Articolo
Riccardo Venturi
Queste porcellane fiorite di corallo sfidano l’arte

Queste Porcellane Fiorite Di Corallo Sfidano L’arte Cover Venturi
arte natura storia

Nel 1723 la nave mercantile che le trasportava naufraga al largo del Vietnam e per 250 anni fuoco, acqua e vita subacquea le trasformano in sculture abissali. Ma chi è l'artista, l'artigiano o il mare?

La collezione del Victoria and Albert Museum di Londra conserva oltre 2,8 milioni di oggetti. Facile che, girando nella World Ceramics Gallery, stanza 145, passi inosservata la mia “opera” preferita. La scrivo tra virgolette perché ha un fascino legato alla sua capacità di mettere in crisi la distinzione tra arte e natura. Sea Sculpture (17×22 cm) è una porcellana ritrovata nel 1998, assieme a oltre 130.000 artefatti, sul fondale del mare 90 miglia nautiche a sud di Capo Ca Mau, in Vietnam. Nella scheda che l’accompagna, alla voce artist/maker è riportato “Unknown”. Niente di nuovo, se pensiamo che la storia dell’arte, ancor più nel caso di manufatti prodotti in serie, è costellata di opere senza paternità, ma la mancanza di un autore ha qui un significato inedito.

La storia di Sea Sculpture inizia attorno al 1723-1735 su una nave mercantile che trasporta porcellane cinesi realizzate all’inizio del XVIII secolo, in gran parte provenienti da Jingdezhen, il più importante centro di produzione di porcellana in Cina, oggi gemellato con Faenza. Secondo Nguyen Dinh Chien – curatore del Museo di storia vietnamita a Hanoi, specialista di ceramica e autore di una monografia su queste porcellane – la nave era salpata da Canton (oggi Guangzhou), diretta a Batavia (attuale Jakarta), dove avrebbe affidato il carico alla Compagnia olandese delle Indie orientali che, a sua volta, l’avrebbe smerciato in Europa. 

Si tratta di merci culturalmente ibride: alcuni di questi piatti, tazze, articoli da cucina o da tavola raffigurano motivi europei, come i tipici villaggi di pescatori olandesi. Ma lo fanno con uno stile cinese smagliante, all’epoca simbolo di vanità se non di piacere lussurioso, l’opposto dello stile neoclassico. Chinoiseries o, con un termine più prezioso, Chine de commande. Ma l’ibridismo gioca su un piano più profondo che mette in gioco la stessa natura di Sea Sculpture.

Durante la traversata, divampa un incendio a bordo che causa la fusione di alcune porcellane; l’equipaggio non riesce a domare le fiamme e la nave naufraga, trascinando il prezioso contenuto nella sua rovinosa discesa nel Maelström. Entra così a far parte dei circa tre milioni d’imbarcazioni naufragate, secondo una stima dell’UNESCO, e dei tanti ripescaggi preziosi, come i reperti archeologici del naufragio datato I secolo a.C., ritrovati nel 1900 da un gruppo di pescatori di spugne davanti all’isola di Anticitera.

Fuoco e acqua: l’intervento di questi due elementi naturali muta per sempre le porcellane cinesi. Con le fiamme dell’incendio, si deformano: elemento necessario per la cottura della ceramica, il fuoco sfugge al controllo umano e mostra la sua forza distruttiva. Con l’acqua degli abissi, crescono: lontano da onde e correnti, le porcellane riposano due secoli e mezzo sul fondale marino, dove coralli e conchiglie proliferano sulla loro superficie.

“Created through accident and nature”, precisa la scheda del museo. Levigate meno dall’azione umana che dai fenomeni naturali, meno dai forni per ceramica che dalla vita marina, Sea Sculpture non è solo il residuo di un naufragio né, più poeticamente, un montaliano osso di seppia. Sea Sculpture risponde a un’estetica della concrescenza e dell’incrostazione su cui ha insistito Killian Quigley in Reading Underwater Wreckage. An Encrusting Ocean (Routledge, 2023).

