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Elisa Palazzi
L’effetto domino delle montagne

L’effetto Domino Delle Montagne Palazzi Cover
clima natura Scienza

Ghiaccio, neve e suolo sono in un equilibrio che qui può far aumentare le temperatura in maniera molto più rapida che in pianura, innescando dinamiche climatiche con ricadute in vetta e a valle.

Sono le montagne i termometri più precisi della febbre del pianeta. Negli ultimi decenni, hanno vissuto un aumento della temperatura media doppio rispetto al resto del pianeta, con tanti sintomi evidenti. Uno, forse il più percepibile, è la fusione dei ghiacciai, di cui abbiamo già parlato nell’articolo uscito il 24 giugno. 

Un altro è il cambiamento nelle caratteristiche della stagione della neve – il periodo dell’anno in cui la neve caduta resta a terra. Si è accorciata, con le nevicate che arrivano più tardi in autunno e la neve al suolo che fonde in anticipo in primavera. In poco meno di cinquant’anni, tra il 1971 e il 2019, la durata del manto nevoso sull’intero arco Alpino è diminuita del 5,6% per decennio, cioè di una ventina di giorni ogni dieci anni. Anche lo spessore medio stagionale della neve è calato, dell’8,4% per decennio. Inoltre, il manto nevoso è meno stabile di un tempo, in parte perché, alle quote dove le precipitazioni erano sotto forma di neve, oggi spesso piove, e ciò riduce il nutrimento invernale dei ghiacciai e li rende più esposti alla fusione nella stagione calda.

Questi cambiamenti sono legati a condizioni atmosferiche che si manifestano sempre più di frequente, come le intense ondate di calore e lo zero termico – l’altitudine in atmosfera cui bisogna salire per raggiungere temperature che restano uguali a zero o sottozero – più alto. Gli studi dimostrano che lo zero termico estivo, nella regione alpina, è salito di un valore compreso tra circa 50 e 80 m al decennio, negli ultimi 50 anni, come si vede dai dati di uno degli archivi più utilizzati per studi climatici, ERA5 di ECMWF, e dai radiosondaggi. La media climatologica ci dice che storicamente, in estate, lo zero termico era attorno ai 3200-3500 metri sull’arco alpino, ma ultimamente si trova spesso al di sopra dei 4000, con picchi che occasionalmente superano i 5000. 

Nell’estate del 2023, per due volte in due mesi, sui ghiacciai alpini si è superato il record dei 5000 metri di zero termico: 5184 metri il 25 luglio, nel pieno dell’ondata di calore che aveva investito gran parte dell’Europa e 5328 metri il 21 agosto. Altri casi sulle Alpi si sono misurati nel 2024, con 5206 metri in Piemonte in agosto e 4284 in Svizzera a novembre e poi il 28 giugno di quest’anno, in Svizzera, 5136.

Ogni volta che lo zero termico raggiunge quote così elevate, ci mostra in modo tangibile quanto il clima stia cambiando. È un indicatore semplice da comunicare, ancora di più se gli eventi di zero termico estremo non sono isolati ma si ripetono più volte in un anno. In ogni caso, non è necessario sforare i 5000 metri: è sufficiente che lo zero termico si attesti in media sopra i 4000 metri nel periodo estivo per perdere gran parte o tutta la neve accumulata nei mesi freddi e esporre tutti i ghiacciai delle Alpi alla fusione.

Ma perché ghiacciai e neve, e più in generale la criosfera, sono così in sofferenza? La risposta non è solo che fa più caldo (e che nevica meno). C’è di più. Il pianeta si scalda in media di 0,2°C al decennio, ma le montagne lo fanno a 0,3°C al decennio. Questo è dovuto a meccanismi di amplificazione, primo fra tutti la “retroazione ghiaccio-albedo”. Quando le aree coperte da neve e ghiaccio fondono, lasciano suolo nudo, più scuro. Ciò determina un aumento della quantità di radiazione solare assorbita dalla superficie (mentre in presenza di ghiaccio e neve la radiazione viene in gran parte riflessa) e di conseguenza un maggior riscaldamento del suolo e dell’aria che fa fondere il ghiaccio e la neve ancora di più, per lasciare spazio a nuovo suolo nudo in grado di assorbire la radiazione solare e scaldarsi, così da fondere altro ghiaccio e neve, e così via, in un circolo vizioso.

