Articolo
Laura Tripaldi
La rivoluzione delle macchine morbide

La Rivoluzione Delle Macchine Morbide Cover Tripaldi
arte biologia storia tecnologia

Il nuovo paradigma della soft robotics non cambia solo il modo in cui usiamo la tecnologia, ma anche come pensiamo e conosciamo il mondo.

Qualche mese fa ho visitato la retrospettiva sul Futurismo organizzata in occasione degli ottant’anni dalla morte di Filippo Tommaso Marinetti alla Galleria Nazionale di Roma. Le sale erano piene di archivi di un sogno macchinico ultra-modernista: manifesti, dipinti e sculture coesistevano accanto a motori, telegrafi, automobili e aeroplani. Era impossibile ignorare la voce dell’ideologo visionario del Futurismo che echeggiava nelle sale neoclassiche del museo: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità.” Per i futuristi, ogni macchina era una macchina del tempo: più che strumenti progettati per svolgere uno specifico lavoro, gli oggetti tecnici erano la concretizzazione storica di una tendenza universale dell’umanità verso il progresso. Guardando al di là del portato notoriamente controverso delle sue posizioni politiche, il genio dell’avanguardia futurista fu l’intuizione che l’evoluzione delle macchine fosse in grado di catturare le trasformazioni culturali meglio di qualsiasi altra pratica umana. E dunque che anche le arti e le lettere – massime espressioni dell’umanesimo – dovessero mettersi in ascolto del rombo dei motori. Ma, sebbene il massimo obiettivo dei futuristi fosse catturare l’essenza assoluta della futurità (che ai loro occhi era veloce, violenta, e scintillante), i linguaggi estetici che associamo al “futuro” sono culturalmente situati e in perpetua transizione. E il futuro, ultimamente, ha smesso di somigliare a quello di una volta.


Nell’ottobre 2021, alla Tate Modern di Londra, i visitatori entravano in uno spazio popolato dalla visione di un futuro molto diverso. Organismi fluttuanti e semi-trasparenti si libravano lentamente nell’aria come creature serafiche provenienti dalle profondità oceaniche. Gli aerobes, come li ha battezzati l’artista coreano-americana Anicka Yi che li ha concepiti, sono pachidermici, tranquilli e silenziosi. Questi automi volanti rispondono alla presenza umana, cambiando altitudine e comportamento in base alla prossimità delle persone nello spazio. “Quando guardi questi aerobes, ti danno una sensazione quasi opposta alla uncanny valley”, spiega Yi. “Sai che sono meccanici, eppure sembrano palpabilmente vivi.” Diversamente dai robot antropomorfi, la cui somiglianza imperfetta all’umano genera spesso un senso di sottile inquietudine (in Inglese “uncanniness”, per l’appunto), gli automi di Yi non sono né inquietanti né rassicuranti, ma progettati per suscitare un senso di sublime alterità, come nuotare accanto a una balena nell’oceano. La loro scala è imponente, ma la loro presenza invita all’attenzione piuttosto che al timore. Questi oggetti artistico-tecnologici sono difficili da definire: sono artefatti costruiti dall’uomo, ma non ricoprono nessuna funzione strumentale. Si muovono nell’ambiente guidati dalle loro percezioni, interagendo tra loro e con il mondo che li circonda. Yi li descrive, prendendo in prestito un termine di Donna Haraway, come “una nuova tipologia di specie compagna”. Nei termini di Haraway, una “specie compagna” non è un riflesso familiare dell’umano, ma un’alterità significativa, la cui distanza da noi rende possibile abitare nuove forme di relazione e coesistenza.

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Gli Aerobes di Anicka Yi. Fonte: Tate Modern, 2021

I robot sono strani oggetti di indagine. Ogni volta che li incontro nelle mie ricerche mi trovo a riflettere sul contrasto tra lo scarso impatto che hanno sulla mia vita quotidiana e la presenza ingombrante nel mio immaginario culturale. Certo, i robot industriali ricoprono già impieghi significativi, ma la loro utilità non giustifica del tutto la fascinazione nei loro confronti. Al di là della sua applicazione, ogni robot, nella sua individualità sintetica e auto-contenuta, sembra incarnare qualcosa come la quintessenza dell’oggetto tecnologico. In questi esseri c’è un che di paradigmatico e potente che domina la nostra immaginazione del futuro. E se per molto tempo alla parola “robot” ha corrisposto un’immagine ben specifica (un artefatto antropomorfo, meccanico, rigido), gli automi volanti di Anicka Yi segnalano un cambiamento più ampio nel modo in cui questi oggetti tecnologici sono immaginati e costruiti. 