2008br9181 (1)

Unknown, “Sea Sculpture”, © Victoria and Albert Museum, London

Tra le tecniche artistiche, la ceramica è quella più soggetta alla deformazione a causa del suo processo di cottura; ma è anche il medium che persegue in modo forsennato un ideale di perfezione. Ogni possibile malformazione va tenuta sotto controllo. È come se la storia della ceramica – attenta più al prodotto che al processo – abbia rimosso le deformità che sono parte integrante della sua produzione. Bisogna attendere la fine del XIX secolo per trovare dei ceramisti iconoclasti che abbracciano questi errori e anzi li riproducono volontariamente, che cercano l’incidente deliberato in quanto parte del processo creativo: George E. Ohr, Lucio Fontana, Peter Voulkos, Robert Arneson, Sin-ying Ho, Edmund de Waal, Anne Verdier e molti altri.

Tuttavia, all’epoca della Cina imperiale, il mercato della porcellana si fonda su un oblio del fuoco: si ricerca la rifinitura impeccabile, ogni imperfezione e ogni deviazione dalla norma è punita. Essenziale per il successo del prodotto finale, il fuoco è anche l’agente imprevedibile che causa le più grottesche deformazioni e fusioni durante il processo di cottura e smaltatura. 

Ma tali distorsioni sono accettate solo in quanto interventi divini, frutto di una logica extra-umana. Sin dal 1082, a Jingdezhen un ufficio aveva il compito di monitorare la produzione di ceramiche, sanzionare ogni irregolarità, distruggere gli scarti per evitare che fossero immessi nel mercato, come ricorda lo storico dell’arte Alex Burchmore. Lo confermano i rari resoconti di viaggiatori occidentali che si avventurano da quelle parti e restano colpiti da “mucchi di detriti di ceramica, fiumi costellati di cocci, muri con frammenti di terracotta e strade pavimentate con resti di vasi e ciotole difettosi”. Ci troviamo insomma agli antipodi della tecnica giapponese del kintsugi che ricompone i cocci con foglie e polvere d’oro, e che l’estetica del riciclo ha riportato in auge.

Nel 1921 Paul Valéry immagina di far dialogare Socrate con Fedro a proposito di architettura (Eupalinos o l’architetto). In un passo celebre un Socrate in vena di nostalgia rievoca la propria adolescenza. Cammina su una spiaggia, in un concerto di elementi naturali: cielo, sole, sabbia, acqua, vento e quelle onde che rigettano sulla spiaggia – “frontiera di Nettuno e della Terra” – un oggetto calcareo grosso come un pugno. “Una cosa bianca, e della più pura bianchezza; levigata, e dura, e morbida, e leggera”.

“Chi ti ha fatto? – pensai. Diversa da ogni altra, eppure non informe”, in quanto fatta “della materia stessa della sua forma: materia d’incertezza (matière à doutes). Era forse un osso di pesce bizzarramente consumato dallo scorrere della sabbia fine sotto le acque; o avorio tagliato per non so qual uso da un artigiano d’oltremare? Chi sa?”. Socrate valuta diverse ipotesi, tutte possibili, tutte insoddisfacenti, e l’autore del piccolo oggetto resta sconosciuto. In difficoltà, Socrate si toglie d’impaccio spostando la questione sui tempi di creazione: indefiniti e lunghissimi nel caso del mare, raccorciati nel caso dello scultore, perché “un artista vale mille secoli o centomila o anche di più”. L’artista accorcia i tempi della natura, fabbricando in pochi giorni quello che lei ha creato nel corso dei secoli. In fondo non siamo lontani dall’Antropocene, in cui il genere umano è diventato capace di innescare in poche centinaia d’anni processi geologici millenari.

“Sea Sculpture rimette in questione la storia della scultura occidentale e la distinzione pacifica tra manufatto, artefatto ed ecofatto, e cui afferiscono tre approcci distinti: antropologia, storia dell’arte e archeologia. Come ripensare i loro rapporti reciproci?”

