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Agnese Codignola
Medici e ospedali nel mirino della nuova guerra

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Tra il 2020 e il 2024 sono triplicati gli attacchi alla sanità nei paesi dove si combatte: bombardamenti alle strutture, blocchi ai rifornimenti, arresto o uccisione del personale perché non curi e non diventi testimoni. E così si induce sempre più anche alla morte per fame.

Healthocide: deliberata uccisione degli operatori e/o distruzione delle strutture e dei sistemi sanitari per scopi ideologici.

Questa la definizione proposta lo scorso giugno da un gruppo di medici, storici ed esperti di salute pubblica dell’Università e del ministero della Salute di Beirut, in Libano. Sono persone che ne hanno vissuto personalmente uno, quello del 2006, durante il quale 78 strutture sanitarie sono state distrutte o seriamente danneggiate, e che ora ne stanno vivendo un altro, quello in corso a Gaza, nella West Bank e nei paesi limitrofi tra cui lo stesso Libano per mano dell’esercito israeliano. 

Il termine è intraducibile (qualcosa come saluticidio), ma le due parole che lo compongono non sono scelte a caso. Il termine inglese Health, che deriva dalla radice germanica hǣlth, significa “interezza” intesa come integrità, completezza. La definizione esprime infatti la disintegrazione o frammentazione di un popolo attraverso lo smantellamento della sua salute e del suo benessere. Gaza, da questo punto di vista, è l’emblema di tutti gli healthocide degli ultimi decenni, secondo gli autori, perché è senza dubbio il più sistematico e feroce.

Un’atrocità impunita e prolungata che, oltretutto, costituisce un pericolosissimo precedente, perché sistematizza e rende palese una tattica bellica che, finora, si cercava quanto meno di negare e nascondere. E l’attacco della Russia alle strutture sanitarie dell’Ucraina, che va avanti dalle prime settimane di guerra, è solo di poco meno grave.

L’appello sarebbe potuto restare uno dei tanti pubblicati sulle riviste scientifiche negli ultimi tre anni, da quando immagini come quelle del 2022 dei bambini e delle donne incinte in fuga in pigiama dall’ospedale pediatrico di Mariupol hanno riempito i media di tutto il mondo, suscitando indignazione e svelando la natura strategica dell’aggressione. Ma è arrivato in un momento particolare, quando l’esasperazione della comunità medico-scientifica di fronte all’ignavia dei suoi rappresentanti e dei governi era ormai incontenibile. Medici, ricercatori ed esperti di varie discipline hanno reagito facendo propria la definizione e pubblicando una serie di studi, editoriali e appelli che hanno raccontato e descritto gli healtocide in corso, e hanno sottolineato come, oltre agli effetti sulle popolazioni bersaglio, questi mettano in discussione la neutralità degli operatori umanitari e soprattutto medici, uno dei pilastri del multilateralismo del secondo dopoguerra. 

Un concetto tanto nobile quanto scivoloso, se mal applicato, che ha permesso ad alcuni di ignorare ciò che stava accadendo, e ad altri di strumentalizzarne il significato autentico per fini che con la cura del prossimo non hanno nulla a che spartire. Un’idea che da ora in poi, con ogni probabilità, sarà declinata in un modo leggermente diverso.

La conseguenza è che, grazie alla mobilitazione delle ultime settimane, nessuno potrà più ignorare i bombardamenti contro gli ospedali, l’uccisione o l’arresto di medici e infermieri non solo perché non curino ma anche perché non diventino testimoni, il blocco ai farmaci e ai dispositivi perché non arrivino a chi ne ha bisogno o, ancora, la distruzione delle università affinché non ci sia speranza neppure di avere, entro qualche anno, nuove generazioni di operatori sanitari.

In soli cinque anni, in Palestina sono deceduti 381 operatori e ne sono stati feriti 520; in Ucraina i morti sono stati 267 e i feriti 234; in Libano 408 e 430; in Afghanistan 91 e 82, in Sudan 138 e 137, in Myanmar 124 e 90. E nel 2025 la situazione è più che peggiorata. 

