Articolo
Alessio Giacometti
Per tornare a capire il mondo abbiamo bisogno del sistema periodico

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clima letteratura Scienza

Rileggere Primo Levi a mezzo secolo di distanza ci obbliga a fare i conti con il lato oscuro dell'epopea del carbonio.

È passato esattamente mezzo secolo dalla pubblicazione di Il sistema periodico di Primo Levi. All’epoca non c’era la consapevolezza odierna di come le attività umane stessero alterando gli equilibri dell’atmosfera terrestre, né si parlava di science writing, anche se il libro del chimico-scrittore sopravvissuto all’olocausto ne è un esempio ante litteram. In un ibrido atipico per il tempo tra memoir e saggio di divulgazione, Levi combina storia sociale dell’Europa durante l’ascesa dei fascismi e affondi sulla condizione ebraica, i soliti (lucidissimi) resoconti sulla vita concentrazionaria e quelli (altrettanto lucidi) sul lavoro nell’industria chimica del dopoguerra. Capitolo dopo capitolo, la vicenda umana di Levi si allaccia agli atomi della tavola di Mendeleev, a quella loro materialità al contempo così misteriosa per il profano e così iniziatica per il perito.


Di tutte le storie atomiche raccontate da Levi, quella sul carbonio è per quanto mi riguarda la più fulminea e stupefacente. Il chimico-scrittore confessa subito di avere un “vecchio debito” nei confronti del carbonio, un debito «contratto in giorni […] risolutivi». Il suo primo, insistente sogno letterario era infatti di scrivere la storia di un atomo di carbonio: l’atomo della materia organica, l’elemento perenne che compone, scompone e ricompone le creature terrestri nel flusso incessante del vivere e del morire. Il progetto di un libro a sé è tuttavia rimasto sempre tale, e quel che ci è prevenuto è soltanto l’abbozzo di racconto che compare nel capitolo terminale di Il sistema periodico. Qui, in una manciata di pagine, Levi traccia un’epica dell’atomo di carbonio che non ha precedenti nella storia della letteratura – ma certo ha avuto epigoni più o meno consapevoli, come Il cucchiaino scomparso di Sean Kean (2014) e Il sale della terra di Kerstin Hoppenhaus (2025).


Nel racconto di Levi, l’odissea del carbonio attraverso le creature viventi comincia nel sottosuolo: “il nostro personaggio giace […] da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi di ossigeno e a uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea.” L’atomo rimarrebbe eternamente congelato nella sua prigionia litica, del tutto indifferente alle oscillazioni termiche e alle scalfitture del tempo che passa, se non si trovasse nelle vicinanze della superficie terrestre. È lì che viene notato da uno strano essere bipede di passaggio, armato di piccone e mosso da una proverbiale volontà di potenza. «Onore al piccone ed ai suoi più moderni equivalenti», scrive Levi in un impeto modernista che suscita oggi un certo imbarazzo. Il ciclo del carbonio non si era ancora rotto, o almeno non lo si sapeva con certezza, e ci si poteva ancora illudere che l’estrazionismo spinto della Grande Accelerazione non avrebbe più di tanto scombinato i regimi climatici e ambientali.

“La vicenda umana di Levi si allaccia agli atomi della tavola di Mendeleev, a quella loro materialità al contempo così misteriosa per il profano e così iniziatica per il perito”.


Oggi come allora gli umani scavano la roccia senza grossi patemi, dissotterrano qualunque cosa sia funzionale ai loro scopi, anche i più meschini. Non si accontentano di vivere, vogliono crescere, e per crescere occorre sottrarre materia alla Terra, sottrarne sempre più. Con un colpo di piccone ben assestato, l’uomo del racconto di Levi stacca il deposito in cui è intrappolato il nostro atomo di carbonio, per avviarlo al forno industriale. Alleggerito dalla separazione chimica con la calce, il carbonio viene elevato in aria dai due atomi di ossigeno cui è ancora legato e la sua storia, da immobile che era, si fa tumultuosa. «Fu colto dal vento, abbattuto al suolo, sollevato a dieci chilometri. Fu respirato da un falco, discese nei suoi polmoni precipitosi, ma non penetrò nel suo sangue ricco e fu espulso. Si sciolse per tre volte nell’acqua del mare, una volta nell’acqua di un torrente in cascata, e ancora fu espulso. Viaggiò col vento per otto anni: ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell’avventura organica».


