I like attivano le stesse reazioni neurali di un tuono, con Google aumentiamo le attività occipito-parietali, con Chat-GPT le connessioni crollano: una mappa dell'armonia encefalica di fronte alle nuove tecnologie.
“Vedo bene che, per render felice un uomo, basta distrarlo dalle sue miserie domestiche e riempire tutti i suoi pensieri”, così scriveva Blaise Pascal. Lo chiamava divertissement: qualsiasi attività capace di distrarci dalla noia che, se protratta, fa affiorare l’angoscia della propria finitudine.
Evidentemente Pascal non si riferiva al nostro continuo “scrollare” sui social. Eppure, se ci pensiamo bene, il concetto è il medesimo. L’odierno divertissement consiste in feed personalizzati, serie da binge-watchare e meme. Analoga condizione, nuova tecnologia.
Ma anche nuova consapevolezza. A differenza del passato, oggi sappiamo che i modi che usiamo per distrarci lasciano tracce effettive nel cervello.
E, guarda caso, il cervello adolescente è il più vulnerabile. Come fosse un’orchestra in prova: gli strumenti ci sono, ma l’armonia è fragile, i tempi incerti, il direttore inesperto. In questa fase sembra basti un applauso fuori tempo – o una notifica sullo schermo – per alterare l’intera esecuzione.
Uno studio pubblicato su JAMA Pediatrics ha seguito 169 americani tra i 12 e i 14 anni, monitorandoli per tre anni consecutivi.
Ai ragazzi è stato chiesto, all’inizio dello studio, di raccontare le loro abitudini: quanto spesso aprivano Facebook, Instagram o Snapchat per controllare le notifiche. Poi, nel corso di tre anni, i ricercatori li hanno richiamati più volte per sottoporli a risonanza magnetica funzionale (fMRI), così da osservare quali aree cerebrali si attivano di più misurandone il consumo di ossigeno. Durante la scansione, i partecipanti svolgevano un compito, il Social Incentive Delay task, pensato per indurre l’attesa e la ricompensa di un feedback sociale. In poche parole, gli studiosi cercavano di osservare cosa accade nel cervello quando riceviamo un like.
L’attenzione dei ricercatori era rivolta a tre reti cerebrali, che lavorano insieme ma con funzioni diverse. La rete motivazionale, a cui appartiene lo striato ventrale, modula quanto siamo attratti da una ricompensa. La rete della salienza affettiva, che coinvolge strutture come l’amigdala e l’insula, segnala ciò che cattura la nostra attenzione e il peso emotivo. Infine, la rete del controllo cognitivo, in cui rientra la corteccia prefrontale dorsolaterale, aiuterebbe a frenare gli impulsi e a prendere decisioni più ponderate.
I ricercatori parlano di maggiore sensibilità alla “salienza”, cioè alla capacità di uno stimolo di catturare l’attenzione. In condizioni normali, questa funzione servirebbe a distinguere il rumore di un tuono da quello di una foglia che cade, ossia a capire cosa è davvero importante.
Con l’adolescenza, queste reti dovrebbero gradualmente ridurre la loro reattività: il cervello impara a ridimensionare l’impatto dei segnali sociali e a gestirli con meno dispendio di energie. Ma per i ragazzi che controllano compulsivamente i social, lo studio ha mostrato l’opposto: invece di attenuarsi, l’attività di tutte e tre le reti aumentava nel tempo. Amigdala, insula e striato ventrale diventano sempre più sensibili ai feedback sociali, e perfino la corteccia prefrontale mostra un’attivazione crescente – un dato che i ricercatori leggono come la traccia di uno sforzo più intenso per frenare gli impulsi. In pratica, il cervello sembra “allenarsi” a dare sempre più valore a like e notifiche, come se fossero segnali fondamentali per la sopravvivenza.