Che l’attacco alla salute dei popoli aggrediti sia ormai una agghiacciante prassi bellica lo si vede in un database, Attacks on Healthcare in Countries in Conflict, che raccoglie i dati forniti dalle agenzie governative e dalle principali organizzazioni umanitarie. 

Ogni anno con questi dati viene compilato il rapporto Safeguarding Health in Conflict Coalition o SHCC curato dall’Humanitarian Data Exchange dell’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) delle Nazioni Unite. 

Da questo materiale, aggiornato al 2024, hanno attinto gli autori del più recente e completo studio effettuato finora sugli healthocide degli ultimi cinque anni, pubblicato a novembre sul British Medical Journal dal quale emerge che gli attacchi alla sanità nei paesi in guerra, tra il 2020 e il 2024, sono triplicati, con Ucraina e Gaza a fare da traino, Myanmar e Sudan a sostenere la tendenza, e Libano, tra gli altri, a seguire. In soli cinque anni, in Palestina sono deceduti 381 operatori e ne sono stati feriti 520; in Ucraina i morti sono stati 267 e i feriti 234; in Libano 408 e 430; in Afghanistan 91 e 82, in Sudan 138 e 137, in Myanmar 124 e 90. E nel 2025 la situazione è più che peggiorata. 

Quanto agli strumenti di morte, un elemento dimostra come non si possa parlare di fatalità: le maggiori responsabili dei decessi di operatori sono le armi da fuoco, non le bombe né i missili caduti per caso vicino a un centro di cura o a un’ambulanza. Qualcuno spara sui medici e sugli infermieri, e lo fa deliberatamente, perché gli operatori sono sempre visibili grazie a divise, pettorine e altre segnalazioni. Di solito, sempre secondo lo studio, si tratta di forze governative, molto più efficienti rispetto a quelle non statali nell’uccidere. 

Un ulteriore indizio arriva dal numero degli arresti e dei rapimenti, anch’esso impressionante: in Palestina sono stati incarcerati e spesso torturati 521 operatori, in Myanmar, dove l’accusa è quella di curare i profughi delle minoranze contro cui il governo combatte, 864, in Afghanistan 75 e così via.

I numeri relativi a Gaza sono stati poi aggiornati in un duro editoriale pubblicato su Lancet firmato dai medici italiani Alessandro Vitale e Umberto Cillo dell’Università di Padova e Isabella Frigerio dell’ospedale Pederzoli di Peschiera del Garda, insieme a colleghi francesi, inglesi, tedeschi e israeliani. Gli attacchi alle strutture di Gaza sono stati già più di 770, scrivono, hanno distrutto il 94% dei centri di cura e ucciso più di 1500 operatori, secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite. 

La giustificazione del governo israeliano, com’è noto, è sempre stata la supposta collusione del personale sanitario con Hamas ma, scrivono gli autori, nessuna organizzazione indipendente finora ha mai dimostrato la fondatezza di tali accuse e, anche qualora ciò avvenisse, nessuna colpa o complicità potrebbe giustificare l’healthocide, perché sui medici e sugli infermieri, comunque, non si deve sparare. 

Probabilmente la prima organizzazione che ha rotto uno schema consolidato fino dall’Ottocento è stata Medici Senza Frontiere, organizzazione sanitaria fondata nel 1971 e premio Nobel per la pace nel 1999. I fondatori introdussero da subito il principio della Témoignage, testimonianza, unendo all’idea della cura quella del supporto umanitario di fronte a gravi violazioni dei diritti umani.

Eppure, a fronte di questa situazione, solo il 24,5% delle società medico-scientifiche statunitensi ha condannato quanto sta avvenendo, e quelle europee e israeliane non sono state molto più coraggiose, sempre con la scusa della neutralità. Ma quest’ultima, scrivono ancora, se diventa indifferenza è complicità.

