Che cosa possono imparare i nostri sistemi tecnici dagli olobionti, le comunità di specie diverse che vivono e si evolvono come un singolo organismo?
Elysia chlorotica, una piccola lumaca marina che vive in acque poco profonde lungo le scogliere delle coste dell’Atlantico, può sostentarsi per diversi mesi attingendo l’energia di cui ha bisogno direttamente dalla luce del sole. Ma, diversamente da una pianta, non è in grado di produrre energia in modo del tutto autonomo; per essere precisi, sarebbe il caso di dire che la ruba. Nei primi anni di vita, la lumaca si nutre di un’alga chiamata Vaucheria litorea; perforando le sue cellule con un organo evolutosi appositamente per questo scopo. Succhiando il contenuto dell’alga ne estrae i cloroplasti, le minuscole strutture interne responsabili della fotosintesi. Questi organelli rubati, chiamati opportunamente “cleptoplasti”, vengono assorbiti e integrati nelle cellule della lumaca stessa, dove continuano a funzionare come se nulla fosse cambiato.
È un fenomeno degno di nota: nelle piante e nelle alghe i cloroplasti non sono autonomi ma agiscono grazie a migliaia di proteine codificate nel nucleo della cellula che li ospita. Elysia chlorotica, tuttavia, li fa funzionare in completa assenza di questo sistema di supporto, e i biologi non sanno come sia possibile. Secondo alcuni, la lumaca potrebbe aver preso in prestito alcuni geni di Vaucheria litorea nel corso dell’evoluzione attraverso un processo chiamato “trasferimento genico orizzontale”, il che la renderebbe una sorta di chimera genetica a metà tra animale e alga. Altri pensano che Elysia chlorotica abbia riprogrammato le proprie proteine per mantenere gli organelli rubati in “vita”, se di vita si può parlare (per approfondire questa domanda, vi rimando a un affascinante articolo pubblicato di recente su Asimov press). In ogni caso, il risultato è un ibrido vivente: un pannello solare dal corpo soffice, stranamente somigliante a una foglia, che si nutre di luce come farebbe una pianta.

Elysia chlorotica. Fonte: Patrick J. Krug, via Wikimedia Commons
Symsagittifera roscoffensis, anche chiamato, in modo improprio ma evocativo, verme “pianta-animale”, spinge questa ibridazione un passo oltre: la sua intera vita dipende da un’alga che si insedia nelle sue cellule poco dopo la nascita. In questa imprevista alleanza, l’alga fotosintetizza, dando energia all’animale; il verme si muove verso la luce, garantendo all’alga la massima esposizione solare possibile. Questi vermi vivono sulle coste in comunità di migliaia di individui, e formano tappeti brulicanti che, quando sono abbastanza densi, sincronizzano i loro movimenti in mulinelli circolari. Il motivo di questa danza a spirale non è del tutto chiaro. Secondo alcuni studiosi contribuisce a massimizzare l’esposizione della superficie della comunità di vermi alla luce, in una sorta di architettura liquida: un superorganismo effimero tenuto insieme dall’improbabile incontro tra mondi enormemente distanti.
Più che singoli organismi, Elysia chlorotica e Symsagittifera roscoffensis sono strani giardini che trapiantano e coltivano altre creature all’interno della propria stessa pelle. Questi esseri prosperano come “olobionti”: intime comunità di specie diverse che scambiano prodotti metabolici, sopravvivono e si evolvono come un unico organismo. Il concetto di “olobionte” fu concepito nella sua accezione moderna dalla biologa Lynn Margulis, che fu la prima scienziata a riconoscere l’importanza fondamentale della simbiosi – la coesistenza, mutualmente benefica, di specie diverse – per l’evoluzione della vita sulla Terra. Fu Margulis a riconoscere che tutti gli organismi eucarioti sul pianeta sono eredi di un antico incontro simbiotico tra microrganismi diversi, che hanno appreso a coesistere in un unico corpo. Negli ultimi anni, è diventato sempre più chiaro agli scienziati che gli olobionti, non tutti così vistosi come quelli che ho appena descritto, non sono eccezioni, ma piuttosto la regola della vita complessa sul nostro pianeta. Pressoché tutti gli organismi pluricellulari sulla Terra possono essere considerati olobionti: dalle mucche che digeriscono l’erba con l’aiuto di microbi intestinali specializzati, ai coralli che costruiscono estese strutture in collaborazione con le alghe fotosintetiche, alle piante che convivono con i batteri azotofissatori nelle loro radici, fino agli esseri umani.

