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Giulia Negri
La vita su una montagna sempre più calda

La Vita Su Una Montagna Sempre Più Calda Cover Negri
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Che cosa succede agli animali mentre la crisi climatica prende quota?

Nelle torride estati degli ultimi anni, le montagne sempre più sono diventate luogo di rifugio dal caldo cittadino. Chi già le frequentava da tempo avrà notato profondi cambiamenti; chi ci va per le prime volte, forse, ancora no. Secondo diverse ricerche, in alta montagna la crisi climatica si abbatte con più rapidità che su altre aree, e gli effetti più visibili sono ghiacciai che fondono, coperture nevose più rare e di durate inferiori, siccità ed eventi meteorologici più intensi – quando non estremi –, suoli erosi e dissesto idrogeologico. Chi è stato nelle zone montane del Nord-est e di parte della Lombardia avrà avuto modo di notare gli effetti di Vaia e del bostrico sui boschi di abete rosso, mentre sono sempre più frequenti le notizie di crolli, frane, colate detritiche. In questo contesto, diventa ragionevole chiedersi come stia rispondendo la biodiversità.

Pensate a un condominio colpito da un’inondazione: chi vive in basso cercherà di spostarsi man mano più in alto, ma una volta raggiunto l’ultimo piano non c’è più modo di salire. In montagna, all’aumentare delle temperature, flora e fauna salgono di quota, colonizzando aree che prima erano inospitali, abbandonando altitudini che lo sono ora. A differenza del condominio, però, lo spazio utilizzabile si restringe sempre più, fino a che non si raggiunge la cima, e lì non c’è più modo di salire. Per chi già vive lì il destino è segnato. Sono le “specie relitte”, rimaste dopo le glaciazioni in quelle zone che ancora erano adatte per ospitarle. Parliamo, per esempio, del camoscio (in particolare quello appenninico), dello stambecco, della marmotta, dell’ermellino, della lepre variabile, della pernice bianca. 

Per le ultime tre i problemi sono soprattutto legati alla stagione invernale: diventando di colore bianco, la mancanza di neve impedisce di mimetizzarsi, spiccando, anzi, su fondi erbosi o rocciosi. Dal momento che, in alta montagna, i principali predatori sono i rapaci diurni – come l’aquila –, quelli notturni – come la civetta caporosso, quella nana e il gufo reale –, la volpe, i mustelidi – tra cui la martora, l’ermellino, la faina –, capiamo quanto la vita si complichi nel momento in cui queste specie si trovano improvvisamente sprovviste del “mantello dell’invisibilità”.

Non possiamo nemmeno sperare che, con l’innalzamento delle temperature, si riducano i mesi in cui questi animali diventano bianchi: la livrea, infatti, si modifica seguendo il fotoperiodo, ovvero la lunghezza del giorno rispetto a quella della notte. Una soluzione perfetta per evitare di ritrovarsi del colore sbagliato nel caso di alcune giornate fredde a maggio, un po’ meno per convivere con i cambiamenti climatici. Nel caso della pernice e del gallo forcello, poi, l’assenza o carenza di una copertura nevosa impedisce loro di scavare un riparo contro il freddo o i predatori.

Ripensando alla metafora del condominio, la lepre variabile ha un po’ di problemi con l’inquilino del piano di sotto, che si sta prendendo sempre più spazio e risorse. La lepre europea, infatti, con l’aumento delle temperature si espande verso l’alto, entrando in competizione con la sua parente meno comune. Uno studio dell’ISPRA e dell’Università di Torino, in collaborazione con il Parco Nazionale del Gran Paradiso, ha esaminato l’evoluzione della presenza e della distribuzione di entrambe le specie in una valle alpina, confrontando i dati del 2009 e del 2021. Per la prima volta veniva valutato l’impatto dei cambiamenti climatici, in una finestra di 12 anni, su questi animali: alla lepre variabile, purtroppo, era rimasta solo una fascia ristretta in alta quota. Sul sito del Parco Nazionale del Gran Paradiso, a proposito dell’ermellino, è scritto: “Questa specie è monitorata attivamente dal Parco come sentinella degli effetti del cambiamento climatico. Infatti la non corrispondenza tra la stagione della neve e la muta potrebbe esporre l’animale a una maggiore visibilità rendendo più difficile la ricerca di cibo e la fuga dai predatori.”