Negli ultimi vent’anni, il campo della robotica ha attraversato una transizione significativa. Un ambito un tempo dominato da corpi antropomorfi e materiali rigidi ha iniziato ad abbracciare una gamma molto più ampia di possibili incarnazioni, a partire dall’utilizzo di materiali plastici e flessibili in sostituzione all’acciaio e ai polimeri duri. Cecilia Laschi, tra le figure più autorevoli nell’ambito della robotica, ha frequentemente sottolineato come questa transizione dai robot “rigidi” a quelli “soffici” vada ben oltre un semplice cambiamento nella scelta dei materiali, riflettendo invece un più ampio mutamento nell’intera anatomia degli automi, nelle strategie utilizzate per controllarli e nella filosofia con cui sono costruiti. Il risultato ingegneristico più noto raggiunto da Laschi e i suoi colleghi all’Istituto Sant’Anna di Pisa è un braccio robotico ideato originariamente nel 2011 e ispirato all’idrostatica muscolare del polpo. Nel polpo, gli arti sono capaci di comportamenti complessi come nuotare e manipolare oggetti attraverso deformazioni coordinate del tessuto muscolare, senza necessità di componenti rigide. Nel robot progettato da Laschi e i suoi colleghi, il movimento dell’arto robotico è ottenuto in modo analogo attraverso materiali intelligenti deformabili noti come “leghe a memoria di forma”.

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PoseiDrone, robot soffice ispirato al polpo. Fonte: National University of Singapore


Diversamente da un robot convenzionale, questi movimenti non sono pre-programmati, ma emergono dalla risposta del materiale alle forze esterne. Questa nuova logica ingegneristica rientra in ciò che Laschi descrive come intelligenza incarnata (“embodied intelligence”), un approccio in cui il comportamento del robot emerge dall’integrazione tra la sua struttura fisica e l’interazione con il mondo. Il concetto di “embodiment” indica una problematizzazione della separazione gerarchica tra corpo e mente, rappresentazione ed esperienza. Anziché concepire l’intelligenza come il prodotto di una mente attiva che controlla un corpo passivo, l’embodiment enfatizza la relazione tra cognizione e corporeità. Trovando origine nella filosofia, negli ultimi vent’anni questo concetto ha cominciato a diffondersi e affermarsi nel campo dell’ingegneria, aprendo nuove strade per la progettazione di robot versatili e adattivi. “Il polpo rappresenta una dimostrazione biologica di come un comportamento efficace nel mondo reale sia strettamente legato alla morfologia del corpo,” scrivono Laschi e i suoi collaboratori, “un buon esempio di intelligenza incarnata, i cui princìpi derivano dall’osservazione, in natura, che il comportamento adattivo emerge dalla complessa e dinamica interazione tra la morfologia del corpo, il controllo sensomotorio e l’ambiente”.

Qualche mese dopo la mia visita alla Galleria Nazionale, ho visitato a Shanghai una retrospettiva su Hajime Sorayama, un artista giapponese celebre per aver cristallizzato l’immagine del robot novecentesco in un’icona al contempo futurista e nostalgica. A partire dagli anni Ottanta, Sorayama ha riprodotto all’infinito la stessa scultura con minime variazioni: una figura femminile slanciata e curvilinea ricoperta da un’armatura cromata, a metà tra feticcio erotico e divinità di un futuro perduto. Queste opere, etichettate come “Sexy robot” seguita da un numero seriale, sembrano al contempo celebrare e schernire lo stereotipo modernista dell’automa come trionfo del controllo e dell’efficienza meccanica, replicando il miraggio seducente di un futuro luminoso e senza fine. Mentre le creature di Yi ci proiettano in un futuro tecnologico alieno e ancora nascente, le figure di Sorayama sono accattivanti proprio perché riflettono perfettamente le nostre aspettative. Se gli aerobes di Yi sono soffici, sensibili, e radicalmente non-umani, le macchine di Sorayama sono oltre-umane, abbaglianti e inespressive.