Questa retroazione sfrutta le variazioni di una grandezza chiamata “albedo” – la capacità di una superficie di riflettere la luce solare. Valori di albedo elevati sono tipici di superfici molti riflettenti come la neve o il ghiaccio, mentre valori bassi si riscontrano in superfici scure come oceani, boschi o i suoli, che assorbono più efficacemente la luce solare. Ad esempio, l’albedo è prossima al 90% per la neve fresca, tra il 50 e il 70% per il ghiaccio più vecchio. Se il ghiaccio è coperto da impurità o detriti, polveri desertiche o altri materiali, la sua albedo si abbassa. L’albedo si abbassa anche quando piove sul ghiaccio. Ciò che sta accadendo, quindi, è che i gas serra di origine antropica hanno riscaldato il pianeta alla scala globale, e nelle zone fredde del pianeta, come le montagne, l’innesco della retroazione ghiaccio-albedo ha acuito ulteriormente aumentare il riscaldamento iniziale.

La maggioranza degli studi identifica i cambiamenti di albedo e la retroazione ghiaccio-albedo come il principale meccanismo, comune a tutte le regioni di montagna del mondo, che spiega il riscaldamento maggiore a quote maggiori, specialmente nelle stagioni di transizione. Ma non è l’unico.

Alcuni studi hanno evidenziato che questo aumento è particolarmente marcato nei periodi dell’anno, come l’autunno, in cui avviene la transizione tra superfici libere e superfici innevate. Il riscaldamento climatico sta ritardando l’inizio della copertura nevosa alle quote basse e medie e si prevede che questa tendenza continuerà e si intensificherà in futuro, coinvolgendo anche le quote più elevate. Di conseguenza, in autunno, sono attese aree sempre più estese senza neve (e quindi anche più inclini a scaldarsi), poiché molte zone che in passato erano innevate in questa stagione non lo sono più o potrebbero non esserlo in futuro.

La maggioranza degli studi identifica i cambiamenti di albedo e la retroazione ghiaccio-albedo come il principale meccanismo, comune a tutte le regioni di montagna del mondo, che spiega il riscaldamento maggiore a quote maggiori, specialmente nelle stagioni di transizione. Ma non è l’unico.

Un’atmosfera più calda trattiene più vapore acqueo che, nelle regioni di alta quota, tende a condensare e a formare nubi che intrappolano il calore irradiato dalla superficie terrestre, proprio come fanno i gas serra, amplificando il riscaldamento della superficie. Analizzando dati storici di 71 stazioni meteorologiche distribuite sull’altopiano del Tibet centrale e orientale uno studio ha dimostrato che negli ultimi decenni si è verificato un aumento della quantità di nubi a bassa quota durante la notte, e ciò ha fatto aumentare il riscaldamento notturno in gran parte della regione.

Anche gli aerosol atmosferici, tra cui polveri e fuliggine, trasportati in quota dalle aree urbanizzate, impediscono a parte della radiazione solare di raggiungere la superficie e causano un riscaldamento locale dell’atmosfera in quota.

Alcuni o tutti questi meccanismi, combinati in modo complicato e diverso a seconda delle regioni e delle stagioni, spiegano perché le montagne si scaldano più velocemente del resto del pianeta. Nella letteratura scientifica, a questo fenomeno si dà il nome di Elevation-Dependent Warming (riscaldamento dipendente dalla quota). Fondamentali per dare vita a questo genere di ricerche sono state le idee emerse in un workshop internazionale tenutosi a Payerbach, in Austria, nell’aprile del 2014, che ha dato vita al primo articolo di rassegna su questo tema e porta anche la mia firma.