Colonia di Symsagittifera roscoffensis. Fonte: Franks et al., 2016
Ognuno di noi porta con sé trilioni di microbi nell’intestino, sulla pelle e persino nei polmoni, una comunità di organismi invisibili il cui numero (come ormai si sente spesso ripetere) è pari o superiore a quello delle cellule del nostro corpo. I geni di questi partner microbici, insieme a quelli dell’organismo ospite, formano un sistema genetico condiviso chiamato “ologenoma”, dalle straordinarie capacità di adattamento. Davanti a un cambiamento ambientale, infatti, un olobionte non deve aspettare che si verifichino lente mutazioni genetiche nel DNA dell’organismo ospite. Il microbioma può modificarsi molto più rapidamente, prendendo in prestito gli innumerevoli adattamenti che i microbi, nella loro lunghissima storia evolutiva, hanno appreso ben prima di noi. Questi cambiamenti possono modulare moltissime funzioni, come il metabolismo, il sistema immunitario e persino il comportamento, a volte nell’arco di una sola generazione.
I microbi sono innovatori radicali: accelerano l’adattamento delle specie e innescano cambiamenti profondi che si dispiegano dalla scala molecolare a quella planetaria. Queste capacità di innovazione e adattamento dovrebbero farci riflettere. In che modo i microbi possono cambiare il modo in cui immaginiamo e costruiamo le nostre tecnologie? Cosa potrebbe significare, nella pratica, costruire tecnologie come olobionti?
Qualche mese fa, una coalizione di scienziati di diverse discipline ha lanciato un appello all’azione, esortando governi, industrie e istituzioni a sviluppare e adottare tecnologie microbiche come strategia chiave per mitigare la crisi climatica. Pubblicato simultaneamente sulle principali riviste scientifiche, l’appello sostiene che i microbi, a lungo trascurati nelle politiche ecologiche, possano svolgere funzioni essenziali: sequestrare il carbonio, produrre energia, disintossicare i terreni inquinati, per menzionarne alcune. Se i microbi aiutano i sistemi viventi a sviluppare metabolismi migliori e più sostenibili, potrebbero anche aiutare i sistemi tecnologici a fare lo stesso?
Un esempio sorprendente di questa possibilità risale al 2022, quando un gruppo di ricercatori è riuscito ad alimentare un microprocessore non con una batteria o un pannello solare, ma con microrganismi fotosintetici. La tecnologia in questione, chiamata cella biofotovoltaica, è un piccolo dispositivo di laboratorio delle dimensioni di una batteria AA che utilizza il cianobatterio Synechocystis per generare una corrente elettrica costante. Attraverso la propria attività metabolica, la coltura di cianobatteri ha mantenuto un chip Arm Cortex M0+ in funzione per più di sei mesi in condizioni di sola luce ambientale. Come Elysia chlorotica o Symsagittifera roscoffensis, anche questo computer alimentato ad alghe utilizza il metabolismo di una creatura microscopica per dare energia a una struttura ben più estesa e complessa. Potremmo considerarlo, con tutte le cautele del caso, un “olobionte tecnologico”: un’entità ibrida che trae la propria funzionalità dall’incontro improbabile e fecondo con un altro organismo.
Mentre la nostra visione della natura cambia, le nostre tecnologie si trasformano; se le nostre tecnologie si trasformano, anche la nostra visione del mondo, e il modo in cui agiamo al suo interno, possono cambiare.
Quando i ricercatori hanno messo a punto il dispositivo per la prima volta, lo hanno inoculato con una singola specie di batteri fotosintetici. Ma con il tempo, poiché l’esperimento si è svolto in contatto aperto con uno spazio non sterile, altri microbi provenienti dall’aria e dall’ambiente circostante hanno iniziato a occupare la cella biofotovoltaica. Alla fine, l’anodo (la parte del dispositivo in cui viene raccolta l’elettricità) è stato colonizzato da una complessa comunità microbica: diversi tipi di batteri, alcuni dei quali elettroattivi, cioè in grado di trasferire elettroni direttamente all’anodo, e altri che probabilmente svolgevano ruoli di supporto nell’ecosistema metabolico della batteria.