Probabilmente la prima organizzazione che ha rotto uno schema consolidato fino dall’Ottocento è stata Medici Senza Frontiere, organizzazione sanitaria fondata nel 1971 (e premio Nobel per la pace nel 1999) proprio in reazione all’inattività della Croce Rossa (a sua volta fondata nel 1863) nella guerra civile in Nigeria (1967-1970). I fondatori introdussero da subito il principio della Témoignage, testimonianza, unendo all’idea della cura quella del supporto umanitario di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. Le prove raccolte costituirono la base delle ricostruzioni di quanto avvenuto allora, in El Salvador negli anni Ottanta e poi in molti altri genocidi, stragi e massacri di civili, così come sta avvenendo più di recente in Ucraina, Siria, Libano e ovviamente Palestina.

Nel tempo l’idea si è fatta strada, portando alla fondazione di altre organizzazioni come Physicians for Human Rights, nata negli Stati Uniti nel 1986, e i risultati si vedono. È di pochi giorni fa, per esempio, la testimonianza di quanto sta emergendo dai corpi dei prigionieri palestinesi rilasciati nel momento del cessate il fuoco (195 in tutto, solo sei dei quali con documenti, e tutti senza alcuna informazione) in cambio di quelli di 13 ostaggi israeliani. Le foto scattate dagli operatori sanitari, di cui ha preso visione Lucy Williamson della BBC, mostrano i segni delle torture subite, in alcuni casi estremamente crudeli. Campioni di DNA sono in attesa di indagini più approfondite da parte dei medici forensi dell’Ospedale Nasser, che lavorano in condizioni estreme, senza materiali sterili, senza reagenti chimici, spesso senza elettricità e senza acqua, cioè senza le condizioni minime necessarie per il trattamento e la conservazione dei campioni biologici.

Ma gli esperti di medicina legale conoscono l’importanza della raccolta di prove forensi, e stanno facendo l’impossibile per documentare tutto ciò che possono e preservare ciò che sarà analizzato più avanti, sostenuti dal ramo israeliano proprio di Physicians for Human Rights e da B’Tselem, una delle poche ONG israeliane a denunciare il genocidio in atto.

Poiché, però, la testimonianza è di per sé un atto politico, la neutralità assoluta viene meno o, per meglio dire, non è mai apolitica e non è sempre possibile.

Lo stesso concetto è ripreso anche in un editoriale della rivista British Medical Journal dal titolo più che esplicito: La neutralità dei medici termina quando iniziano i genocidi, gli healthocide e le atrocità, firmato da Karman Abbasi. L’articolo parte da un’altra vergogna cui il mondo ha assistito inerte: il genocidio rwandese del 1994, nel quale in cento giorni sono state uccise tra le 800.000 e il milione di persone. È almeno da allora che è chiaro, scrive Abbasi, che i medici hanno due compiti, oltre a quello fondamentale della cura: la Témoignage e la collaborazione con organizzazioni umanitarie, medici legali ed esperti forensi, attivisti e comunità colpite, necessaria per superare l’inerzia della politica, che non ha alcuna giustificazione, soprattutto in relazione agli healthocide

La storia, sottolinea Abbasi, giudicherà il comportamento dei leader politici, ma anche quello degli operatori sanitari che sono rimasti a guardare. Chi avrà agito, invece, potrà fornire prove e racconti che saranno la base ineludibile delle conseguenze legali e storiche di quanto sta accadendo e, soprattutto, della salvaguardia dei princìpi dei diritti dell’uomo e di quelli fondamentali che regolano la professione medica dai tempi di Ippocrate. 

Fino dai primi mesi, il governo israeliano ha accusato l’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA) di essere complice di Hamas, precludendole l’accesso alla Striscia di Gaza.

È per questo che, attraverso gli healthocide, si cerca anche di eliminare i testimoni.

Ed è sempre per questo che, fino dai primi mesi, il governo israeliano ha accusato l’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA) di essere complice di Hamas, precludendole l’accesso alla Striscia di Gaza. Ancora una volta, in assenza di prove ottenute da soggetti indipendenti. Ma l’UNRWA sta continuando a lavorare e, tra l’altro, a fornire le prove necessarie per dimostrare l’altra declinazione dell’healthocide: la carestia indotta, che sta provocando la morte di migliaia di bambini per fame senza che i medici possano intervenire. 