Per una particolare specie di chiocciole, Arianta arbustorum, un vecchio studio ha misurato di quanti metri queste si sono spostate verso l’alto, ripetendo nel 2011-2012 le registrazioni storiche che erano state effettuate nel 1916-1917 nel Parco nazionale svizzero, nel canton Grigioni. “Il limite altitudinale superiore delle popolazioni di chiocciole è aumentato, in media, di 164 metri in 95 anni, accompagnato da un aumento di 1,6 °C della temperatura media annuale nell’area di indagine”. Nei pendii esposti a sud si è trattato di 233 metri in media, in quelli esposti a nord di 122. In alcuni casi, già allora – lo studio è del 2013 – i molluschi avevano raggiunto zone invalicabili, per la presenza di pareti rocciose verticali senza terreno, che ne impedivano l’ulteriore risalita. Secondo i ricercatori si trattava della prima prova che una specie di invertebrati con bassa capacità di dispersione si fosse spostata verso quote più elevate, in una zona montana, in risposta al riscaldamento climatico.

Già nel 2013 i molluschi avevano raggiunto zone invalicabili, per la presenza di pareti rocciose verticali senza terreno, che ne impedivano l’ulteriore risalita. Secondo i ricercatori si trattava della prima prova che una specie di invertebrati con bassa capacità di dispersione si fosse spostata verso quote più elevate.

Una ricerca decisamente più recente, nell’Austria settentrionale, ha analizzato gli spostamenti di più di 30.000 esemplari di farfalle e falene, appartenenti a 119 specie diverse, registrati negli ultimi settant’anni. La loro presenza media si è alzata di oltre 300 metri di altitudine, processo acceleratosi negli ultimi dieci anni. Le specie generaliste e mobili hanno mostrato spostamenti maggiori rispetto a quelle più specializzate: come per le lepri, chi ha necessità particolari rischia di farne le spese. Un’osservazione interessante ci porta a ragionare anche sugli uccelli: forti cambiamenti nell’uso del suolo nelle zone di pianura potrebbero aver ulteriormente accentuato il loro spostamento verso l’alto.

Questa stessa considerazione si trova in uno studio di quest’anno condotto dai ricercatori dell’Università di Torino nelle Alpi Cozie e Graie, che ha rivelato come le specie adattate al freddo stiano scomparendo anche dove la natura è tutelata. Molti animali, infatti, sono strettamente correlati alle specie vegetali che li ospitano, che offrono loro nutrimento o riparo, e l’abbandono delle attività pastorali, congiuntamente con i cambiamenti climatici, sta portando arbusti e alberi a colonizzare quote sempre maggiori. Le specie più adattate al freddo stanno cedendo il passo, anche tra gli uccelli, a quelle più comuni ad altitudini inferiori.

Ma c’è di più. Sembra che le aree protette non stiano riuscendo a offrire abbastanza aiuto a chi è più specializzato, mostrando una peggior evoluzione, rispetto alle aree esterne, nei confronti dei cambiamenti climatici. Bisogna quindi prestare particolare attenzione alla conservazione di habitat il più possibile eterogenei, con vegetazione diversificata, mantenendo la connettività lungo i gradienti altitudinali anche con interventi attivi, come il controllo dell’invasione degli arbusti. Le aree protette non dovranno essere viste come mausolei, ma come rifugi e corridoi, caratterizzati da pianificazione, monitoraggio, politiche lungimiranti, nella speranza che possano ospitare anche in futuro molte specie caratteristiche delle montagne.

Una review del 2021 cerca di trarre conclusioni ancora più ampie: basandosi su studi con dati di monitoraggio regolari che coprissero almeno 10 anni in alcune zone delle Alpi europee nel periodo 1980-2020, valuta i cambiamenti climatici che si sono verificati, quelli fenologici primaverili e gli spostamenti verso l’alto di piante, animali e funghi. La fenologia studia i rapporti tra i fattori climatici – come la temperatura, il livello di umidità e la durata dell’illuminazione solare – e l’apparizione ciclica di determinati processi biologici, tra cui, nel caso per esempio delle piante, lo sviluppo dei germogli, l’apertura dei fiori, il completamento della maturazione dei frutti, l’ingiallimento e la perdita del fogliame.

A fronte di un aumento della temperatura dell’aria di circa 0,36 °C ogni dieci anni, dal 1970 a oggi, questi fenomeni legati alla primavera sono risultati anticipati tranne che per uccelli e anfibi. In più, gli areali di distribuzione di tutte le specie per le quali sono disponibili dati sufficienti mostrano una tendenza al rialzo di quota. Ma, cosa forse ancora più interessante, con l’eccezione di alcuni gruppi di insetti terrestri come le farfalle, la tendenza all’innalzamento delle piante, dei funghi e degli animali sembra attualmente troppo lenta per seguire i cambiamenti isotermici indotti dal riscaldamento climatico. Quello che emerge, purtroppo, è che buona parte delle specie sta incontrando difficoltà; qualcuno sta riuscendo a cavarsela un po’ meglio, mentre chi è più specializzato, più adattato a condizioni ambientali particolari – come le specie endemiche – fa più fatica. Per tutti, comunque, secondo le ricerche sembra non essere abbastanza. O abbastanza in fretta.

