Per conoscere davvero la biodiversità amazzonica dobbiamo rivolgerci ai saperi millenari dei suoi popoli, un tesoro finalmente riconosciuto anche dalla scienza occidentale.
Difficile separare la parola Amazzonia dalla parola biodiversità. Fateci caso, se c’è l’una, prima o poi segue anche l’altra.
Composto da bios (vita) e diversità, il neologismo ormai quarantenne fu coniato dall’entomologo E.O. Wilson, ispirato dal concetto di diversità biologica di cui Thomas Lovejoy iniziò a parlare nel 1980. Tecnicamente esprime una misura della variabilità e della ricchezza del pianeta, sia essa di geni, specie o ecosistemi. Una misura della diversità della vita che, però, equivale alla vita stessa. Infatti, per come l’abbiamo capita finora, la vita è possibile solo nella diversità. L’uniformità non permette la vita. In un ecosistema ogni specie svolge un ruolo specifico, dal quale dipende l’equilibrio e la stabilità del sistema stesso. In parole più semplici, ogni essere vivente ha bisogno di altri esseri viventi per vivere. Sembra banale, ma se lo fosse non avremmo costruito, per esempio, società urbane pensate per una singola specie, la nostra. Un mondo popolato soltanto da conspecifici non può esistere.
Al contrario, un mondo in cui una specie possieda un unico rappresentante è perfettamente possibile, ci penso ogni volta che guardo la mia gatta. Nairobi è nata in un villaggio remoto dell’Amazzonia. Qualcuno l’ha portata in barca nella nostra comunità quando aveva solo poche settimane di vita. Stava in un palmo della mano e squittiva. La mia palafitta aveva un disperato bisogno di gatti in quel momento perché da quando Pregiudizio non c’era più, scomparso in foresta all’età di 9 anni – traguardo notevole per un gatto in Amazzonia –, i topi avevano ripreso a ballare. “Topi” ha un’accezione offensiva, in realtà la mia capanna riceveva visite di piccoli roditori arboricoli del genere Oecomys. Ospiti illustri ma un po’ invasivi che ormai facevano nidi per la loro prole con brandelli dei miei parei, bucavano sacchi di scorte e attiravano serpenti.
Nairobi arrivò per riportare l’ordine semplicemente attraverso il suo odore. Territorio felino, diceva, vi conviene stare alla larga. Non servì molto tempo perché imparasse a cacciare gli esemplari più temerari che, da allora, finiscono tra le sue grinfie fatali. Dall’aspetto siamese, pelo bianco a macchie caffelatte e intensi occhi azzurri, Nairobi ha imparato in fretta a convivere con tre cani, un pappagallo e due tartarughe di terra – tutti liberi come lei di entrare e uscire dalla palafitta – e con la fauna residente nell’intorno: gli avvoltoi Jaco e Deusa con i loro due piccoli, il falco Gustavo e il caimano Willy. Non ha mai più visto un gatto ed è l’unica rappresentante della sua specie nel raggio di un centinaio di chilometri. Con ognuno di noi, umani, canidi, volatili e rettili, usa un linguaggio specifico, fatto di suoni e movimenti diversi e si fa capire molto bene. Per noi tiene lontani serpenti, ragni, roditori e pipistrelli e da noi ottiene, quando vuole, cibo, protezione e svago.
La biodiversità, come la vita, è un fatto di relazioni. In natura non vi è dubbio che la presenza di molti esseri viventi distinti e di ambienti complessi, con molteplici interazioni, faciliti l’esistenza della vita stessa. Secondo il professor Juan Manuel Guayasamin dell’Università San Francisco di Quito in Ecuador, “la biodiversità genera biodiversità e può essere intesa come auto-catalitica, ovvero come il prodotto di una reazione nella quale è anche catalizzatore”. Col procedere della reazione aumenta il prodotto, che fa aumentare l’azione catalitica, che porta all’aumento della reazione, che aumenta il prodotto… È un po’ come quella tendenza a scegliere un ristorante con tanti clienti piuttosto che uno vuoto: la gente va dove c’è gente, più vita c’è più vita arriva.
