Abbiamo concepito a lungo le macchine come strumenti da dominare, ma le loro vere potenzialità giacciono al di là della smania di controllo umana, in una dinamica simile all'evoluzione biologica.
Determinare la direzione dell’evoluzione delle tecnologie – benché siano prodotti dell’ingegno umano – è, quasi sempre, tutt’altro che semplice. Questo paradosso interno al nostro rapporto con le tecnologie, la cui esistenza dipende interamente da noi ma il cui futuro sembra allo stesso tempo sfuggire sempre al nostro controllo, è forse il motivo per cui così tanti autori moderni si sono interrogati sulla natura dell’evoluzione tecnologica. Appena un decennio dopo la pubblicazione di L’origine delle specie di Darwin, l’idea che anche le macchine siano soggette a un processo evolutivo analogo a quello degli organismi viventi comincia già a prendere forma. Nel suo romanzo del 1872 Erewhon, lo scrittore Samuel Butler, ispirato dalla lettura di Darwin, è tra i primi a concepire questa idea: la descrive nel dettaglio nell’immaginario “Libro delle macchine”, a cui sono dedicati gli ultimi capitoli del romanzo. Scrive Butler:
La macchina a vapore assorbe il cibo e lo consuma col fuoco, esattamente come l’uomo. Alimenta la combustione con l’aria, esattamente come l’uomo. Ha un polso e una circolazione, come l’uomo. Per ora, lo ammetto, il corpo dell’uomo è ancora il più versatile, ma è anche più antico. Date alla macchina a vapore solo metà del tempo di cui l’uomo ha potuto disporre, fate che essa approfitti ancora del nostro cieco amore per lei, e a quali vette non giungerà tra breve? […] Si modificherà e si adatterà a un’infinita varietà di scopi, proprio come l’uomo si è modificato fino a conquistare capacità negate ai bruti.
Non è un caso che la fantascienza (o, come si preferisce chiamarla oggi, la “fiction speculativa”) sia stata lo spazio privilegiato per una riflessione filosofica sulla tecnologia e il suo futuro, che ha interessato anche lo scrittore polacco Stanisław Lem, specialmente nel suo testo Summa Technologiae’. Espandendo la visione di Butler, il suo interesse era esplorarne il rapporto con l’evoluzione umana: perché se da un lato le tecnologie sono il prodotto dell’umano, l’essere umano è anche, e sempre di più, il prodotto delle tecnologie che costruisce. La filosofa dell’intelligenza artificiale Bogna Konior ha scritto molto sulla visione della tecnologia nell’opera di Lem. “E se l’’umanità fosse solo un capitolo nella storia della tecnologia, una storia che non è né lineare né inseribile nei tradizionali schemi morali?”, scrive Konior. “Queste domande vanno oltre il fatto che certe tecnologie siano buone o cattive, o quali effetti sociali possano avere, perché la tecnologia non è mera utilità. Come processo esistenziale, essa altera la traiettoria evolutiva e culturale della nostra specie.”
L’evoluzione tecnologica, dunque, può essere compresa in due modi distinti: da un lato come prodotto dell’evoluzione culturale degli esseri umani, dall’altro come processo autonomo le cui conseguenze contribuiscono a loro volta a dare forma alla nostra cultura e identità. È quello che Katherine Hayles ha recentemente definito un processo di “internalità reversibile”: la tecnologia è interna agli esseri umani tanto quanto gli esseri umani sono interni alla tecnologia. Nel concreto, però, il meccanismo dell’evoluzione tecnologica rimane oscuro. Diversamente dagli organismi viventi, le “macchine”, almeno per come comunemente intese, non hanno un patrimonio genetico, non sono in grado di ottenere energia autonomamente e non si riproducono senza il supporto degli esseri umani.
A partire dagli anni Novanta, c’è stato un interesse crescente verso l’evoluzione delle macchine: non tanto dal punto di vista filosofico, quanto, soprattutto, da quello ingegneristico. È possibile introdurre una dinamica evolutiva nella progettazione delle tecnologie? Il primo e più noto esperimento che ha simulato l’’evoluzione biologica in ambito tecnologico risale al 1994. L’informatico Karl Sims progettò un ambiente simulato in cui diverse creature virtuali erano in grado di evolversi attraverso un processo di mutazione casuale e selezione. Nell’esperimento, strutture composte da blocchi rettangolari di diverse dimensioni erano immerse in un ambiente virtuale, dov’era testata la loro idoneità a svolgere varie funzioni, come la locomozione, il salto o il nuoto. Le strutture più adatte erano poi copiate, combinate tra loro e mutate in modo casuale, in un processo analogo alla “riproduzione” biologica. Così, le creature virtuali erano sottoposte a un’evoluzione darwiniana simulata, e producevano corpi sempre più “funzionali” (per quanto, spesso, anche molto bizzarri).
Creature virtuali prodotte tramite evoluzione simulata da Karl Sims (1994).
Nonostante l’entusiasmo che circondò a suo tempo l’esperimento di Sims, esso non condusse agli sviluppi sperati. Per quanto il meccanismo evolutivo si fosse rivelato efficace, l’utilizzo di corpi composti esclusivamente da parti rigide ne limitava le possibilità evolutive. Questo limite è stato evidenziato dal pioniere della robotica Hod Lipson e dai suoi collaboratori. “Una delle ipotesi sul perché non si sia verificato un chiaro aumento della complessità evolutiva”, scrivono gli scienziati, “è che la maggior parte degli studi segue Sims nell’evoluzione delle morfologie con un insieme limitato di elementi rigidi. La natura, al contrario, compone gli organismi con una vasta gamma di materiali diversi, dai tessuti molli alle ossa dure, e utilizza questi materiali per creare sottocomponenti di forme arbitrarie. La capacità di costruire morfologie con materiali eterogenei consente alla natura di produrre corpi più complessi, agili e performanti.”
