattutto negli insetti eusociali, ovvero api, termiti e formiche. L’espressione “sopravvivenza del più forte” (survival of the fittest), diffusissima e spesso attribuitagli, in realtà non gli apparteneva. Fu coniata nel 1864, cinque anni dopo la pubblicazione dell’Origine, dal sociologo Herbert Spencer, e Darwin stesso la criticò in alcuni suoi passaggi. Non gli apparteneva neanche un’altra espressione celebre, che circolava nei salotti europei fra Ottocento e Novecento, in cui la natura veniva descritta come dotata di “denti e artigli rossi” (red in tooth and claw). Artigli sporchi di sangue, a testimonianza della presunta lotta che la animava in ogni momento. Questa immagine comparve per la prima volta nel 1850, tra le pagine di un’elegia funebre scritta dal poeta Alfred Tennyson in memoria di un amico defunto. 

Nonostante la mancanza di collegamenti diretti con il pensiero evoluzionistico, entrambe le espressioni attecchirono benissimo nelle menti della buona società occidentale. All’epoca infatti si era diffuso il liberismo economico di cui fu precursore il filosofo ed economista settecentesco Adam Smith. In questo contesto, l’individualismo spinto e la competizione diventarono la base della vita politica e sociale. La selezione naturale era la giustificazione perfetta di quella visione della vita. Lo stesso Darwin non era estraneo a queste dinamiche, e riteneva comunque che la competizione fosse il fattore predominante nei processi evolutivi. “Ma pensare alla vita senza cooperazione non ha nessun senso! La cooperazione è parte integrante della vita complessa. Pensa alla cooperazione tra diversi tipi di cellule, i nostri corpi sono pieni di agenti che cooperano. Il problema è che queste frasi sulla competizione spietata suonavano benissimo, e facevano molta presa”, continua Josh. Il loro uso strumentale nella narrazione politica, iniziato con il darwinismo sociale, si è trascinato fino ai giorni nostri, passando dalle politiche di Margaret Thatcher alle interviste podcast di Elon Musk.

Non a caso, una prima crepa in questa visione arrivò da Est. Arrivò da terre ghiacciate, in cui era molto più frequente che piante e animali soccombessero per il freddo spietato che per le zanne di un predatore. Arrivò da un anarchico. 

Nel 1902 il geografo russo Pëtr Kropotkin, nella sua opera Il mutuo appoggio scriveva: 

Il mutuo appoggio è tanto una legge della vita animale quanto lo è la lotta reciproca, ma […] come fattore dell’evoluzione, la prima ha probabilmente un’importanza molto maggiore, in quanto favorisce lo sviluppo delle abitudini e dei caratteri eminentemente atti ad assicurare la conservazione e lo sviluppo della specie.

Nel 1910 un altro russo, il botanico Constantin Merezhkowsky, coniò un termine nuovo per la biologia evoluzionistica: simbiogenesi. Questa parola descriveva la sua ipotesi per cui “l’origine degli organismi [viventi, può venire] dalla combinazione o dall’associazione di due o più esseri che entrano in simbiosi”. In queste due visioni per la prima volta la cooperazione veniva presentata come una forza plasmante alla base della vita complessa, a livello microscopico e macroscopico, cosa che oggi sappiamo essere in buona parte vera. Ci vollero altri settant’anni, però, prima che l’idea si diffondesse davvero in occidente, grazie alla scienziata Lynn Margulis, nota per le sue idee controverse. 

Secondo Margulis, le relazioni simbiotiche e di cooperazione sono l’essenza della storia della vita. Praticamente tutte le forme di vita complesse, sosteneva, hanno sviluppato associazioni simbiotiche con antichi batteri e la nostra stessa esistenza dipende da questo. I mitocondri, piccoli organelli a forma di fagiolo che forniscono energia alle nostre cellule, così come i cloroplasti delle piante, sono stati in passato organismi procarioti, poi inglobati dalle nostre cellule. Ogni milligrammo del nostro corpo, ripeteva, nasce dal sodalizio molecolare tra cellule eucariote, le nostre, ed ex-batteri. Margulis dedicò quasi tutta la sua carriera a dimostrare e a divulgare la sua “teoria dell’endosimbiosi”, incontrando forti resistenze, in parte giustificate dall’inaccuratezza e dall’estremizzazione di alcuni suoi lavori (le ipotesi di origine endosimbiotica che aveva formulato anche per altre strutture cellulari si rivelarono errate) ma soprattutto ideologiche. Quando, nel 1998, pubblicò il libro Pianeta simbiotico, il mondo europeo e nordamericano non era pronto a considerare davvero l’idea di una vita basata sulla cooperazione invece che sulla competizione. Nonostante ciò, riuscì ad allargare la crepa creata da Kropotkin tanti anni prima. 

Se Margulis fu la prima a portare il tema all’attenzione del pubblico occidentale, non fu però la prima in assoluto a interessarsene. Il problema teorico dell’evoluzione della cooperazione, e ancor più dell’altruismo in senso stretto, aveva incuriosito diversi studiosi. Darwin scriveva: “La selezione naturale non produrrà mai in un essere qualcosa di dannoso per sé stesso, poiché la selezione naturale agisce unicamente in funzione e per il bene di ciascuno”. Ma allora, come spiegare l’evoluzione di comportamenti altruistici? Il biologo inglese Bill Hamilton mise a fuoco il problema nei primi anni Sessanta, sistematizzando i vari tipi di interazioni che individui di una stessa specie, o di specie diverse, possono avere fra loro: cooperazione (+, +), altruismo (-, +), egoismo (+, -) e rivalità (-, -). In un’interazione egoistica, quindi, chi intraprende l’azione ha un vantaggio a discapito dell’altro. Al contrario, tutti i partecipanti traggono beneficio da un’azione cooperativa. In tutti e due i casi, l’individuo che porta avanti l’azione ha un vantaggio. 

