Visto con gli occhi di un antropologo, un famoso quadro di Van Eyck rivela il modo in cui abbiamo iniziato a concepire la natura nell'età moderna, secondo un modello tuttora valido.
Lo scorso anno il Louvre ha organizzato una piccola mostra-focus consacrata a uno dei più celebri e commentati dipinti olandesi: Madonna del Cancelliere Rolin (1430 ca, pittura a olio su legno di quercia, 71x65cm) di Jan Van Eyck. La monografia che l’accompagna, curata da Sophie Caron, sviscera nuovi aspetti di un’opera che pensavamo di conoscere bene. La mostra offriva un’occasione unica per osservare da vicino un dipinto della loro collezione che per decenni aveva sofferto di un’illuminazione così scarsa da rendere difficile perdersi nei suoi dettagli, come dimostrano le lettere di protesta dei visitatori alla direzione del museo. E per osservarlo non tanto come immagine immateriale o file jpeg, ma nella sua materialità.
Madonna del Cancelliere Rolin è anzitutto dipinto su tre tavole di quercia spesse e pesanti. Una volta tolta la cornice, conservatori e restauratori si sono inoltre accorti che i lati superiore e inferiore sono puntellati da buchi profondi 13centimetri disposti a intervalli regolari. Il pannello era quindi originalmente assemblato con altri elementi (pittorici? scultorei? decorazioni d’altro tipo?) per formare un’opera ibrida nella cappella Saint-Sébastien della chiesa Notre-Dame-du-Châtel d’Autun (sconsacrata e poi demolita durante la Rivoluzione francese) che è difficile oggi da immaginare. È infine emerso il retro del dipinto: un quadrato di falso marmo, il simulacro di una pietra resa con la stessa precisione delle sei colonne – tre di marmo nero, una di marmo verde, una di marmo rosso e una di marmo giallo venata di blu – sulla scena dipinta.
L’opera funzionava come un libro d’ore che accompagnava le preghiere di Nicolas Rolin, consigliere del duca di Borgogna, ritratto a sinistra con le mani giunte e lo sguardo che evita quello della Madonna. Mancato è anche l’incontro con lo spettatore perché, osserva Caron, la prospettiva del dipinto è tale da rendere vana qualsiasi sua proiezione nello spazio pittorico: “In realtà, questi è escluso non solo dall’interazione tra Rolin, la Vergine e il Bambino, ma anche dal mondo stesso dei personaggi raffigurati in primo piano”. È poco più di un testimone della scena anche a causa della mancanza di una prospettiva monofocale e di uno spazio geometrico centrato, omogeneo e misurabile. Il dipinto conta infatti una decina di punti di fuga. Il tutto immerso in una luce che “bagna lo spazio di un’impalpabile nebulosità dorata che ha l’effetto di derealizzare ciò che è raffigurato unificandolo, di abolire lo scorrere del tempo” (Philippe Descola, Les formes du visible. Une anthropologie de la figuration, Seuil 2021).
Di questo microcosmo colpisce la profusione e precisione dei dettagli. È difficile da credere per chi dispone solo di una riproduzione, per quanto in alta risoluzione, ma pare che Van Eyck sia riuscito a stipare su questa superficie all’incirca duemila personaggi, microscopici e resi con finissimi colpi di pennello. Secondo Pierre-Olivier Dittmar, il pittore sfida ad armi pari la miniatura. I personaggi sono ovunque: nelle strade della città (a destra) e del borgo (a sinistra), lungo i margini del fiume, sul ponte ma anche sui sentieri meno battuti che si perdono nella campagna o s’inerpicano sui colli.
