La ricerca scientifica ha rivoluzionato quel che sappiamo su madri e padri, ma siamo ancora vittime di ruoli obsoleti. Per liberarcene dobbiamo riscrivere il copione della cura familiare e superare la favola del genitore ideale.
È ora di aggiornare le nostre credenze sull’accudimento. Negli ultimi vent’anni, biologia e neuroscienze hanno fatto traballare alcune convinzioni di lunga data: il nostro racconto di maternità e paternità oggi è obsoleto, fiacco, sordo alle prove. Pochi giorni fa un amico psicologo mi diceva disinvolto davanti a un caffè che le donne sarebbero “per natura” destinate all’accudimento, gli uomini alla competizione. Mi ha colpita e infiammata, ma non certo stupita. La cura della famiglia e della casa è stata attribuita a madri e mogli come un destino biologico: dettata da una presunta capacità innata delle donne di mettere i bisogni degli altri davanti ai propri, da una loro inferiorità intellettuale e a volte, peggio ancora, da un desiderio di sottomissione. Poi è arrivato L’origine dell’uomo e la selezione sessuale di Darwin, da cui abbiamo ricavato la giustificazione ultima: per natura i maschi sono competitivi e le femmine accudenti. Su queste teorie si è innestato l’adagio dell’antropologa del secolo scorso Margaret Mead, elaborato in Maschio e femmina: la maternità è una necessità biologica, la paternità un’invenzione sociale.
Quante cose si possono scoprire in qualche decennio, quante colossali cantonate si possono smascherare. Servivano i tempi maturi per una svolta: serviva che più donne entrassero nei luoghi da cui erano state storicamente escluse e che cambiassero le domande, il metodo e le premesse. Donne primatologhe, psicologhe, etologhe, antropologhe. Donne che finalmente decidessero di scavare più a fondo su temi che le avevano riguardate come un’imposizione: i comportamenti genitoriali, la sessualità, le somiglianze e le differenze con gli uomini. Mead, anche da pioniera che ha reso visibili le costruzioni culturali intorno al genere, ha lasciato intatto il determinismo biologico. Era isolata in un sistema ancora fortemente maschile e maschilista, influenzato da una visione binaria e gerarchica dei ruoli. La generazione di donne scienziate arrivate dopo di lei – e anche grazie a lei – ne ha raccolto il testimone e ha fatto saltare anche quel presunto destino.
Una di queste è Sarah Blaffer Hrdy, primatologa e antropologa evolutiva, che nel suo libro Il tempo dei padri (Bollati Boringhieri, 2024, traduzione di Gianna Cernuschi) racconta lo stato dell’arte della ricerca scientifica su paternità e accudimento. Hrdy, come Darwin e Mead, era partita dal presupposto che gli uomini fossero biologicamente meno capaci di prendersi cura dei propri figli, che non potessero avere la stessa sensibilità delle madri. Ma ha dovuto ricredersi. I suoi studi hanno registrato che più un uomo si prende cura di un bambino, più i suoi ormoni e il suo cervello cambiano in modo sorprendentemente simile a quelli delle madri. Per scatenare questi effetti non serve nemmeno che il bambino sia biologicamente suo. Hrdy lo chiama “potenziale di cura latente”. Nei padri che svolgono il ruolo di “cura secondaria”, cioè quelli che aiutano le madri, si attivano aree del cervello legate all’empatia e alla mentalizzazione. Se svolgono cura primaria, si attivano aree del cervello ancora più profonde e “tradizionalmente materne”: l’amigdala e l’ipotalamo. E poi ancora aumentano i livelli di prolattina e ossitocina, ormoni legati alla reattività nei confronti dei bisogni dei bambini. Diminuiscono i livelli di testosterone. In effetti forse aveva ragione Mead a dire che “la paternità è un’invenzione sociale” – ma se l’invenzione sociale fosse proprio l’idea che i padri debbano viaggiare su un’orbita di cura più distante, meno intima, esonerati da uno sforzo totalizzante? E se per tutto questo tempo avessimo tenuto i padri ai margini della paternità?