“Secondo Margulis, le relazioni simbiotiche e di cooperazione sono l’essenza della storia della vita. Praticamente tutte le forme di vita complesse, sosteneva, hanno sviluppato associazioni simbiotiche con antichi batteri e la nostra stessa esistenza dipende da questo”.

L’altruismo, quello vero, restava invece una questione aperta. L’individuo che si comporta in modo altruistico paga un prezzo a beneficio esclusivo dell’altro. Si dice in termini tecnici che abbassa la propria fitness, la sua probabilità di sopravvivere e lasciare il più alto numero di discendenti possibile. È controintuitivo e, in apparenza, anti-darwiniano. Hamilton arrivò alla conclusione che l’altruismo è possibile solo quando la perdita di fitness di un individuo va a favore di individui, con cui di solito è imparentato, che possano portare avanti geni simili o uguali ai suoi. Secondo questa teoria, nota come teoria della fitness inclusiva o kin selection, l’altruismo non sarebbe altro che egoismo genico mascherato. Le larve della salamandra tigre Ambystoma tigrinum, per esempio, evitano di attaccare altre larve con cui sono imparentate. Le api operaie rinunciano a riprodursi, ma aiutano la regina ad accudire le loro sorelle, con cui hanno moltissimo materiale genetico in comune. 

In quest’ottica, in natura, il vero altruismo non esiste.

Negli stessi anni George Price, brillante chimico e genetista, si era trasferito dagli Stati Uniti a Londra. Affascinato dalle teorie di Hamilton, che riteneva sbagliate, aveva lasciato la sua famiglia, accarezzando l’idea di lavorare a un grande progetto, un’equazione che avrebbe rivoluzionato il mondo della ricerca. Ancora oggi molti ritengono che l’equazione di Price sia una modellizzazione elegante e semi universale della teoria dell’evoluzione. Si racconta che, dopo averla formulata, Price cadde in depressione. Aveva constatato che, matematicamente, non c’era spazio per il vero altruismo. I conti non tornavano in nessun modo. Colto da una sorta di crisi mistica, iniziò a regalare i suoi averi a ogni persona bisognosa che incontrava, fino alla rovina. Ormai questa vicenda è diventata quasi una leggenda della biologia evoluzionistica, e in quanto tale viene filtrata e abbellita a ogni nuovo racconto. Però, dice Josh, Price aveva centrato il problema: “Nei documentari a volte vengono mostrate interazioni tra animali diversi dicendo ‘oh guarda che carino, vuole aiutare il suo amico’, ma non è così. Penso che sia impossibile considerare cooperazione e competizione come forze indipendenti, è fuorviante. Quando pensiamo alla cooperazione c’è sempre un elemento competitivo, e viceversa nella competizione ci può essere cooperazione. La mia opinione è che non esista un vero altruismo al di fuori degli esseri umani”. 

Ecco, noi ci troviamo in una posizione strana. Siamo animali a tutti gli effetti e esistono molte teorie sullo sviluppo della socialità e della cooperazione nella nostra specie, raccontate, fra gli altri, dall’economista Samuel Bowles. Può essere che abbiamo iniziato come le manguste, facendoci la guardia a vicenda e collaborando per scacciare i nostri nemici. Può essere che all’inizio fosse tutto un gioco di scambi. Oggi però, la nostra società è tanto complessa, e il nostro “mercato delle interazioni biologiche” tanto grande, che è impossibile capirci qualcosa. Ma ammettiamo anche che io voglia davvero bene ai miei amici solo perché abbiamo ereditato un istinto gregario-opportunista dai nostri antenati. Allo stesso modo, potremmo dire che esistiamo solo per consentire ai nostri geni di riprodursi. Alla fine della giornata però, sdraiati sul divano a guardare la fine di un documentario, immersi nella società ingarbugliata in cui viviamo, qualcosa non tornerà.  La biologia evoluzionistica può raccontarci che i rapporti di coppia o di gruppo si sono sviluppati perché facilitavano la cura della prole. L’etologia può spiegarci che aiutarsi a vicenda dà vantaggi nel grande mercato delle interazioni sociali, e quindi conviene. La nostra natura, però, non ci assolverà per un tradimento, né ci spingerà ad abbracciare chi piange. Quello che decidiamo di fare, o di non fare, è frutto di processi culturali, di mediazioni e di scelte personali. La risposta alla domanda “Perché (non) ci aiutiamo a vicenda?” non potrà esserci sussurrata da nessun piccolo carnivoro o salamandra, purtroppo. 

Manuela Gialanella

Manuela Gialanella è una biologa evoluzionista che da diversi anni lavora nel campo della comunicazione della scienza. Dai musei, alle aule di scuola, passando per byte e inchiostro: qualsiasi mezzo le va bene per parlare di temi legati all’evoluzione, ma anche ai dilemmi e alle contraddizioni che possono nascere in ambito scientifico. Napoletana di origine, vive e lavora fra Milano, Padova e Trieste.

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