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Sexy robot di Hajime Sorayama. Nanzuka Art Institute, Shanghai, 2025.

Eppure, nonostante la loro radicale distanza estetica e filosofica, gli automi di Sorayama e quelli di Yi hanno almeno una cosa in comune: l’inutilità. Più precisamente, sono entrambi oggetti di contemplazione estetica prima che strumenti funzionali. I robot, d’altra parte, sono spesso descritti in termini di ciò che possono fare: come artefatti progettati per facilitare il lavoro, se non per svolgerlo al posto nostro. Questa concezione, che si esprime già nella nota etimologia della parola “robot” (dal ceco robota, “lavoro forzato”, resa popolare dallo scrittore di fantascienza Karel Čapek) è profondamente radicata nella cultura industriale del ventesimo secolo. Eppure i robot, ancora prima che si chiamassero così, non sono sempre stati soltanto strumenti al servizio della produttività umana.

In un articolo del 1964 intitolato Automata and the Origins of Mechanism and Mechanistic Philosophy, lo storico della tecnologia Derek de Solla Price ha tracciato la storia degli automi a partire dall’antichità, proponendo di sovvertire l’idea che queste macchine siano nate in primo luogo come strumenti al servizio del lavoro umano. I meccanismi, scrive Price, hanno da sempre giocato un ruolo concettuale nella filosofia naturale: ancor prima di essere utili, sono stati dispositivi filosofici capaci di riflettere una visione più ampia del mondo. Gli automi hanno accompagnato per secoli l’immaginazione umana, incarnando in forma visibile il funzionamento degli organismi e del cosmo. “Questi automi,” scrive Price, “rendevano vivida e concreta la nozione di legge di natura,” aiutando i pensatori dell’età moderna a immaginare un mondo governato da meccanismi regolari, ancor prima che tali meccanismi potessero essere messi all’opera. In particolare, sostenevano l’idea di una risonanza strutturale tra corpo e cosmo: “Il principio secondo cui i meccanismi del piccolo possono modellare i meccanismi del grande, e l’automa può essere il microcosmo rispetto al macrocosmo dell’universo.” Questa osservazione storica complica l’idea che la macchina sia sempre stata una figura puramente strumentale. In molti casi, la sua utilità materiale era secondaria rispetto alla sua efficacia epistemica. 

Il lavoro di Cecilia Laschi e di molti altri pionieri della robotica sta già mostrando che i nuovi robot possono espandere significativamente le funzionalità, la sostenibilità e la resilienza delle tecnologie del secolo scorso. Ma al di là delle applicazioni, ancora limitate, di questi artefatti, le macchine soffici del ventunesimo secolo sembrano segnalare una transizione più complessa, in primis culturale, nella nostra comprensione della natura e nel nostro modo di relazionarci con il mondo. Le creature fluttuanti di Yi esistono in continuità con una lunga storia della tecnologia in cui gli artefatti erano dispositivi filosofici e cosmologici prima che attrezzi programmati per portare a termine un lavoro. Se gli automi dei secoli passati parlavano di sfere celesti e universi orchestrati come orologi, quali mondi evocano le macchine soffici del ventunesimo secolo? Anche i robot contemporanei, che si muovano nei laboratori di ingegneria o nelle gallerie d’arte, sono per prima cosa strumenti speculativi, e le domande che ci pongono sono molto diverse da quelle degli automi che li hanno preceduti. Oggi, i nuovi automi ci parlano di continuità ecologica, di alterità profonde, e di coesistenze possibili con ciò che è più distante da noi.

Laura Tripaldi

Laura Tripaldi è ricercatrice presso il Center for AI & Culture della New York University di Shanghai. All’intersezione tra filosofia, scienza, e pensiero speculativo, la sua ricerca si concentra sulla materialità delle tecnologie emergenti. Ha un dottorato di ricerca in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali ed è autrice di numerose pubblicazioni italiane ed internazionali. Tra queste, i libri Menti parallele (effequ, 2020, tradotto in Inglese e Spagnolo) e Gender Tech (Laterza, 2022).

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