Lo scorso agosto, la UN Integrated Food Security Phase Classification (IPC) ha confermato la carestia proprio in base ai dati elaborati dai medici dell’UMRWA, riportati in uno studio pubblicato su Lancet a ottobre.

Tra gennaio 2024 e agosto 2025, operando nei 16 centri medici e 78 punti medici in rifugi e tende ancora funzionanti dei cinque governatorati di Gaza, i medici hanno misurato la circonferenza degli arti superiori di circa 220.000 bambini di età compresa tra i sei mesi e i cinque anni. In quel periodo, la percentuale di bambini malnutriti è passata dal 4,7 all’8,9%; a gennaio 2025 era già al 14,3%, con buona pace dei video di ristoranti e fast food e di adolescenti in ottima forma postati dalla propaganda israeliana. Poi, dal cessate il fuoco di gennaio 2025 fino a marzo è scesa al 5,5%, ma le ultime misurazioni, di agosto, la davano nuovamente al 15,8%. Il che significa che 54.600 bambini necessitavano già allora di urgenti cure mediche, e 12.800 di loro avrebbero avuto bisogno di riabilitazione. Anche i firmatari dello studio, tra i quali il direttore Akihiro Seita, puntano il dito sull’inerzia delle classi dirigenti mondiali:

Considerato il fallimento nel fermare la guerra e nel prevenire la carestia dilagante, nonostante la capacità globale di farlo, a meno che non ci sia un cessate il fuoco permanente, unito ad aiuti umanitari internazionali nutrizionali e medici, così come economici e sociali, senza ostacoli, e gestiti da personale competente, saranno inevitabili un ulteriore aggravamento della malnutrizione e della mortalità della prima infanzia.

E il discorso continua nell’editoriale di commento:

La grave malnutrizione avrà indubbiamente un impatto sul futuro di questi bambini, sulla loro salute e sul loro sviluppo, per generazioni. Anche se ora l’attenzione è concentrata sul contrasto agli effetti acuti, ci sono serie preoccupazioni per quelli, ben noti e dimostrati, a lungo termine. Conseguenze che si manifestano per generazioni, e che comprendono un rischio straordinariamente alto di un accorciamento della vita e di una maggiore incidenza di malattie non trasmissibili.

Non potrebbe essere più chiaro, eppure l’healthocide non è finito, e continua a essere portato avanti in un modo più subdolo, prendendo di mira i più indifesi: i neonati e i bambini. Lo denuncia l’UNICEF, che afferma che Israele sta bloccando ai varchi della striscia di Gaza 1,6 milioni di dosi di vaccini con i quali si sarebbero dovuti immunizzare 40.000 bambini contro la poliomielite, il morbillo e la polmonite. La prima giornata, portata a termine con successo, ne aveva raggiunti 2400, ma quei bambini potrebbero essere gli unici a recuperare almeno una piccola parte di tutte le vaccinazioni perse negli ultimi due anni: l’esercito israeliano, attraverso il COGAT (Coordinator of Government Activities in the Territories), considera le siringhe materiali passibili del famigerato dual use, cioè di un possibile utilizzo bellico. In che modo una siringa con pochi millilitri di vaccino possa diventare un’arma non è dato sapere.

Ma intanto le vaccinazioni non procedono e si alterano al sole: molti dei bambini non vaccinati moriranno per malattie evitabili, date le drammatiche condizioni in cui nascono e vivono. E molti di quei patogeni non fermati dai vaccini arriveranno nei paesi più sviluppati, già alla prese con una preoccupante risalita dei casi di infezioni che in alcuni casi stavano per essere debellate, prima della pandemia e del successo dei movimenti no vax, e prima delle decisioni dell’amministrazione Trump, che sta smantellando il sistema delle immunizzazioni infantili. Lo stesso vale per quasi un milione di biberon di latte per neonati: anche quelli pericolosi potenziali strumenti bellici, per il COGAT, e quindi destinati a imputridire sui camion. 