Chiudiamo con una piccolissima nota positiva. Quello che si è osservato, dopo Vaia e il bostrico, è che la biodiversità è, in realtà, aumentata. Può sembrare controintuitivo, ma la formazione di aree aperte nei fitti, bui e puri boschi di abeti rossi ha permesso la colonizzazione di specie vegetali, impollinatori e altri animali laddove prima la mancanza di luce non ne consentiva lo sviluppo. In più, le foglie – o, più comunemente, aghi – di abete rosso rendono il terreno acido, non ospitale per molte specie arboree. Una piccola parentesi: non sono boschi naturali, ma si tratta di alberi piantati dall’uomo, in coltivazioni uniformi. Forse, ora sembrerà meno contrario alla logica che il passaggio da una monocoltura a un qualcosa di diverso abbia portato ricchezza. Credo sia interessante citare due ricerche del 2008, una effettuata nel parco nazionale della foresta bavarese, l’altra nel Parco nazionale della Selva boema.

Quello che si è osservato, dopo Vaia e il bostrico, è che la biodiversità è, in realtà, aumentata. Può sembrare controintuitivo, ma la formazione di aree aperte nei fitti, bui e puri boschi di abeti rossi ha permesso la colonizzazione di specie vegetali, impollinatori e altri animali.

Nella prima, i ricercatori hanno studiato gli effetti delle lacune generate dalle infestazioni del coleottero della corteccia dell’abete rosso sulla biodiversità, confrontandoli con le aperture (per esempio i prati) create dall’uomo in queste foreste, concentrandosi soprattutto sugli insetti. La loro conclusione recitava: “il disturbo causato dagli insetti su scala paesaggistica è un fattore importante per il mantenimento della biodiversità. Esso determina condizioni ambientali più complesse, che vanno a beneficio di altri insetti”. Il secondo articolo, focalizzato sulle specie arboree, addirittura suggeriva come l’impatto dell’operato degli insetti fosse inferiore a quello del diboscamento di salvataggio, suggerendo che per una più rapida rigenerazione della foresta fosse meglio non ricorrere al taglio (che allungava i tempi, passando attraverso la colonizzazione di erbe competitive e specie pioniere).

Ma ciò che forse, diciassette anni dopo, colpisce di più, sono queste parole, provenienti dal primo studio citato del 2008: “Pur non negando questi importanti servizi ecosistemici, dobbiamo osservare che le piantagioni di abete rosso sono oggi ampiamente diffuse anche a quote più basse, dove le condizioni sono molto più favorevoli per Ips typographus rispetto alle foreste montane. Di conseguenza, proprio aggravato dal riscaldamento climatico, dobbiamo aspettarci un ulteriore aumento dell’infestazione degli abeti rossi da parte dei coleotteri della corteccia nel prossimo futuro”. Non è implausibile che si fosse arrivati a simili conclusioni anche prima. La condanna di quanti hanno ricoperto il ruolo di “Cassandra dei cambiamenti climatici” è proprio quella di vedere confermate le proprie profezie, non credute, o credute troppo tardi…

Ancora, più di recente, in un articolo di revisione del 2016 leggiamo come “Da un punto di vista scientifico oggettivo, le infestazioni di coleotteri non distruggono le foreste. Al contrario, in molti casi svolgono un ruolo importante nella promozione della fauna selvatica, della biodiversità e di altri servizi ecologici.” In una ricerca del 2025 si afferma qualcosa di simile. È per noi, quindi, che il lavorio del bostrico risulta problematico: quella che dal punto di vista economico, viabilistico, paesaggistico e anche psicologico, è stata una tragedia, per la natura ha rappresentato un’occasione di rinnovamento.

Giulia Negri sarà tra i docenti di La montagna magica, un ciclo di lezioni di I corsi di Lucy, dedicato al rapporto tra narrazione, esseri umani, non umani e montagna. Dal 18 settembre, per quattro mercoledì, ascolteremo autrici e autori che la montagna la vivono e la raccontano.

Giulia Negri

Giulia Negri, fisica di formazione, è giornalista e divulgatrice scientifica. Ha conseguito un Master in Comunicazione della scienza presso la SISSA di Trieste e ha frequentato la Erice International School of Science Journalism. Collabora come freelance con “la Repubblica”, “Le Scienze”, “Il Tascabile” e “Wired”. Ha lavorato nel gruppo di Outreach di ATLAS al CERN, nell’organizzazione eventi scientifici, nell’editoria scolastica e come social media manager.
Da sempre grande amante della montagna, nel 2018 ha finalmente realizzato il sogno di trasferirvisi a tempo pieno, diventando anche maestra di sci. Ha appena pubblicato “Montagna. Istruzioni per l’uso” per Editori Laterza.

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