Ogni essere vivente ha bisogno di altri esseri viventi per vivere. Sembra banale, ma se lo fosse non avremmo costruito, per esempio, società urbane pensate per una singola specie, la nostra.
Non sappiamo esattamente quanta biodiversità esista sul nostro pianeta, ovvero con quante specie lo condividiamo. Thomas Lovejoy, famoso biologo della conservazione statunitense che ha condotto ricerche in Amazzonia per più di cinquant’anni, diceva “Quando ero studente al college, si parlava di tre milioni di specie viventi, o forse cinque al massimo, di cui la metà era stata descritta. Poi uno scienziato dello Smithsonian Institute ha campionato i coleotteri dai grandi alberi della foresta amazzonica del Perù e ha scoperto così tante specie da stimare che ne mancavano ancora almeno 30 milioni. Da allora, questa stima del numero totale di specie si aggira tra i dieci e i 100 milioni”. Sappiamo che questa ricchezza non è distribuita in modo uniforme e che, tra tutte, l’Amazzonia è la regione biologicamente più diversa del pianeta. Con più del 10% delle specie descritte al mondo compresse in solo lo 0,5% circa della superficie totale del globo, l’Amazzonia ha la più grande concentrazione di biodiversità sulla Terra. Per questo Eliane Brum la definisce il centro del mondo. Giornalista e attivista climatica, nel suo discorso al Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona ha affermato “i centri del mondo sono l’Amazzonia, gli oceani, le foreste e tutti i biomi. Non Madrid, Washington, Parigi, Londra, Francoforte, New York, Tokyo e Pechino. Il centro del mondo è dove c’è la vita e non dove stanno i mercati”.
Un team composto da più di 240 scienziati, provenienti da 40 paesi, riuniti nello Science Panel for the Amazon, sotto il coordinamento del premio Nobel Carlos Nobre, ha pubblicato recentemente una vasta raccolta di lavori scientifici che analizza diversi aspetti dell’Amazzonia, inclusa la sua biodiversità. Nel documento The Amazon We Want figurano stime dettagliate sulla ricchezza di specie nel bioma. Secondo il documento, la biodiversità amazzonica è il risultato di una lunga storia di cambiamenti ambientali e interazioni biologiche che hanno avuto luogo per milioni di anni, assemblata da una combinazione dinamica di processi geologici, climatici ed evolutivi. In un’area di 10.000 m² di foresta pluviale (un quadrato di 100x100m) si trovano più specie di alberi che in tutta Europa. “Alla luce delle conoscenze attuali – si legge – l’Amazzonia è popolata da almeno 40mila specie di piante vascolari, 1.560 specie di farfalle, 425 specie di mammiferi, 427 di anfibi, 371 di rettili, 1.300 specie di uccelli e 2.460 di pesci di acqua dolce”. Per avere un metro di paragone, guardiamo i numeri in Europa secondo la sezione italiana della IUCN: 20.000 specie di piante vascolari, 482 di farfalle, 260 di mammiferi, 85 di anfibi, 151 di rettili, 488 di uccelli e 546 di pesci d’acqua dolce. Su un territorio di dimensioni paragonabili ma con uno sforzo di ricerca infinitamente minore, l’Amazzonia possiede dal doppio al quadruplo di specie per categoria.
Qui le relazioni sono cruciali. E tutti lo sanno. Per questo uomini, animali, funghi e piante cercano alleanze. Facciamo un esempio. Prendiamo un comune esemplare di albero della noce, uno dei tanti che svettano nella foresta intorno alla mia palafitta. È un gigante di 50 metri, ha un metro e mezzo di diametro e un’età stimata di 400 anni. I suoi fiori piccoli e gialli hanno una forma a cappuccio che richiede forza considerevole per essere aperta. Raggiungere il nettare, e così sporcarsi di polline per poi trasportarlo altrove, è un compito per un insetto di discrete dimensioni, per esempio la femmina dell’ape del genere Euglossa, una specie simile al bombo. A impollinazione avvenuta, l’ovario fecondato del fiore dell’albero della noce inizia a svilupparsi e si trasforma in frutto, una capsula legnosa, grande e rotonda, simile a una noce di cocco. All’interno del frutto, gli ovuli fecondati si sviluppano in semi. Questi semi sono le noci del Brasile che conosciamo, dalla forma ovoidale e buonissime. La capsula legnosa che le contiene è molto dura e resistente e impiega circa un anno per raggiungere la dimensione e la durezza finali, mentre le noci maturano. All’ora giusta il frutto cade, ma è così duro che nemmeno una caduta di quaranta metri riesce a romperlo e liberarne i semi.
