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Sofia Belardinelli
L’ignoto mondo dei batteri

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biologia salute Scienza

La vita microscopica che ci circonda è essenziale per le nostre esistenze e per la salute dell'ambiente. Allora perché la ricerca scientifica le dedica scarsa attenzione?

Quando pensiamo a un paesaggio naturale, lo immaginiamo popolato esclusivamente da piante e animali. Nulla di sbagliato: in effetti, questi due regni rappresentano la parte della biodiversità che è visibile a occhio nudo. Ma non dobbiamo far sì che questo limite sensoriale umano influisca sulla nostra comprensione della realtà: quello che vediamo non rappresenta la realtà nella sua completezza, e la biodiversità terrestre è composta da molto più che soltanto piante e animali. E la maggior parte di questa biodiversità “altra” vive in una dimensione microscopica che, nonostante i grandi avanzamenti scientifici dell’ultimo secolo, rimane ancora largamente inesplorata.

Una ricerca pubblicata nel 2018 mostra la distanza tra la nostra percezione della composizione della biodiversità e la realtà dei fatti, particolarmente evidente se analizziamo la distribuzione della biomassa del pianeta, cioè il peso degli organismi viventi, che ammonta in totale a circa 550 gigatonnellate (Gt) di carbonio. Gli autori della ricerca, coordinati dallo studioso israeliano Ron Milo, hanno calcolato che il regno vivente più pesante è quello delle piante, che rappresenta l’80% della biomassa della vita della Terra (circa 450 Gt). Se questo dato è coerente con la nostra percezione, le sorprese arrivano già dando uno sguardo al secondo classificato su questo peculiare podio, che non è, come potremmo immaginare, il regno degli animali, ma quello dei batteri, che rappresenta ben il 15% (70Gt) della biomassa totale della vita. Si tratta di un dato sorprendente già in sé, ma che lo diventa ancor di più se messo in relazione alla stazza degli organismi che compongono questi due regni: i batteri sono, appunto, microscopici, eppure, in termini di peso complessivo, surclassano gli animali, che, nella loro interezza (comprese, ad esempio, le oltre 900.000 specie note di insetti, molto leggere in termini di biomassa), pesano “solo” 2 Gt.

“I batteri rappresentano il 15% della biomassa totale della vita”.

Insieme alle piante, dunque, i batteri sono – almeno in termini di abbondanza – i dominatori del nostro pianeta. Eppure di questo regno della vita sappiamo davvero poco: gli studiosi si interessano solo di alcune specie note a causa di una serie di bias (teorici, ma anche molto pratici: ad esempio la difficoltà di rintracciare i batteri, che vivono perlopiù nel sottosuolo profondo).

Di questa distorsione della nostra conoscenza del mondo batterico si occupa un articolo scientifico, pubblicato per ora come pre-print sull’archivio BioRxiv, nel quale il biologo Paul Jensen propone i risultati di un’analisi della letteratura scientifica sui batteri e mostra che “metà dei paper considerati nominano solo dieci specie”, mentre al 74% delle specie batteriche conosciute (circa 43.000) non è mai stata dedicata neanche una pubblicazione scientifica.

Negli ultimi decenni, sottolinea Jensen, la mole di pubblicazioni prodotte dalla comunità scientifica internazionale è sempre aumentata; ha continuato ad allungarsi anche la lista delle nuove specie batteriche scoperte ogni anno, grazie anche all’uso di tecniche sempre più precise per il sequenziamento genetico di intere comunità microbiche. L’unico dato che non ha registrato una tendenza positiva è invece “il numero di articoli pubblicati su ogni specie di batteri studiata”, che tra il 1990 e il 2020 è calato del 60%. Ciò significa che “la densità delle nostre conoscenze – quanto ne sappiamo di ogni specie – sta in realtà diminuendo”.

Questo è rilevante per diversi motivi: in primo luogo perché stiamo rinunciando a conoscere in modo più completo una parte del mondo in cui viviamo. Inoltre, più pragmaticamente, perché molti di questi batteri sono importanti per la salute nostra e del pianeta, e noi non ne sappiamo quasi nulla.

Finora, la ricerca microbiologica (sui batteri e non solo) si è concentrata su alcuni organismi modello – scelti ad esempio per la loro rilevanza medica, o per la loro malleabilità ai trattamenti in laboratorio – sperando che le evidenze raccolte potessero essere generalizzate e risultare esplicative anche per altre specie, e in molti casi, in effetti, è così. Ma nella top-ten compilata da Jensen compaiono alcuni batteri “famosi” (come Escherichia coli) – spesso patogeni per gli umani (come Staphylococcus aureus o Mycobacterium tuberculosis, rispettivamente il secondo e il quarto in classifica) – mentre non ricevono alcuna attenzione altre specie batteriche che sono altrettanto centrali per la salute umana, come molte specie che compongono il nostro microbiota intestinale, o planetaria, come le moltissime comunità batteriche essenziali per lo stoccaggio del carbonio in ambienti come le torbiere.

D’altro canto, in quel 74% di specie di cui si conosce l’esistenza ma che non sono state studiate ci sono anche molti batteri patogeni, dannosi per la nostra salute, che sarebbe opportuno conoscere.

“L’ipotesi di “sconfiggere” i batteri, eliminandoli dalle nostre vite, è irrealizzabile”.

Prendere coscienza della pervasività della vita batterica sul pianeta ci pone di fronte a un’ineludibile verità: i batteri sono ovunque intorno a noi, e con essi abbiamo sempre convissuto (e co-evoluto). Questa consapevolezza sconfessa il diffuso approccio belligerante contro batteri e altri organismi (microscopici e non) considerati parassitari o patogenici: l’ipotesi di “sconfiggere” i batteri, eliminandoli dalle nostre vite, è irrealizzabile.