Piuttosto che portare a una perdita di efficienza, questa contaminazione microbica spontanea si è rivelata sorprendentemente benefica. Il sistema è rimasto stabile e funzionale per mesi, senza alcun segno di declino energetico. Gli autori dello studio ritengono che la presenza di un consorzio microbico, piuttosto che di un solo ceppo di cianobatteri, abbia reso il sistema più resiliente e adattabile, soprattutto in condizioni instabili di luce e temperatura. “Sono state riscontrate tracce di un bioma complesso contenente un’ampia gamma di microrganismi”, scrivono i ricercatori. “La presenza di un consorzio di microrganismi nel compartimento anodico, con fotoautotrofi ed eterotrofi che condividono funzioni diverse, può offrire una maggiore stabilità e una minore suscettibilità alla contaminazione”. Non diversamente da quanto avviene negli olobionti in natura, ogni nuova struttura, sia essa artificiale o organica, è una nicchia in grado di ospitare complessità impreviste.
L’architetta Rachel Armstrong, da tempo pioniera nell’ideazione di sistemi ibridi a cavallo tra biologia e tecnologia, ha proposto di integrare un sistema biofotovoltaico simile a quello che ho appena descritto inserendolo negli ambienti abitati. Secondo Armstrong, dovremmo ambire a costruire una “simbiosi ingegnerizzata con i microbi”, creature che tendiamo a considerare invasori nocivi, ma che sono invece potenziali alleati, “tra le forze più potenti in grado di dare forma al nostro mondo”. Il suo progetto Living Architecture, presentato alla Biennale di Architettura del 2016, proponeva la costruzione di celle biofotovoltaiche integrate nella struttura degli edifici. Questi “mattoni viventi” sarebbero stati in grado di nutrirsi delle acque di scarto delle abitazioni e, tramite fotosintesi, avrebbero prodotto sufficiente energia per alimentare sistemi digitali domestici capaci di comunicare e autoregolarsi senza alcun intervento umano, partecipando al cosiddetto “Internet of Things”.


A destra, batteria fotovoltaica utilizzata per alimentare un computer (Bombelli et al. 2022). A sinistra, mattoni fotosintetici nel progetto Living Architecture (Armstrong 2022).
Tecnologie come queste sono ancora molto lontane da poter essere adottate su larga scala, ma, più che come soluzioni concrete, mi interessano come prime manifestazioni di un nuovo modo di concepire la tecnologia: un paradigma che si distanzia profondamente delle macchine rigide, chiuse, e pre-programmate che le hanno precedute. Una delle caratteristiche più interessanti delle tecnologie di questo tipo è il modo in cui gestiscono l’energia di cui hanno bisogno: piuttosto che dipendere da infrastrutture energetiche esterne, sono in grado di raccoglierla dal proprio ambiente e gestirla autonomamente su scala molecolare. In un articolo che ho recentemente pubblicato, ho chiamato questa caratteristica “micro-sostenibilità”, con l’idea che un ripensamento radicale del metabolismo (attualmente insostenibile) delle nostre tecnologie debba partire dalla scala microscopica dei materiali con cui sono costruite. Nel progetto di una tecnologia micro-sostenibile, abbiamo molto da imparare dai microbi e dalle comunità che costruiscono con gli organismi più complessi che li ospitano.
Mi capita spesso di riflettere sulla capacità delle tecnologie di agire come specchi: più le analizzo e le studio, più mi rendo conto che i modelli ingegneristici che applichiamo ai nostri artefatti riflettono l’immagine che abbiamo di noi stessi, della vita in generale, e del mondo nel suo insieme. Diversamente da uno specchio letterale, però, in questo caso entrambi i lati — la realtà primaria e il suo riflesso — sono legati da una reciprocità indissolubile. Costruire tecnologie come olobionti è uno dei molti modi in cui questa reciprocità si manifesta. Se il riconoscimento dell’importanza della simbiosi microbica nell’evoluzione della vita sulla Terra apre la possibilità di costruire tecnologie più sostenibili, la costruzione di queste tecnologie ci permette a sua volta di costruire un rapporto più cooperativo con il mondo più-che-umano. Mentre la nostra visione della natura cambia, le nostre tecnologie si trasformano; se le nostre tecnologie si trasformano, anche la nostra visione del mondo, e il modo in cui agiamo al suo interno, possono cambiare.