“La cura della famiglia e della casa è stata attribuita a madri e mogli come un destino biologico: dettata da una presunta capacità innata delle donne di mettere i bisogni degli altri davanti ai propri, da una loro inferiorità intellettuale e a volte, peggio ancora, da un desiderio di sottomissione”.
La novità è questa: se parliamo di capacità di accudimento, la biologia è più malleabile che deterministica. E allora dobbiamo accettare che non ci sono solo “le donne” e “gli uomini”. Hrdy cita per esempio uno studio di Harvard su due società della Tanzania, tra i popoli più antichi del mondo: i pastori datoga e i cacciatori-raccoglitori hadza. Vivono vicini, prendono l’acqua dallo stesso lago, eppure le loro società sono diversissime. Gli hadza sono molto coinvolti nella crescita dei figli. Hanno relazioni monogame, la maggior parte delle coppie vive nell’accampamento con la madre della moglie. Finita la caccia, gli uomini oziano insieme a donne e bambini, e passano più del venti percento del tempo a interagire con i loro figli. Poi si coricano insieme ai bambini dalle nove di sera alle sette del mattino. I datoga sono molto diversi. Hanno più mogli e passano la maggior parte del tempo circondati da altri uomini pastori. Sono convinti che prendersi cura dei bambini sia un lavoro da donne. Dicono in kiswahili: “kazi ya wanawake”, “roba da donne”. Quando i ricercatori hanno controllato i livelli di testosterone degli uomini datoga non sono riusciti a identificare nessuna differenza tra gli uomini sposati e quelli non sposati, tra quelli che avevano figli e quelli che non ne avevano. Quando però hanno testato gli hadza hanno scoperto che i livelli di testosterone dei padri erano fino al cinquanta percento più bassi rispetto a quelli degli uomini senza figli. Ho raccontato di questo studio a un collega, mi ha risposto: “Allora quelli con meno testosterone saranno stati meno efficaci nella caccia”. Chissà. Lo studio dice che gli uomini hadza, cacciatori-raccoglitori che ogni giorno lottano con i babbuini, hanno meno testosterone del cittadino medio americano – che forse non sia il testosterone a determinare da solo il successo nella caccia e l’adattamento a un ambiente insidioso? La mia impressione è che il calo di testosterone paia agli uomini con cui parlo un’eventualità castrante, da ripudiare, una mancanza, una malattia. C’è da dire però che questo studio dimostrava soltanto una correlazione e non una causalità. Lasciava campo per chiedersi: e se i maschi che già in partenza hanno livelli di testosterone più bassi avessero anche più probabilità di essere affettuosi e premurosi con i figli? Per chiarire il rapporto di causa-effetto tra cura e risultati biologici serviva uno studio longitudinale, cioè uno studio che seguisse gli stessi individui nel tempo, ed è arrivato nel 2011. Per trent’anni i ricercatori della Northwestern University statunitense e dell’Università di San Carlos nelle Filippine hanno seguito i livelli ormonali di più di seicento uomini filippini, e hanno notato che prendersi cura dei figli sintonizzava l’andamento ormonale dei padri con quello delle madri. Studi su altri campioni più o meno piccoli hanno poi confermato questi risultati. Questo ci dice che la genitorialità è biologicamente in potenza dentro uomini e donne in modi molto più simili di quanto immaginassimo. Lo stesso vale per le donne che non hanno avuto figli. Il contesto culturale e le aspettative sociali influenzano la nostra decisione di “attivare” le nostre inclinazioni biologiche o lasciarle latenti.