Tecnicamente, i ricercatori parlano di maggiore sensibilità alla “salienza”, cioè alla capacità di uno stimolo di catturare l’attenzione. In condizioni normali, questa funzione servirebbe a distinguere il rumore di un tuono da quello di una foglia che cade, ossia a capire cosa è davvero importante. Nel cervello iperabituato ai social, invece, c’è il rischio che la bussola si sposti e che una notifica finisca per essere interpretata quasi come un tuono improvviso.
E c’è di più. Alcune delle aree che ci motivano all’azione e che vengono rimodellate dall’uso compulsivo dei social sono anche quelle che ci permettono di preservare la concentrazione. L’amigdala e l’insula, ad esempio, ci avvisano di ciò che è saliente, mentre la corteccia prefrontale dovrebbe fare da filtro, lasciando passare le informazioni che contano davvero. In condizioni normali, questi circuiti lavorano come un buon vigile urbano: segnalano gli imprevisti, ma poi rimettono in ordine il traffico. Se però li abituiamo a correre dietro a notifiche e cuoricini, quel vigile finisce per diventare complice del caos: invece di proteggerci dalle distrazioni, potrebbe spingerci a inseguirle.
Insomma, lo scroll compulsivo non è un passatempo innocuo: plasma il cervello ad attribuire sempre più valore all’approvazione esterna, a scapito di ciò che non porta like immediati.
Qui sopraggiunge un altro fenomeno, intrecciato a quello appena descritto. Se la nostra capacità di concentrazione viene così sistematicamente erosa, siamo più facilmente indotti a delegarla. L’esempio tipico lo conosciamo bene: IA.
Un recente studio del Media Lab del Massachusetts Institute of Technology (MIT), pubblicato su arXiv nel 2025, è stato molto discusso per aver portato alla luce gli effetti che l’uso di ChatGPT avrebbe sul cervello umano. I ricercatori hanno messo alla prova 54 studenti chiedendo loro di scrivere brevi saggi in condizioni diverse: alcuni senza alcun aiuto, altri potevano consultare Google ed altri ancora usare ChatGPT. Intanto un caschetto di sensori, l’elettroencefalogramma, registrava l’attività cerebrale, rilevando le scariche elettriche con cui i neuroni comunicano tra loro. È come mettere microfoni intorno a un teatro per ascoltare le prove di un’orchestra: non si coglie il suono di ogni singolo strumento, ma l’armonia complessiva.
In laboratorio, questa sinfonia non resta una metafora: gli scienziati l’hanno tradotta in metriche precise, misurando da un lato quanto le aree cerebrali riuscivano a coordinarsi tra loro durante il compito di scrittura, dall’altro quanto gli studenti ricordassero ciò che loro stessi avevano scritto. È su queste due metriche – l’intesa dell’orchestra neurale e la memoria del testo – che hanno potuto quantificare gli effetti dell’uso di ChatGPT.
I risultati emersi delineano un quadro problematico: più ci si affida a una “intelligenza” esterna, meno l’orchestra cerebrale suona in concerto. Nel gruppo di studenti che scriveva senza alcun aiuto, le connessioni tra le aree cerebrali erano robuste: la corteccia prefrontale, i lobi parietali e le regioni occipitali dialogavano tra loro per mantenere l’attenzione, organizzare il pensiero, trasformarlo in scrittura. Con l’aiuto di Google, la sinfonia non spariva, ma cambiava registro: l’orchestra si faceva meno corale e più ristretta, con un’aumentata attività occipito-parietale verso le aree frontali, come se il cervello fosse più impegnato a integrare informazioni dall’esterno. Con ChatGPT, invece, l’orchestra si riduceva quasi a un quartetto scoordinato: la connettività tra prefrontale, parietale e occipitale crollava, segno che il cervello si stava coordinando di meno.
Pascal, che già considerava la filosofia un divertissement, sarebbe stupefatto da quel che siamo riusciti a ottenere: distrarci con attività che ci rendono dipendenti e, quando non ci distraiamo, delegare a un algoritmo il pensiero stesso. Che dunque regredisce.