Uomini, animali, funghi e piante cercano alleanze.
Ecco allora entrare in scena il grande roditore aguti. Con i suoi denti affilati, l’aguti apre il frutto rosicchiando la capsula legnosa. Lo fa per raggiungere le noci, di cui va pazzo. Già che ogni capsula può contenerne fino a ventiquattro, non riesce a mangiarle tutte. Quindi le sotterra. Le nasconde. Illudendosi di ritrovarle in seguito. Dimenticandosi poi di alcuni nascondigli, l’aguti diventa un involontario giardiniere che permette la germinazione di nuove piantine.
Il noce amazzonico è un albero dominante nella foresta pluviale, con un’ampia chioma e un sistema radicale esteso. La prima fornisce ombra e riparo a molte altre piante che possono così trovare le condizioni favorevoli per crescere. Il secondo si intreccia con una fitta rete fungina e vegetale che oltre a nutrirlo e fissarlo al suolo gli permette lo scambio di risorse e informazioni con altri alberi distanti. I ricercatori la chiamano Wood wide web. Grazie a questa rete sotterranea un albero grande, anche detto albero madre, si incarica di sostenere le giovani piante nella fase più delicata della crescita, fornendo loro nutrienti, acqua e segnali chimici di avviso sui pericoli intorno.
Uno dei pericoli dal quale le piantine non possono scappare sono gli erbivori. Ecco allora entrare in scena il cervo mazama, con i suoi begli occhioni, 60 cm di altezza al garrese, snello e agile come serve in una foresta densa e ghiotto di tenere piantine appena nate. Tanto per complicare la matassa delle relazioni, ci tengo a dire che gli erbivori non sono solo dannosi in foresta. Può sembrare controintuitivo ma studi recenti hanno mostrato che la loro presenza fa bene alla biodiversità: infatti, cibandosi di una specie qui e una diversa un po’ più in là, i grandi erbivori selvatici hanno effetti decisivi nel rallentare la perdita di diversità vegetale.
Certo vanno tenuti a bada, e per questo fa la sua comparsa il giaguaro. Predatore al vertice della catena alimentare, il grande felino svolge un ruolo chiave nel controllo delle popolazioni di erbivori impedendo loro di divorare tutte le giovani piantine, garantendo così la sopravvivenza delle future generazioni di alberi. Le carcasse e i resti di caccia del giaguaro contribuiscono alla composizione del suolo e nutrono la rete di funghi che collega le radici delle piante nel sistema sotterraneo di cui sopra. È soltanto grazie a tutti questi attori che, ogni anno, l’abitante umano della foresta può raccogliere le noci, una risorsa preziosa per la sua alimentazione e un’opportunità economica per le comunità locali che le vendono fresche, sottovuoto o lavorate per produrre latte e olio.
“Sembra la fiera dell’Est” ha commentato un giornalista l’ultima volta che ho raccontato questa storia in pubblico.
Con più del 10% delle specie descritte al mondo compresse in solo lo 0,5% circa della superficie totale del globo, l’Amazzonia ha la più grande concentrazione di biodiversità sulla Terra.
