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Danilo Zagaria
Possiamo riparare il Mediterraneo?

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biologia natura

Il nostro mare versa in condizioni critiche. Ma una nuova disciplina scientifica promette di restituirgli salute attraverso il restauro attivo degli ecosistemi.

Per l’ecologia il castoro non è soltanto un grande roditore che rosicchia il legno e devia il corso dei fiumi, ma è anche un costruttore di nicchie. Tutti gli esseri viventi, esseri umani compresi, fabbricano la propria nicchia ecologica. Un lavoro di costante modifica degli ecosistemi terrestri e del pianeta stesso che dura una vita intera. La nicchia non è soltanto lo spazio fisico che viene occupato dagli individui di una specie, ma l’insieme degli effetti che le loro azioni hanno sul mondo: l’ombra proiettata da un gigantesco baobab, l’ossigeno prodotto dalle alghe verdi, le zone di caccia di uno squalo bianco, i gas serra scaricati dai motori delle nostre auto.

Homo sapiens, per quanto ne sappiamo, è l’unica specie che ha sviluppato coscienza dei suoi impatti sul pianeta Terra. Da qualche anno ci definiamo addirittura “forza geologica”, per sottolineare la capacità che abbiamo raggiunto, dalla Rivoluzione industriale in poi, di cambiare il clima e di influenzare la salute degli ecosistemi. Di fronte a questi effetti, spesso catastrofici e nocivi per la biodiversità globale, abbiamo agito per limitare i danni e, soprattutto, per proteggere le aree più esposte o più preziose. Dai primi anni Settanta fino alla fine del secolo scorso l’istituzione di aree protette è stata la priorità nel campo della conservazione ambientale. Il celebre biologo Edward O. Wilson, dopo anni di insuccessi, finì per proporre, attraverso un libro decisamente provocatorio, di rendere inviolabile metà del globo e di destinare agli usi dell’umanità soltanto l’altra metà.

Tuttavia la nostra nicchia globale continua a deteriorarsi. Molti indicatori che gli scienziati tengono d’occhio – dalla perdita di biodiversità all’acidificazione degli oceani, dalla crisi climatica all’inquinamento degli ecosistemi – mostrano dati sempre più allarmanti. Oggi, nel 2025, appare quindi chiaro a molti che la protezione ambientale non può funzionare. Almeno non da sola. Negli ultimi vent’anni, infatti, l’attenzione si è rivolta sempre più verso una disciplina relativamente nuova, nata negli anni Ottanta, chiamata restoration ecology (in italiano, restauro degli ecosistemi). Non è difficile afferrare il cambio di paradigma: se fino a qualche anno fa proteggere gli ecosistemi era considerata l’unica strada percorribile, oggi possiamo rimboccarci le mani e provare a ricostruire gli habitat che sono stati intaccati o fortemente danneggiati e ridotti.

“Se fino a qualche anno fa proteggere gli ecosistemi era considerata l’unica strada percorribile, oggi possiamo rimboccarci le mani e provare a ricostruire gli habitat che sono stati intaccati o fortemente danneggiati e ridotti”.

Secondo l’ecologo Roberto Danovaro, autore di Restaurare la natura. Come affrontare la sfida più grande del secolo (Edizioni Ambiente, 2025) e Rigenerare il pianeta insieme a Mauro Gallegati (Editori Laterza, 2025), il restauro degli ecosistemi (che in alcuni casi viene anche chiamato “rinaturazione”) assomiglia a una procedura di terapia intensiva, da attuarsi quando la situazione è critica e non c’è tempo da perdere. Se la prevenzione e la protezione restano infatti strumenti indispensabili, ormai non possiamo esimerci dal tentativo di recuperare anche quanto stiamo perdendo o è sul punto di scomparire per sempre. La necessità di agire su due fronti si nota anche nello slancio delle organizzazioni internazionali che si occupano di conservazione: se fino a qualche anno fa l’obiettivo primario era proteggere il 30% degli ecosistemi terrestri e marini entro il 2030, il decennio 2021-2030 è stato definito dalle Nazioni Unite come il decennio dell’ecology restoration. L’Europa è in prima linea: con l’approvazione della Nature Restoration Law nel 2024 si prevede il restauro del 20% degli ecosistemi europei entro il 2030, e ci si spinge più in là, con percentuali del 90% al 2050.