E non era solo una questione di onde cerebrali. La riduzione di connettività si rifletteva direttamente sul comportamento. Tanto che gli studenti che scrivevano con ChatGPT riuscivano a ricordare molto meno ciò che avevano scritto. Il saggio sembrava più scorrevole e facile da scrivere, perché ChatGPT alleggeriva lo sforzo, ma al prezzo di un impegno cognitivo ridotto e di un conseguente impoverimento della memoria.
Questi risultati trovano conferma in un altro studio appena pubblicato su PNAS, che ha coinvolto quasi mille studenti di liceo. I partecipanti erano divisi in tre gruppi: il primo, di controllo, risolveva problemi di matematica senza alcun aiuto; il secondo poteva usare un supporto simile alla versione “base” di ChatGPT, che forniva direttamente le soluzioni; il terzo aveva invece accesso ad una versione “tutor”, arricchita da input degli insegnanti per fornire solo suggerimenti e indicazioni, senza dare la risposta finale. Durante la fase di pratica, entrambi i gruppi che usavano supporti esterni hanno ottenuto punteggi più alti rispetto a chi lavorava da solo. Ma quando, nella fase successiva, tutti sono stati messi alla prova con un test di matematica a libro chiuso e senza supporti, gli studenti del gruppo GPT base hanno ottenuto risultati significativamente peggiori rispetto a quelli del gruppo di controllo.
Il risultato è chiaro: l’uso passivo di un sistema che offre risposte pronte indebolisce apprendimento e pensiero analitico.
ChatGPT è dunque la distrazione portata all’estremo, perché ci solleva perfino dalla responsabilità di pensare. Pascal, che già considerava la filosofia un divertissement, sarebbe stupefatto da quel che siamo riusciti a ottenere: distrarci con attività che ci rendono dipendenti e, quando non ci distraiamo, delegare a un algoritmo il pensiero stesso. Che dunque regredisce.
Il premio Nobel Giorgio Parisi ha notato che non ci è voluto troppo per convincere ChatGPT che 5 per 4 fa 25. Ironico solo fino a un certo punto. Ci ricorda quanto sia rischioso delegare il pensiero a una macchina che, a conti fatti, può ancora sbagliare le tabelline.
La domanda allora diventa: a che intelligenza stiamo affidando la nostra? Perché quella umana non è fatta solo di conti a memoria: pianifica, sceglie, frena gli impulsi, collega idee lontane e ha intuizioni improvvise. In neuropsicologia, queste abilità hanno un nome preciso: funzioni esecutive, e poggiano su una rete fondamentale del cervello umano, il network fronto-parietale. In una collaborazione tra la Scuola IMT Alti Studi di Lucca, l’Università di Pisa e l’Università di Padova, i ricercatori hanno messo alla prova i modelli GPT 3.5 e GPT 4 su compiti normalmente usati per valutare l’efficienza delle funzioni esecutive nell’essere umano.
Dai risultati emerge che la versione più recente del modello ha raggiunto prestazioni paragonabili a quelle di un essere umano medio in diversi compiti, pur restando molto debole nelle capacità di pianificazione. La versione precedente, invece, non solo arrancava nella pianificazione, ma mostrava anche punteggi bassi nell’insight, cioè nel saper collegare idee lontane e trovare soluzioni creative. In altre parole, pur con deficit ancora importanti in alcune abilità, basta un salto generazionale per vedere un progresso evidente, a conferma che, con l’aumentare del training di questi modelli, molte lacune vengono rapidamente colmate.
Il rischio, allora, è che, mentre le macchine si affinano, siamo noi a diventare più distratti e fragili nel pensiero. Questo vuol dire che la questione cruciale non riguarda più i limiti degli algoritmi, che a quanto pare sono destinati a ridursi, ma l’impatto del loro uso sull’intelligenza umana. Specie quella in formazione.
L’immagine in copertina è di Agnieszka Rybak-Wolf, Max Delbrück Center