Sebbene sia una delle foreste più grandi e intatte del mondo, l’Amazzonia è anche una delle meno conosciute dal punto di vista biologico. Sempre secondo lo Science Panel for the Amazon, nonostante decenni di studi intensivi, le valutazioni attuali sottostimano la reale ricchezza di specie dell’Amazzonia e i ricercatori non si sono ancora avvicinati al giusto ordine di grandezza. L’immensità e il difficile accesso alle regioni più remote rendono il campionamento estremamente impegnativo. Stiamo ancora imparando a conoscere l’affascinante diversità della fauna, della flora e dei funghi amazzonici e ci rendiamo sempre più conto che il bioma potrebbe essere un’entità molto meno fissa di quanto si pensasse in precedenza, la cui composizione non è determinata soltanto da precipitazioni e temperatura. La rete di mutualisti e consumatori ne regola infatti tutti gli aspetti, le numerose interazioni tra questi rappresentano un processo ecologico centrale, senza il quale la foresta cesserebbe di esistere. Basti pensare che l’80% dei suoi alberi fa affidamento sugli animali per la dispersione dei semi.
La ricerca procede a ritmo serrato, gli studiosi continuano a scoprire nuove specie, anche tra i gruppi tassonomici meglio conosciuti, come gli uccelli e i mammiferi. Ogni due giorni si colleziona una nuova specie. “Nuova?”. Ogni volta che la notizia raggiunge il mio villaggio, i miei vicini di palafitta reagiscono allo stesso modo: “Nuova per voi, noi la conoscevamo da millenni”. Di fatto, i popoli tradizionali dell’Amazzonia possiedono una conoscenza profondissima del loro territorio che comprende la flora, la fauna, la geografia, i cicli naturali, le proprietà delle piante, i comportamenti degli animali e i pericoli della foresta. La verità è che nessuna ricerca scientifica sarebbe mai stata possibile per noi occidentali, persi e incapaci di navigare in un ambiente così complesso e ostile, senza la guida e l’esperienza dei nativi. Le loro conoscenze ecologiche non sono un semplice supporto logistico, ma una fonte di saggezza scientifica e culturale e contengono una quantità sorprendente di informazioni sulla biologia, l’ecologia e le proprietà delle risorse naturali amazzoniche. La loro comprensione dell’ambiente va oltre la semplice identificazione di specie. Include una visione olistica delle interconnessioni tra gli elementi naturali e una saggezza pratica accumulata attraverso generazioni di osservazione diretta.
Durante un’indagine botanica condotta dai Royal Kew Gardens di Londra nella foresta intorno alla mia palafitta, per quasi tre anni abbiamo registrato un’enorme quantità di dati proprio grazie a questa conoscenza. Camillo Pedrollo e Stefano Amman, giovani brasiliani all’epoca studenti dell’Istituto Nazionale di Ricerca in Amazzonia (INPA), raccoglievano informazioni di etnobotanica, una disciplina che studia come le diverse società umane conoscono e interagiscono con il mondo vegetale che le circonda e raccoglie dati sulle specie che rivestono un’importanza culturale, economica, medicinale, rituale o simbolica significativa per un determinato gruppo etnico. Pedrollo intervistò 62 persone; Amman 44, nel mio villaggio e in quelli limitrofi. Il campione raccoglieva uomini e donne di tutte le età, dai 6 anni fino agli 81 di Seu Ely, il più anziano a quel tempo. Persone normali, senza ruoli sciamanici o motivi particolari per conoscere le piante. Pura conoscenza collettiva. In pochi minuti – le interviste duravano mezz’ora in tutto – il primo gruppo citò 231 piante medicinali e il secondo 137 specie di alberi utili, in entrambi i casi spiegandone con dovizia di particolari l’uso, la preparazione e il rituale. Chi di noi, senza essere un botanico specializzato, sarebbe capace di ricordare anche solo i nomi di così tante piante?
La verità è che in Amazzonia nessuna ricerca scientifica sarebbe mai stata possibile per noi occidentali senza la guida e l’esperienza dei nativi.