Le madri però hanno meno scelta: per loro molti cambiamenti biologici sono inevitabili, ma anche di questi abbiamo saputo pochissimo perché non ce ne siamo curati. Per secoli la maternità stata vissuta, imposta, regolata, ma quasi mai studiata. Servivano anche qui tempi maturi e nuove prospettive, come quella di Andrea O’Reilly, che nei primi anni Duemila ha fondato il primo centro accademico dedicato agli studi sulla maternità, riconoscendole quello che le spetta: il diritto di essere oggetto di pensiero, ricerca teorica e politica. Secondo O’Reilly il femminismo liberale aveva abbandonato le madri, aveva fallito nel riconoscere le unicità biologiche della maternità e integrarle in una visione di liberazione della donna. Se la società patriarcale giudicava le donne senza figli, il femminismo giudicava l’eccessivo accudimento, lo interpretava come un silenziamento, una limitazione, una perdita di potere e di stima. Oppure presentava l’idea della donna che lavora ma è anche una madre presente e devota, che non ha mai tracce di muco sul tailleur.
“Nei padri che svolgono il ruolo di “cura secondaria”, cioè quelli che aiutano le madri, si attivano aree del cervello legate all’empatia e alla mentalizzazione. Se svolgono cura primaria, si attivano aree del cervello ancora più profonde e “tradizionalmente materne”: l’amigdala e l’ipotalamo. E se per tutto questo tempo avessimo tenuto i padri ai margini della paternità?”.
Alessandra Sacks, una psichiatra che lavora con donne incinte e neo-madri, ha lanciato una provocazione: la nostra società scrive interi libri sulla profonda trasformazione ormonale e psicologica dell’adolescenza, ma non c’è nemmeno un termine per descrivere la transizione verso la maternità. In Occidente per esempio diciamo che è “nato un bambino”. I Tikopia, una popolazione che vive in una remota isola vulcanica a sud-ovest delle isole Salomone, in Oceania, ha il concetto di madre neonata. Dana Raphael, antropologa medica americana, aveva visitato i Tikopia e ispirata da loro aveva coniato la parola “matrescenza”, che cerca di contenere le profonde trasformazioni somatiche, fisiche e psicologiche che attraversano le nuove madri – e che sono irruente, esplosive e a volte irreversibili come l’adolescenza. Questa parola è rimasta a sobbollire dagli anni Settanta fino a oggi, fino all’uscita del libro Matrescenza (Editori Laterza, 2025, traduzione di Alessandra Castellazzi) della giornalista scientifica britannica Lucy Jones. Colpita dal vuoto di riferimenti scientifici su quello che stava succedendo al suo corpo mentre affrontava la sua prima gravidanza, Jones si è dedicata per sei anni a una monumentale ricerca delle prove scientifiche disponibili, raccolte nel libro per raccontare i profondi effetti fisici e psicologici della gravidanza e del post-partum. Il libro di Jones è il più poetico, scientifico, e politico che abbia mai letto sull’argomento. È un capolavoro all’intersezione tra generi. Non racconta solo lo stato della ricerca: intervalla le trasformazioni del corpo delle madri con descrizioni della genitorialità nel mondo animale e vegetale, sfumando le barriere tra le specie e rappresentando l’esperienza della maternità come una manifestazione di quella “natura” da cui spesso ci sentiamo separati. “Dentro di me c’era una pozza di liquido amniotico che un tempo era stata fiumi, laghi e pioggia, […] una quantità maggiore di sangue, che un tempo era stato terreno e stelle e licheni.”
Qualche esempio di effetti a lungo termine sul corpo della madre che forse non conosciamo o di cui per qualche motivo non si parla. Le cellule fetali del bambino si insediano tramite la placenta negli organi di molte madri – sono state trovate in fegato, cuore, polmoni, milza, intestino, utero, reni, linfonodi, ghiandole salivari, sangue e pelle. Che tipo di impatto abbiano, se positivo o negativo, e in quali casi, è ancora dibattuto. E poi ancora, nel cervello delle madri la materia grigia diminuisce. La memoria a breve termine peggiora, si fa più fatica a trovare le parole, ma il cervello diventa più flessibile, reattivo ed efficiente perché la riduzione di materia grigia favorisce una regolazione delle connessioni. Le sinapsi sono ben oleate. “La mia creatività fine a sé stessa era stata sotterrata ma loro [i miei figli] l’avevano riportata alla luce. Mi insegnavano a bearmi del semplice piacere di essere una creatura sensibile e viva sulla Terra”, scrive Jones. Il cervello delle madri può conservare queste modifiche fino a sei anni dopo il parto.