Tutti coloro che si occupano di healthocide cercano di fornire anche qualche indicazione positiva, concentrandosi su ciò che si dovrà fare una volta che sarà avviata la fase successiva al conflitto. Si deve permettere alle popolazioni sopravvissute agli attacchi di curarsi e, laddove sia possibile, recuperare gli anni persi, ma si deve al contempo impostare un progetto che ponga basi solide per una sanità moderna e adeguata al paese che esce dalla guerra, asse portante di qualunque comunità indipendente.

Bisogna evitare quanto successo in Ucraina, dove le infezioni resistenti a tutti gli antibiotici o pan-resistenti, in pieno rigoglio nelle ferite dei soldati e non solo, si stanno diffondendo con una velocità allarmante. E poiché i microrganismi non hanno il passaporto, i batteri più pericolosi iniziano a comparire anche nei paesi europei, già alle prese con un’antibioticoresistenza che non si riesce a contrastare efficacemente e che, a detta di tutte le autorità sanitarie, rappresenta una delle principali emergenze di salute pubblica mondiale. 

Il risultato è che ceppi pan-resistenti stanno circolando non solo tra i feriti di guerra ma anche tra i civili, con una mortalità specifica di gran lunga superiore a quella del resto del mondo.

Quello che sta succedendo in Ucraina è infatti una specie di tempesta perfetta, nella quale pessime abitudini precedenti alla guerra come l’ampia disponibilità di antibiotici senza prescrizione si uniscono a situazioni estreme come l’attuale carenza di farmaci, che spinge i medici a somministrarli in dosi sub-ottimali, che non uccidono i batteri e, anzi, selezionano quelli più forti. A questo si somma l’assenza di kit diagnostici per capire quale sia il batterio presente e prescrivere il farmaco cui è sensibile. Senza contare che, in molti ospedali, non esistono sistemi di registrazione che tengano nota delle infezioni presenti nei feriti, quasi sempre destinati a lunghe degenze, prova tangibile dello stato precario delle strutture, decimate e gravemente danneggiate dall’healthocide russo. 

Il risultato è che ceppi pan-resistenti stanno circolando non solo tra i feriti di guerra ma anche tra i civili, con una mortalità specifica di gran lunga superiore a quella del resto del mondo, come si legge in un rapporto pubblicato su Lancet Infectious Diseases di Hailie Uren, medico dell’organizzazione britannica UK-Med a Dnipro dal 2022, la cui storia è stata raccontata anche in un lungo reportage di Richard Stone su Knowable Magazine

La ricostruzione dovrà quindi passare anche da una profonda riorganizzazione del contrasto agli agenti infettivi, da un uso razionale dei farmaci, da sistemi di monitoraggio efficienti, soprattutto in previsione di un ingresso nell’Unione Europea dove, per il momento, il controllo delle infezioni che arrivano dal fronte sta reggendo, ma non mancano segnali inquietanti come l’evidente aumento di casi di tubercolosi in tutto il Nord Europa.

In quasi quattro anni di guerra sono stati segnalati numerosi casi di soldati e profughi giunti negli ospedali nordeuropei con infezioni provocate da batteri resistenti che i medici hanno impiegato mesi a sconfiggere, e che talvolta hanno provocato la chiusura di interi reparti per settimane, oltre richiedere la messa a punto di protocolli di contenimento specifici. 

Gli healthocide riguardano anche i paesi con i sistemi sanitari ancora attivi, a volte di eccellenza, e con tutti gli operatori al loro posto. La lenta ma inesorabile marcia dei batteri pan-resistenti verso i paesi più sviluppati d’Europa, così come quella dei profughi flagellati da ferite e malattie che nessuno può curare a casa, in caso ce ne fosse bisogno, sono lì a ricordarcelo.

Agnese Codignola

Agnese Codignola è scrittrice e giornalista scientifica con un passato da ricercatrice. Il suo ultimo libro è Alzheimer S.p.A. Storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è (Bollati Boringhieri, 2024).

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