Partendo da questo presupposto – che “il tentativo di separarci in tal modo dal resto della biosfera è una ricca, e talvolta tragica, storia di fallimenti” – un gruppo di ricercatori americani propone, in un articolo comparso recentemente sulla rivista scientifica Biological Reviews, un “approccio unificato” per la gestione degli agenti patogeni e per affrontare problemi come la resistenza ai farmaci che molti batteri hanno sviluppato in risposta ai nostri tentativi di eradicazione.

Come spiegano gli autori della ricerca, l’era in cui si potevano trovare rapidamente nuovi prodotti chimici efficaci è giunta ormai al termine, e accade sempre più spesso che la lotta mirata ai patogeni faccia emergere problemi collaterali che danneggiano la salute umana (come la resistenza antimicrobica) e che sono causa di degradazione ambientale.

La ragione dell’inefficacia di questo modello “puntuale” che mira all’eradicazione di parassiti e patogeni attraverso un singolo agente antagonista (un farmaco, un predatore, un pesticida) è che innesca un meccanismo di corsa agli armamenti evolutiva, che stimola una risposta adattativa negli organismi che subiscono la “minaccia”. D’altronde – scrivono gli autori dell’articolo – l’adattamento a condizioni sfavorevoli è uno dei modi in cui la vita si è diffusa e diversificata sul nostro pianeta.

Ignorare questa dimensione evolutiva ed ecologica (perché nessun organismo esiste in isolamento, ma tutti sono sempre immersi in una rete di relazioni con altri viventi e con l’ambiente che li accoglie) significa condannare al fallimento i nostri sforzi di controllo. Ed è per questo che gli studiosi suggeriscono, anche quando si tratta di controllare la diffusione di un patogeno, di non accantonare una comprensione evolutiva ed ecologica del fenomeno da affrontare. Studiare i batteri in una prospettiva evolutiva ed ecologica implica però di includere nell’equazione anche gli esseri umani, in quanto membri degli stessi ecosistemi nonché elementi che plasmano l’evoluzione dei batteri e che, a loro volta, ne sono plasmati.

Accettare questa visione coevolutiva vuol dire abbandonare la prospettiva di gestire gli eventi di resistenza singolarmente e adottare invece un approccio olistico. Questo – scrivono gli autori – ricade sotto la denominazione di One Health: “riconosce che la salute di umani, animali, piante, [microrganismi, aggiungiamo noi] ed ecosistemi è interconnessa” e “adotta approcci coordinati, collaborativi, multidisciplinari e intersettoriali per affrontare i rischi di salute già presenti o potenziali che sorgono dall’interazione tra [esseri viventi], umani ed ecosistemi”.

Approfondire la nostra conoscenza del mondo batterico, tanto onnipresente quanto ignorato, è dunque essenziale non solo per estendere la nostra comprensione del mondo che ci circonda, ma anche – e forse soprattutto – per migliorare la qualità della nostra convivenza con gli altri organismi che lo abitano. Per farlo dobbiamo imparare a riconoscere la complessità della realtà in cui viviamo, e accettare che “problemi complessi richiedono soluzioni molteplici e flessibili, da sviluppare con attenzione e umiltà”.

“Ignorare la nostra totale dipendenza dalla vita che brulica intorno a noi equivale al più becero protezionismo”.

Indossare delle lenti di “colore” ecologico e coevolutivo ci restituisce, insomma, una visione della realtà più completa – tridimensionale – mostrandocela sotto una prospettiva che spesso tendiamo a ignorare, concentrati come siamo sul nostro punto di vista monocromaticamente umano.

La cultura occidentale, infatti, è impregnata dell’idea che gli umani siano tendenzialmente diversi (leggasi: superiori) e indipendenti dal resto del mondo naturale. E così di esso ci serviamo, traendone le risorse di cui abbiamo bisogno, ma non ci soffermiamo sulle conseguenze di breve e lungo termine che derivano da questa relazione unilaterale e predatoria con i nostri coinquilini planetari. Si tratta di una visione talmente radicata che, come abbiamo visto, si riflette persino nei nostri sforzi di comprendere il mondo che ci circonda allargando il nostro sguardo verso ciò che umano non è.

Non prendere seriamente in considerazione la nostra relazione di co-evoluzione e co-dipendenza con le altre specie che costituiscono la biosfera è una scelta miope, che si traduce non solo nella cecità conoscitiva data dal fallimento di espandere la nostra visuale verso ciò che non ci è direttamente visibile (e il caso del vasto mondo microscopico ne è un esempio lampante), ma anche nella perdita dell’opportunità di una coesistenza pacifica e fruttuosa e persino nell’aumento dei rischi per noi stessi. Come l’approccio One Health mostra con chiarezza, infatti, l’antropocentrismo è in realtà imprevidente e controproducente anche per noi. Intestardirsi a volersi riconoscere come l’unica specie con il diritto di sfruttare, modificare, persino salvare il pianeta, ignorando la nostra totale dipendenza dalla vita che brulica intorno a noi, equivale al più becero protezionismo – strategia politica che, come la storia insegna, non è mai sostenibile nel lungo periodo.

Sofia Belardinelli

Sofia Belardinelli è dottoressa di ricerca in etica ambientale all’università “Federico II” di Napoli. È Contributing Author e Research Fellow per il settimo Global Environment Outlook dell’UNEP. Attualmente, è ricercatrice post-dottorale per il National Biodiversity Future Centre all’università di Padova. È giornalista scientifica e collabora con diverse testate, tra cui Il Bo Live, Micromega, Il Corriere della Sera e Il Tascabile. Si occupa di temi quali crisi ambientale, biodiversità e giustizia ambientale, ma anche di questioni sociali e di attualità.

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