Ma Jones è sincera e descrive la maternità anche come esperienza bestiale e terrena. “[La maternità] non era rosa confetto: era il marrone della merda e il rosso del sangue”. La gravidanza può significare sindrome delle gambe senza riposo, acne, perdita di capelli, sciatica, nausea intensa e costante, mani intorpidite, formicolii, occhi secchi, mascelle larghe, insonnia, un incredibile senso dell’olfatto, dissoluzione dell’io. Il parto può significare ventidue ore di contrazioni, emorragie, lesioni anali, incontinenza fecale a lungo termine, punti, la sensazione di essere state colpite da un fulmine o di essere state strappate e rivoltate come un calzino. Può costare la vita. Il post-partum può rendere difficile mantenere relazioni e causare senso di isolamento, preoccupazioni economiche, pensieri intrusivi, paure irrazionali, sentimenti contrastanti di amore e odio, vergogna, depressione. Per persone come noi, che spruzzano deodoranti e disinfestanti ed erbicidi, che indossano smalto e lingerie, raccontarci bestie è forse ancora tabù. Forse mettiamo lo smalto proprio per dimenticarci della nostra natura bestiale. Leggere questo resoconto della maternità a tratti appesantisce, commuove e impaurisce chi come me una gravidanza ancora non l’ha vissuta. Ma prima di tutto, forse, ci libera.
“Le madri hanno bisogno di essere circondate di cura. I padri pure, i bambini anche. Ci vuole un villaggio. L’accudimento non è un dono naturale, né un compito individuale. È una responsabilità condivisa. Ed è il contesto a rendere l’accudimento degli altri più o meno facile, non la biologia. La biologia al massimo ci dice che la genitorialità è latente in ciascuno di noi”.
“Per fare un figlio ci vuole una bella dose di incoscienza”, mi ha detto recentemente un amico che è padre da qualche anno. Forse. Ma cosa succede quando si fa un figlio con una bella dose di coscienza? Quando ho parlato con mia madre del libro di Jones, abbiamo discusso. “Suvvia, non è così terribile. Ho vissuto peggio il mio calcolo renale”. Era come se avesse paura che troppa conoscenza di quello che può andare storto si traducesse in una mia rinuncia alla maternità: “Sì certo, fa male, ma non puoi immaginare la gioia, non puoi immaginare cosa vuol dire sapere che dopo quel dolore incontrerai tuo figlio”. Forse davvero non posso capire. Forse mia madre non può capire altre madri. Certo so che lei è stata circondata dall’amore e dalla cura: i miei genitori hanno vissuto con i miei nonni materni per un anno intero dopo la mia nascita, visitati spesso dai miei bisnonni e da mia nonna paterna. Non voglio sminuire la sua esperienza, ma mi chiedo in che misura il dolore e la malattia mentale postnatale siano intrinseche e biologiche e in che misura siano invece una risposta alla forma di genitorialità moderna che vede i genitori viversela da soli, in nuclei sempre più atomizzati, come ha dovuto fare Jones.
Quello che mi pare evidente è che conoscere in anticipo cosa succede al corpo e alla mente delle madri possa salvare vite. Per esempio, più sappiamo dei cambiamenti fisiologici, endocrini e neurali della gravidanza e dei primi tempi della maternità, più sapremo anche come questi processi rischiano di innescare la depressione peri-partum – secondo l’Istituto Superiore di Sanità ne soffre una donna su cinque, ma molte donne non ricevono una diagnosi formale e quindi il fenomeno è sottodiagnosticato.