La complessità materiale dei corpi, dunque, non è affatto un aspetto trascurabile nell’evoluzione, sia essa naturale o tecnologica. A partire da questa considerazione, Lipson e collaboratori hanno proposto una versione aggiornata dell’esperimento di Sims, in cui, questa volta, i corpi artificiali sono composti da “cubetti” dotati di diversi gradi di sofficità. L’introduzione di questa capacità di deformazione e diversità materiale nel processo evolutivo ha prodotto una serie incredibilmente variegata di corpi, che sono stati selezionati sulla base della loro velocità di locomozione. E mentre alcuni di questi organismi artificiali “corrono” in modo molto simile agli animali quadrupedi, altri hanno “inventato” forme di locomozione del tutto nuove.
Creature “soffici” prodotte da Hod Lipson e i suoi collaboratori tramite un processo di evoluzione artificiale (2014).
In entrambi questi esperimenti, l’evoluzione delle macchine avviene interamente in-silico, cioè simulata all’interno di un sistema computazionale. Il vantaggio di questi “algoritmi evolutivi” è la loro velocità: diverse generazioni si susseguono in tempi brevissimi, senza bisogno di prototipi fisici. Ma è davvero possibile riprodurre un fenomeno complesso come l’evoluzione all’interno di un computer? Il fisico Suart Kauffman, in un articolo del 2022 pubblicato con l’informatico Andrea Roli, sostiene che i sistemi computazionali non siano in grado di catturare la libertà e la creatività intrinseche dell’evoluzione biologica. Lungi dal seguire soltanto una dinamica deterministica dettata dalla “sopravvivenza del più adatto”, l’evoluzione biologica si fonda sulla possibilità di un “emergentismo radicale”: eventi fortuiti, come l’incontro simbiotico tra due microorganismi, che cambiano per sempre il corso della vita sulla Terra. Per poter realizzare qualcosa di analogo, anche le macchine hanno bisogno di essere “incarnate”, di confrontarsi con la realtà complessa e contingente dell’ambiente e dei propri corpi.
Alcuni studi recenti hanno cercato di colmare questa lacuna. Emma Hart, studiosa di robotica dell’Università di York, ha proposto un paradigma evolutivo per le macchine chiamato Autonomous Robot Evolution (ARE). Nell’ARE, i robot non si evolvono soltanto sulla base di un “genoma” generato da un algoritmo (come invece avveniva nel caso delle creature artificiali di Karl Sims), ma seguono anche una dinamica “lamarckiana”. Dopo essere stati assemblati, i robot hanno la possibilità di apprendere in tempo reale nuove competenze tramite l’interazione con l’ambiente, e di trasmetterle direttamente alla generazione successiva. In questo modo, l’evoluzione della macchina non è solo il risultato di un calcolo disincarnato, ma il prodotto diretto delle esperienze contingenti di ogni singolo robot.
Uno dei robot evolutivi concepiti da Emma Hart e collaboratori (2021).
In tutti questi studi, ciò che emerge con maggiore chiarezza è che l’evoluzione, nelle macchine come negli organismi, necessita di un certo grado di apertura (o, per usare le parole di Kauffman, “open-endedness”) per poter realizzare a pieno le proprie potenzialità. Nell’evoluzione tecnologica, il controllo umano ha un ruolo importante, ma il controllo totale sottrae libertà al processo evolutivo. Tra i molti studiosi che si sono occupati dell’evoluzione della tecnologia, quello che ha tracciato la sua dinamica con maggiore lucidità è senza dubbio Gilbert Simondon. Nel suo capolavoro del 1958, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, Simondon descrive la dinamica dell’evoluzione tecnologica con estrema precisione, raccontando come ogni macchina esista in uno spazio di confine tra il mondo culturale umano, fatto di desideri, bisogni, e immaginari, e il mondo fisico, controllato da leggi naturali immutabili. L’esistenza della macchina è un continuo negoziato tra questi due mondi, e ha una capacità unica di aprire tra essi uno spazio di libertà senza precedenti.
Nel suo libro, Simondon insiste sul fatto che il rischio più grave nel nostro rapporto con gli oggetti tecnologici è proprio il nostro desiderio di controllo: costringere le macchine a svolgere uno specifico compito in modo perfettamente efficiente, quello che Simondon chiama “ipertelia”, sottrae loro la capacità di adattarsi a nuove funzioni e contesti. Secondo Simondon, le macchine seguono un paradigma evolutivo molto simile a quello degli organismi viventi, ma sono in realtà molto più libere: si evolvono più velocemente, possono essere scomposte e ricomposte in diverse morfologie e, diversamente da un animale o una pianta, non hanno bisogno di essere “perfette” per sopravvivere. Traendo sostentamento dall’immaginazione umana, gli oggetti tecnici rimangono sempre in uno stato di potenzialità, come cristalli nel grembo della terra o embrioni mai del tutto formati. Questa apertura è il combustibile che alimenta un genuino progresso tecnologico, permettendo alle macchine di evolversi in forme sempre nuove.