Ma come si fa a restaurare un ecosistema degradato? Per prima cosa è necessario distinguere fra restauro attivo e passivo. Con il secondo è molto più difficile ottenere risultati, in quanto si lascia che l’ecosistema si riprenda da sé, con gli esseri umani a fare più che altro da custodi. Nel caso del restauro attivo, invece, è l’essere umano a favorire il recupero a partire da quelle specie che sono dei veri e propri “ingegneri ecosistemici”. Alberi e coralli sono gli esempi più semplici, in quanto si tratta di organismi che possono dare origine a un gran numero di habitat adatti a ospitare altre specie. Foreste e barriere coralline, infatti, sono i luoghi sulla Terra dove la concentrazione di biodiversità è più alta. Un intervento di riforestazione, quindi, è un classico esempio di restauro ecologico, un’operazione che, fra l’altro, viene avviata da un intervento umano ma non prevede una vera e propria fine, perché segue i ritmi e i cicli naturali. Scrive Danovaro:

Il restauro ecologico viene compiuto utilizzando organismi che devono adattarsi e crescere, che possono essere predati o pascolati. È un po’ come riavviare un insieme di processi facendo loro ripercorrere gli stadi ecologici (successioni) che avvengono in natura e che porteranno alla creazione di una fitta rete di interazioni ed equilibri. Tutto ciò porterà al progressivo recupero della biodiversità persa in seguito all’eradicazione dell’habitat, all’aumento di funzioni ecosistemiche, all’incremento di biomassa e produzione, nonché a una maggiore robustezza e stabilità.

Il restauro degli ecosistemi per funzionare deve servirsi degli sforzi di numerosi settori, non per forza strettamente scientifici: oltre alle scienze occorrono infatti economia, conoscenze locali e tradizionali (note come LEK) e scienze sociali. Inoltre, deve essere in grado di integrare i bisogni degli ecosistemi con gli esseri umani che in quegli stessi ecosistemi vivono o su cui basano la propria sussistenza. In questo senso, la restoration ecology è fondamentale per il futuro del pianeta perché non può funzionare in assenza del cosiddetto approccio One Health, secondo il quale la salute degli esseri viventi, umani compresi, è inscindibile da quella degli ecosistemi.

Oggi nel mondo sono in corso innumerevoli progetti di restauro ambientale: dalle praterie marine in cui pascolano i dugonghi lungo le coste di Abu Dhabi alle aree umide delle Everglades in Florida. Foreste, barriere coralline, paludi, aree montane: gran parte degli ecosistemi terrestri è oggetto di progetti di recupero, piccoli o grandi che siano. È chiaro però che il restauro marino è più complicato rispetto a quello terrestre. Roberto Danovaro segue da anni i progetti di restauro attivi nel Mediterraneo. Raggiunto da Lucy si dichiara ottimista nonostante le condizioni critiche del mare nostrum: «È ancora un grande hot-spot di biodiversità, ma negli ultimi anni è stato colpito da ondate di calore sempre più frequenti, intense e prolungate. Inoltre, la distruzione diretta degli habitat è ancora diffusa a causa delle attività di seppellimento generate dall’edilizia costiera, dagli ancoraggi selvaggi e dalla pesca a strascico. Dato che c’è il rischio di una tempesta perfetta, e non possiamo aspettare troppo, dobbiamo affiancare alla protezione degli ecosistemi il loro restauro. Ci sono dati incoraggianti provenienti dalle cosiddette foreste animali (gorgonie, corallo rosso), ma anche dalle piante acquatiche come Cymodocea nodosa, Zostera marina e Zostera noltii. Con la famosa Posidonia oceanica è invece più difficile. Lavoriamo anche con i banchi di ostriche (Ostrea edulis) dell’Adriatico, fra gli habitat marini più minacciati al mondo».

L’Italia nel 2023 ha lanciato il progetto PNRR MER (Marine Ecosystem Restoration), dedicato non soltanto alla mappatura dei fondali e alla costruzione di una nuova nave oceanografica ma anche al restauro ecologico di diverse aree danneggiate del Mediterraneo. «La comunità scientifica italiana è all’avanguardia» continua Danovaro. «Stiamo intervenendo e facendo ricerca su ecosistemi che sequestrano anidride carbonica e la trasformano in carbonato di calcio, rinnovano gli habitat, favoriscono la ripresa della biodiversità, aumentano la produttività del mare, puliscono l’acqua e offrono riparo dalle ondate di calore. Insomma, non potremmo attuare operazione migliore». Il nodo economico, come hanno mostrato molti studi sulla restoration ecology, può essere un ostacolo soprattutto all’inizio, ma il ritorno può rivelarsi davvero molto buono. Conclude Danovaro: «Bisogna insistere sia sui benefici del fare operazioni di questo tipo, ma anche sugli effetti del non fare. Questa alleanza fra scienza ed economia è assolutamente indispensabile, costituisce un vero e proprio asset della nostra economia futura».

Danilo Zagaria

Danilo Zagaria è biologo, divulgatore scientifico e redattore editoriale. Scrive di libri, scienza e animali su diverse testate, fra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera». Il suo sito personale è La Linea Laterale. Nel 2020 ha fondato la rivista letteral-scientifica «Axolotl». Con add editore ha pubblicato In alto mare. Paperelle, ecologia, Antropocene, finalista dell’edizione 2023 del Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica, e Il groviglio verde. Abitare le foreste dal Mesozoico alla fantascienza.

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