Jan van Eyck, La Vierge du chancelier Rolin (1430/1435) © 2023 GrandPalaisRmn (musée du Louvre) / Michel Urtado
È un paesaggio brulicante di vita umana, dove i segni del territorio modellato dalla mano dell’uomo si mostrano nelle vigne, nei terrazzamenti, nelle anse del fiume – “il risultato della rivoluzione energetica medievale basata sull’uso del mulino ad acqua” (Grégory Quenet). Tuttavia Van Eyck non si limita a rappresentare un territorio antropizzato: “Qui, le forme umane, animali e vegetali interagiscono spesso senza che i rapporti di scala vengano rispettati, unite da un trattamento ornamentale ma anche da un discorso morale che insiste sulla perdita di sovranità dell’uomo sul mondo in seguito alla Caduta” (Pierre-Olivier Dittmar).
Se oggi guardiamo con occhi nuovi la Madonna del Cancelliere Rolin non è grazie alle ricerche puntigliose della storia dell’arte ma a quelle dell’antropologia delle immagini. Philippe Descola vi ha dedicato alcune pagine in Les formes du visible, magnum opus che segue Oltre natura e cultura (uscito in Francia nel 2005 e pubblicato in Italia da Raffaello Cortina nel 2021). Navigare nel pensiero di Descola è un’impresa ostica: tra gli studiosi francesi viventi più commentati, gli è stato dedicato un libro-omaggio (Au seuil de la forêt, 2019) che conta 1132 pagine! A interessarci qui è solo il momento in cui la pittura olandese diventa il fulcro della sua riflessione squisitamente antropologica.
Oltre natura e cultura è il risultato di una ricerca imponente svoltasi, ammette Descola, essenzialmente su fonti scritte, per quanto disparate, quali saggi di filosofia e scienza, trattati di teologia, raccolte di miti, discorsi rituali. Descola individua, nelle società umane di ogni continente, quattro ontologie o modi di cogliere le continuità e discontinuità tra umani e non-umani, quattro modi di fare mondo (mondiation, là dove Donna Haraway parla di wordling, tradotto con un heideggeriano “mondeggiare”): totemismo, analogismo, animismo e naturalismo.
L’intuizione risale ai suoi soggiorni in Amazzonia, quando si accorge che molti popoli, come gli indiani Jivaro-Achuar, ignorano la distinzione netta tra umani e non-umani dal punto di vista dell’interiorità: piante, animali e artefatti hanno una soggettività, uno spirito, una coscienza, una vita sociale e culturale. È un mondo animista opposto a quello in cui siamo stati educati e che Descola chiama naturalista, dove gli umani si sono attribuiti un’interiorità esclusiva, un cogito distinto rispetto a quello degli altri esseri organici ed inorganici.
Ora, se quest’ipotesi è pertinente, dovremmo ritrovare le quattro ontologie non solo nelle fonti scritte ma anche in quelle visive. In che modo queste mondiations diventano visibili?
Il 16 febbraio 2010, cinque anni dopo Oltre natura e cultura, apre al Musée du quai Branly di Parigi la mostra La fabrique des images. Visions du monde et formes de la représentation. È qui che Descola si confronta per la prima volta col dipinto di Van Eyck. Dedito all’antropologia della natura (questo era il nome della sua cattedra al Collège de France), a interessare Descola non è l’iconologia della sacra conversazione, ma il fatto che nel paesaggio sullo sfondo “regna lo spazio omogeneo e infinito della res extensa” che s’integra senza soluzioni di continuità alla scena in primo piano. Detto altrimenti, qui si dà a vedere uno dei primi paesaggi della pittura occidentale, un’immagine compiuta della cosiddetta ontologia naturalista. Una visione del mondo che emerge distintamente nell’arte del ritratto e nel paesaggio della pittura olandese sin dal XV secolo. Pensiamo alle tipiche scene di vita quotidiana, “questa tenerezza per il reale, quest’attenzione servile alle cose così come sono”, riscontrabili, oltre che nei paesaggi, negli animali e nella natura morta con la sua “vittoria dell’immanenza sul sublime”.