Queste nuove conoscenze devono anche poter informare nuove politiche. Nelle ultime settimane la maggior parte dei quotidiani italiani titolava: l’Italia non è un paese per padri che vogliono prendersi cura dei figli. Tutti citavano il rapporto di Sosef (State of Southern European Fathers) condotto da Equimundo, il centro per le mascolinità e la giustizia sociale che promuove la parità tra generi. Nell’indagine, l’Italia viene definita come “un paese che appare fermo, bloccato da barriere strutturali, sociali e normative che frenano la piena partecipazione dei padri alla cura e a una sua più equa condivisione, molto più fermo dei vicini Spagna e Portogallo”. Un esempio: in Italia oggi un padre ha dieci giorni di congedo di paternità retribuito. In Spagna, sedici settimane. In Svezia, 480 giorni totali da condividere, di cui 90 riservati al padre e 90 alla madre, con la possibilità di dividersi i giorni restanti come si preferisce. L’accudimento non è una questione biologica. È cultura. Quando Hrdy ha partorito la sua prima bambina, nel 1997, stava facendo un post-doc a Harvard. Nessuno le parlò di congedo di maternità e suo marito tornò al lavoro il giorno dopo la nascita della figlia. Possiamo augurarci che, nel giro di qualche anno, dieci giorni di congedo parentale per un padre ci sembreranno una follia.
In parallelo avremo bisogno di prendere più sul serio, a livello culturale, l’inizio dell’esperienza materna. Anche noi arriviamo da una cultura che si è detta, come i datoga della Tanzania, una sorta di “kazi ya wanawake”, “roba da madri”. Nel libro di Jones c’è un capitolo che si intitola: “Lavoro di cura e creatività nel capitalismo avanzato”. Racconta dei neo-padri risospinti a calci negli uffici perché devono produrre profitto, delle neo-madri realizzate nel lavoro e nel guadagno spinte a sentirsi immorali se desiderano anche quel tipo di realizzazione. “Perché fare finta che potessi vivere la vita come un uomo?” dice Jones, “Il riscoperto codice «tradizionale» della maternità intensiva cozzava contro i dettami della cultura capitalista che mi erano stati impartiti: essere, soprattutto, una lavoratrice, una guadagnatrice e una consumatrice”.
Le madri si trovano dilaniate tra le loro identità forse perché anche i riti laici legati al parto e alla maternità sono in mano al capitalismo: baby showers, regali materiali che non sono regali di tempo, cura, presenza. Altre culture hanno riti di accudimento che marcano un momento di profonda transizione esistenziale. Le nuove madri sono accudite per poter accudire i figli. La donna riposa, assistita, mentre nutre il figlio o la figlia e instaura un legame. Riceve pasti nutrienti, massaggi, bevande, bagni di erbe. La comunità si riunisce intorno alla puerpera. In Vietnam, il periodo in questione si chiama namo, “stendersi in un nido”. In Nigeria, il nome Igbo delle pratiche di accudimento della madre è omugwo. In India i massaggi speciali con olii alle erbe sono gli abhyanga. Le madri hanno bisogno di essere circondate di cura. I padri pure, i bambini anche. Ci vuole un villaggio. L’accudimento non è un dono naturale, né un compito individuale. È una responsabilità condivisa. Ed è il contesto a rendere l’accudimento degli altri più o meno facile, non la biologia. La biologia al massimo ci dice che la genitorialità è latente in ciascuno di noi. Nessuna madre e nessun padre dovrebbero portare il peso di essere, da soli, genitori perfetti. Figuriamoci sentirsi “contro natura” per non aderire a un copione di genitore ideale, per accettare che genitorialità sia anche contraddizione dei sentimenti e delle emozioni, convivenza della fatica più pesante con la gioia più pura. In sintesi: possiamo lasciar andare le favole e gli alibi e iniziare a scegliere come vogliamo esserci.