Le conoscenze tradizionali dei popoli dell’Amazzonia rappresentano un patrimonio di inestimabile valore, non solo per le comunità locali, ma per l’intera umanità. Combinare le nostre conoscenze con le loro potrebbe rivelarsi di grande utilità in questo momento storico, e offrire una comprensione più profonda e forse soluzioni più efficaci per la conservazione dell’Amazzonia, della sua biodiversità e degli equilibri del pianeta. È quanto sostiene una ricerca pubblicata a dicembre 2024 dalla prestigiosa rivista Science. Per la prima volta, il magazine scientifico ha accettato un articolo redatto da autori indigeni dell’Amazzonia. “La scienza indigena possiede presupposti diversi da quelli della scienza occidentale e le due devono dialogare per il futuro dell’Amazzonia” ha dichiarato Justino Rezende, uno degli autori, appartenente al popolo Utãpinopona-Tuyuka. Dal titolo Indigenizing Conservation Science for a Sustainable Amazon, l’articolo discute e sottolinea come il dialogo tra la conoscenza occidentale e quella indigena sia essenziale. Il gruppo di ricerca ha riunito 14 studiosi brasiliani tra accademici indigeni e non indigeni provenienti da diverse aree della conoscenza per sintetizzare punti di consonanza e dissonanza tra le due sapienze e integrare teorie e pratiche delle popolazioni indigene con scienze e politiche di conservazione attuali, indicando percorsi e approcci olistici e inclusivi per il futuro sostenibile dell’Amazzonia.
“Questa integrazione si basa su princìpi che da millenni guidano modi di vivere sostenibili” spiega il professor Thiago Mota Cardoso dell’Università Federale di Amazonas. “C’è ancora molto da fare affinché le scienze indigene, come definite dagli autori dell’articolo, siano riconosciute e prese sul serio come prospettiva sulla realtà”. Gli autori appartengono a diverse etnie dell’Amazzonia e presentano, secondo Cardoso, un nuovo modo di guardare il mondo: “Annunciano un nuovo mondo in cui divisioni come natura e società, o soggetto e oggetto non hanno senso concettuale e pratico. Annunciano un mondo senziente, comunicativo e attivo, in cui i collettivi umani devono coesistere con parsimonia e saggezza con i diversi esseri delle acque, delle foreste e del cielo”.
Per una scienza della conservazione più completa, gli autori propongono tre princìpi indigeni: 1) riconoscere che esiste una rete di relazioni tra umani e altri esseri viventi, basata su parentela, comunicazione e scambio; 2) capire che ci sono regole e pratiche per far funzionare questa rete; 3) sapere che questa rete e le attività connesse sono cicliche, seguono i ritmi della natura, e mantengono l’equilibrio tra cielo, terra e acqua.
Soffermiamoci sul termine parentela. “Parente” è come gli indigeni si definiscono e si chiamano tra di loro, a prescindere dall’etnia di provenienza. Il sostantivo non si riferisce al grado di consanguineità – che può essere zero secondo i parametri occidentali – ma al fatto di appartenere a un mondo unico. Justino Rezende continua: “Per noi, ciò che la società occidentale o la scienza occidentale considerano natura non è solo natura. Anche loro sono altre ‘persone’. Gli alberi, le pietre, i pesci, le stelle, sono persone. A livello aereo, anche il sole e la luna sono persone. Tutte queste persone hanno bisogno di essere ascoltate. I nostri antenati ci hanno insegnato che anche loro sono umani: sono nostri cugini, cognati, noi siamo i loro nipoti, i serpenti e i pesci sono i nostri nonni. Il divario sta solo nelle parole, infatti nel linguaggio sciamanico questo concetto diventa più comprensibile: sono nostri parenti. Tutti questi esseri interagiscono con noi, le foreste, i fiumi, questi grandi fiumi amazzonici esistevano già prima di noi. I nostri antenati ci hanno insegnato che questi luoghi hanno i loro proprietari, che vanno rispettati, che con loro bisogna parlare e chiedere il permesso prima di entrare. Se non comprendiamo che ciò che è considerato natura dalla società occidentale deve essere visto in un altro modo, lo sfruttamento incontrollato continuerà”. Con le conseguenze ormai sotto gli occhi di tutti, parenti o no.