“Nel paesaggio regna lo spazio omogeneo e infinito della res extensa, un’immagine compiuta della cosiddetta ontologia naturalista, tra le prime nella storia della pittura occidentale”.
Passano altri dieci anni e, nel già citato Les formes du visible, Descola torna sul dipinto di Van Eyck e sull’emergere della figurazione europea nel XV secolo. Rispetto alla prospettiva lineare inventata in Italia, i pittori del Nord praticano “una scienza dell’osservazione e della descrizione empirica […], una scienza del concreto che ha grandemente contribuito a far emergere la natura come espressione visibile dell’unità propria di cui testimonia l’assemblage degli esseri e delle cose, non malgrado la loro diversità, ma grazie a essa”.
Les formes du visible è uscito solo quattro anni fa ma ha già suscitato analisi e confronti serrati, come quelli dello storico dell’ambiente Grégory Quenet in un libro decisivo per l’ecologia delle immagini: L’Écologie au musée. Un après-midi au Louvre (Éditions Macula 2024). Il paesaggio sullo sfondo è stato spesso considerato in funzione della scena principale: in una classica lettura iconologica, i fiori (gigli, rose selvatiche, iris, fiordalisi, forse peonie) e gli animali (pavoni, gazze, conigli schiacciati dalla base di una colonna) sono stati considerati in rapporto alla scena sacra o come attributi della Vergine. Una perfetta corrispondenza tra l’evento sacro e il paesaggio retrostante. E questo malgrado non manchino elementi incongrui come lo spazio della loggia, coperto ma spalancato su un esterno in cui i dettagli zampillano.
Da storico dell’ambiente, Quenet spezza questa corrispondenza – che si gioca sul piano simbolico piuttosto che visivo – individuando nella Madonna del Cancelliere Rolin tre spazi e non due: la loggia, la campagna e il giardino. Quest’ultimo è in genere considerato come un hortus conclusus che illustra gli attributi della Madonna o della Gerusalemme celeste e non come piattaforma intermedia tra esterno e interno in cui sostano due curiosi personaggi di spalle affacciati al parapetto. Misteriosa resta la sproporzione tra i loro corpi e l’architettura, così come la loro identità: che siano il pittore e il committente? Probabilmente, sostiene Caron, si tratta di una guida e del suo novizio che si rivolge a lui in attesa che tiri su la testa, attirato da qualcosa che accade in basso – un récit d’apprentissage, come la discesa di Enea guidata dalla Sibilla nel sesto canto dell’Eneide.
Tuttavia, quale che sia la loro identità, a interessare Quenet è un altro aspetto: probabilmente sono i primi spettatori nella storia della pittura occidentale, o del naturalismo, preciserebbe Descola. Indifferenti alla scena sacra che si svolge alle loro spalle, hanno occhi solo per un paesaggio che noi osserviamo inquadrato da tre archi e dietro la loggia sontuosa. Come un quadro in un quadro. Niente delimita invece il loro sguardo, libero di spaziare nella verde distesa grazie alla vista sopraelevata offerta dal parapetto. Questo terzo spazio introduce così quello che Quenet chiama désajustement e che consiste nell’“introdurre lo spettatore nell’interpretazione dell’opera d’arte, ovvero stabilire che essa non è mai colta nella sua sostanza – l’intenzione del pittore o la performatività dell’immagine – ma in una relazione che è racchiusa nelle condizioni della vista e che non può mai essere totalmente adeguata al punto che lo spettatore possa fondersi con l’immagine e coincidere interamente con essa”.L’analisi di Quenet è più articolata ma il punto è chiaro: il sottotitolo di Les formes du visible – “Un’antropologia della figurazione” – indica un programma esigente in grado di modificare il nostro sguardo sull’arte. Non solo sui manufatti extra-europei rispondenti alle ontologie animiste, totemiche o analogiche, ma anche sulle opere della storia dell’arte occidentale – e su quei paesaggi dipinti che costituiscono il modello della nostra natura moderna.