Le montagne non sono solo termometri sensibili dell’attuale febbre climatica, ma vere e proprie sentinelle del clima futuro. Le Terre Alte di domani avranno un aspetto molto diverso da quelle di oggi, con ghiacciai notevolmente arretrati e in costante perdita di massa, linee di innevamento stagionale a quote molto più elevate, una stagione della neve molto più breve. I cambiamenti nella fusione di neve e ghiaccio causeranno uno spostamento della tempistica delle portate massime dei corsi d’acqua, anticipandole, e, col tempo, una transizione verso regimi prevalentemente pluviali –  i fiumi cioè  saranno alimentati quasi solo dalla pioggia – a causa della minore disponibilità di riserve nevose. Questo cambiamento porterà a meno acqua disponibile in estate, con periodi di siccità più frequenti.

Comprendere le attuali dinamiche climatiche in montagna significa prevedere la traiettoria della crisi climatica futura e preparare strategie di adattamento e mitigazione adeguate.

Inoltre avrà impatti significativi sulla disponibilità di acqua e conseguenze per l’accumulo e la gestione dell’acqua nei bacini destinati all’approvvigionamento idrico e idroelettrico.

Comprendere le attuali dinamiche climatiche in montagna significa prevedere la traiettoria della crisi climatica futura e preparare strategie di adattamento e mitigazione adeguate. Bisogna ridurre le emissioni di gas serra, anche in montagna, con trasporti sostenibili, potenziando i naturali assorbitori di carbonio attraverso la conservazione delle foreste o la tutela delle torbiere, limitando l’impatto delle infrastrutture sciistiche. Per affrontare gli impatti inevitabili del cambiamento climatico si possono orientare le economie di montagna verso attività meno dipendenti dalla neve, rendendo le infrastrutture esistenti più resilienti alle condizioni climatiche estreme, e coinvolgendo le popolazioni che abitano in montagna nella pianificazione e gestione del territorio. 

Capita spesso di confrontarmi con persone che abitano nelle valli montane e altrettanto spesso faccio mie le loro perplessità di fronte a scelte di investimento che assomigliano più a forme di maladattamento che ad azioni efficaci e a lungo termine di contrasto alla crisi climatica. Come i milioni spesi per alimentare la pratica dell’innevamento artificiale che richiede bacini idrici e utilizza risorse cruciali, o la pratica di ricoprire qualche porzione di ghiacciaio con i teli geotessili – spacciata come strategia, peraltro molto costosa e impattante, per salvare il ghiacciaio dalla fusione estiva invece che la stagione sciistica, fino all’insostenibilità delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026.

Si tratta ovviamente di questioni complesse e sfaccettate, ma credo che si debba lavorare con un obiettivo diverso di qui in avanti: quello di pensare a una nuova fruizione della montagna, non concentrata in inverno, accanendosi per avere la neve anche quando naturalmente non c’è, o estate ma più distribuita nel corso dell’anno, per rendere le aree frequentate vivibili, scoprire territori meno conosciuti e diminuire l’impatto antropico sugli ecosistemi locali. 

Elisa Palazzi

Elisa Palazzi è professoressa associata all’Università di Torino dove insegna Fisica del Clima. Studia il clima e i suoi cambiamenti nelle regioni di montagna, sentinelle del cambiamento climatico. È autrice, insieme a Federico Taddia, del libro Perchè la Terra ha la febbre?, Editoriale Scienza (2019) e del podcast “Bello Mondo” da cui è nato il libro Bello Mondo. Clima, attivismo e futuri possibili: un libro per capire quello che gli altri non vogliono capire (Mondadori, 2023). Con Sara Moraca ha scritto Siamo tutti Greta. Le voci inascoltate del cambiamento climatico (Ed. Dedalo 2022). Dal 2022, con l’associazione CentroScienza di Torino, cura il festival “Un grado e mezzo”.

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