La vita terrestre ha una disperata fame di carbonio, di quelle sue lunghe catene stabili che si saldano assieme senza gran dispendio di energia. Irrorate da una sottile pioggia di energia solare, le piante hanno imparato a nutrirsi del carbonio sospeso nell’aria, a trasformarlo in glucosio e di lì in materia organica, in massa vegetale vivente. Le piante mangiano il carbonio e lo inanellano in lunghe catene di cellulosa, gli animali mangiano la cellulosa e inanellano il carbonio in lunghe catene proteiche. Ma piante e animali respirano, ossidano il carbonio e lo esalano finché hanno da vivere, e quando periscono è la decomposizione delle sostanze organiche a liberarlo nuovamente nell’atmosfera, in uno «spaventoso girotondo di vita e di morte».


Nella danza dentro e fuori i corpi che Levi tratteggia, il carbonio è dapprima incastonato nel duro legno di un cedro, poi si fa alimento del tarlo che lo scava da dentro, poi farfalla che muore disfacendosi nel sottobosco, poi anidride carbonica che si alza in volo. Passano un paio di secoli e la particella viene nuovamente catturata dalla fotosintesi vegetale, per farsi pigmento di un fiore, granello di polline, bicchiere di vino che l’intellettuale tracanna di gusto, inserendo l’atomo di carbonio in uno degli svariati neuroni che ogni giorno esercita nell’arte della scrittura. Capita talvolta che il carbonio s’infili nella condizione di semi-eternità di un composto più stabile di un corpo vivente, come le pagine ingiallite di un documento d’archivio o la tela di un pittore famoso, o anche una scheggia di carbon fossile ben nascosta nelle viscere della terra. Immancabilmente, però, prima o poi l’atomo passa e ripassa dalla fotosintesi, «l’unica via per cui il carbonio si fa vivente e l’energia del sole utilizzabile chimicamente».

“La vita terrestre ha una disperata fame di carbonio”.


Levi ci ricorda la vertigine che dovremmo provare al solo pensiero del carbonio e dei suoi inconcepibili mutamenti: «se l’organicazione del carbonio non si svolgesse quotidianamente intorno a noi, sulla scala di miliardi di tonnellate alla settimana, dovunque affiori il verde di una foglia, le spetterebbe di pieno diritto il nome di miracolo». La natura è così generosa, così sovrabbondante che per sorprenderci ci servono il microscopio, e la microstoria: librandosi nell’aria, un atomo di carbonio rasenta la lamina brillante di una foglia che, con l’impercettibile apporto di un pacchetto di energia solare, lo inchioda a sé. Gli esseri umani si sono industriati per secoli al fine di imitare la chimica organica del mondo vegetale, ma non sono ancora arrivati a un meccanismo così elegante, pulito, gratuito come invece è la fotosintesi. Riuscire a replicarlo ci darebbe all’istante un potere immenso: saremmo «sicut Deus», avverte Levi, che aveva in mente gli affamati del mondo e credeva che lo sviluppo tecnologico sarebbe stato miracolosamente in grado di moltiplicare i pani e i pesci.


Ho riletto il capitolo sul carbonio di Levi assieme a un saggio di Elizabeth Kolbert sui tentativi in corso di ingegnerizzare la fotosintesi, di potenziarla addirittura, perché sarà anche il più elegante, pulito e gratuito tra i meccanismi di trasformazione del carbonio, ma rimane tremendamente inefficiente: le piante convertono solo l’1% dell’energia solare che le investe. Nulla di sostanziale è cambiato nel processo fotosintetico e nell’organicazione del carbonio quando gli esseri umani hanno addomesticato le piante, quando le hanno ibridate o hanno cominciato a concimarle – solo la fotosintesi artificiale potrebbe alterare il ciclo del carbonio in maniera equiparabile allo squilibrio innescato dal capitalismo fossile. Eccola, la volontà di potenza dell’uomo-con-piccone: se solo potessimo ottenere di più con meno allora non saremmo alla fine della nostra folle corsa, all’incubo malthusiano delle risorse scarse, e potremmo continuare a crescere chissà per quanto ancora.

“Abbiamo davvero smesso di capire il mondo, o riusciamo a immaginarci come andrà a finire?”


C’è un’ambiguità di fondo che permea il saggio sul carbonio di Il sistema periodico: come altri scienziati di quegli anni, Levi si preoccupava del fatto che nell’aria c’era poco carbonio, non troppo. L’atmosfera terrestre ne era composta per solo lo 0,03 per cento, una quota così bassa che per comprenderne le fluttuazioni fu necessario adottare una scala di misurazione maggiore – le famose 300 parti per milione. Da tempo avevamo però cominciato a bruciare le foreste fossili e a liberare nell’aria più carbonio di quanto dovrebbe essercene perché la vita terrestre possa prosperare. Eppure, sulle prime ci parve che più carbonio nell’aria avrebbe significato più cibo e più crescita per le piante (è ciò che gli scienziati chiamano “concimazione carbonica”), dunque più cibo e più crescita per gli umani.
Torna alla mente il destino sbilenco immaginato per un altro elemento della tavola periodica, l’azoto sintetizzato da Fritz Haber per “fare il pane dall’aria”, come romanzato da Benjamín Labatut. Che le si concimi da sotto con l’azoto o da sopra con il carbonio, le piante crescono per effetto di una sostanza misteriosa, al punto che Haber temeva sinceramente che una “terribile cappa verde” avrebbe avuto il sopravvento sul pianeta. Poi però la storia prende una piega imprevista, e ci accorgiamo di aver smesso di capire il mondo solo quando l’equilibrio dei grandi cicli terrestri è già guastato.


L’anidride carbonica nell’aria si attesta ormai intorno alle 427 parti per milione, ben al di sopra della soglia di sicurezza di 350, e oggi che i livelli di carbonio atmosferico sono i più alti dal Pliocene è forse tempo di riprendere in mano il racconto di Levi per riscriverne il finale. Eccone una variante: un atomo di carbonio è incastonato da milioni di anni in un frammento di carbone; sarebbe rimasto lì chissà quanto a lungo se un uomo con piccone e volontà di potenza non lo avesse divelto per trasformare in lavoro l’energia immagazzinata nei suoi legami chimici. La reazione innescata dalla combustione libera una molecola di anidride carbonica, che pozzi naturali di carbonio come una foresta o un oceano avrebbero anche potuto assorbire se non avessero già raggiunto la saturazione. L’atomo di carbonio continua così a fluttuare nell’aria, accumulandosi assieme a innumerevoli altre particelle analoghe in un sottile strato che scherma l’atmosfera dall’energia solare riflessa dalla Terra.


Il pianeta si riscalda, e sebbene gli umani riescano a misurare di quanto e a comprendere che il riscaldamento dipende dall’uso smodato delle fonti ad alto contenuto di carbonio, non riescono più a fermarsi. Alcuni di loro s’ingegnano per prelevare il carbonio atmosferico con degli enormi aspiratori meccanici, ma ormai è tardi e la temperatura terrestre continua ad aumentare per inerzia.
Abbiamo davvero smesso di capire il mondo, o riusciamo a immaginarci come andrà a finire?

Alessio Giacometti

Alessio Giacometti ha un dottorato in scienze sociali e si occupa di ambiente, energia, studi sulla scienza e la tecnologia. Scrive per la televisione e per diverse riviste culturali online.

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