Socrate si gira tra le mani questo objet trouvé, indeciso se sia “opera della vita, dell’arte, o del tempo, e giuoco di natura” finché, incapace di risolvere l’enigma, lo rigetta nel mare da dove è venuto. Valéry rielabora così un suo souvenir quando, sulla spiaggia di Maguelonne (un’antica isola vulcanica oggi collegata alla terraferma vicino Montpellier) s’imbatte in una conchiglia o in un osso levigato dalle onde. Continuerà a riflettere su questo episodio (L’homme et la coquille, 1937) non diversamente, per restare in ambito francese, dall’antropologo Claude  Lévi-Strauss che, in Tristi tropici (1955), raccoglie ciottoli, conchiglie, radici di piante erbacee con la marea bassa, realizzando una sorta di museo di detriti.

Che Sea Sculpture sia un oggetto raccolto da un Socrate contemporaneo? È un manufatto commerciale, uscito dal ciclo economico, ripescato, venduto da Sotheby ad Amsterdam nel gennaio 2007 (Made in Imperial China), acquistato per poche migliaia di euro (4.200 e 5.400) dal Victoria and Albert Museum assieme a 182 porcellane decorate con smalto blu cobalto. È un artefatto esposto in diverse mostre d’arte contemporanea britanniche, come Aquatopia. The Imaginary of the Ocean Deep (Nottingham Contemporary, 2013) o, più recentemente, Undersea (Hastings Contemporary, 2025). La curatrice Marion Endt-Jones ha raccontato di aver chiesto in prestito Sea Sculpture per una mostra sui coralli al Manchester Museum nel novembre 2013 (Coral. Something Rich and Strange) ma il prestito le viene negato in quanto l’opera è troppo fragile.

Sea Sculpture, amalgama di porcellana, sedimenti marini e materia organica, un’incrostazione di conchiglie e crostacei, è tecnicamente un ecofatto, definizione utilizzata dall’archeologia ambientale o dall’archeologia dei paesaggi poco in voga nelle arti visive. Gli ecofatti sono quegli elementi organici e inorganici, vegetali e animali che concrescono su un reperto archeologico.

Penso ad esempio ai morti annegati che da secoli giacciono in fondo al mare, e che una volta s’immaginavano ben conservati, quasi imbalsamati, dalle temperature rigide. Sono questi esseri a popolare l’incubo di Clarence nel Riccardo III di Shakespeare, dove perle e gemme s’infilano nelle cavità oculari di teschi umani che giacciono sul fondo del mare. Un cimitero sottomarino, dove gli scheletri non hanno orbite vuote ma uno sguardo vitreo e luccicante, vivificati dall’incontro, fortuito ma facilitato dalle correnti sottomarine, tra un teschio cavo e i gioielli fuoriusciti dai relitti. Una vanitas abissale la cui fortuna critica è stata approfondita dall’architetto Emanuele Garbin in Bathygraphica. Disegni e visioni degli abissi marini (Quodlibet 2018).

Sea Sculpture è un titolo scelto dal Victoria and Albert Museum. Non m’interessa tanto la parzialità del titolo, che ignora il ruolo del fuoco: Fire and Water Sculpture sarebbe più preciso anche se, tra i fattori, dovremmo annoverare “vento, attrito, altro carico a bordo della nave, temperatura dell’acqua, pressione, acidità e salinità dell’acqua, correnti di marea, azione delle onde” come ricorda lo storico dell’arte John White. A interessarmi è piuttosto il ruolo del mare: Sea Sculpture o scultura del mare, dove il genitivo è soggettivo. Il titolo lascia insomma intendere che il mare stesso sia l’artefice della scultura-ecofatto, che giochi un ruolo creativo, non più relegato a mero deposito di relitti umani. Il naufragio diventa così una catastrofe creatrice, fautrice di una creatività espansa, al-di-là-dell’umano, assieme deformante e generatrice, dove arte e natura diventano indistinguibili.

Sea Sculpture è un entanglement natural-culturale in cui agisce una forza non-umana, in modo simile agli artisti contemporanei che lavorano direttamente con il vivente, e che, così facendo, rimettono in questione la storia della scultura occidentale e la distinzione pacifica tra manufatto, artefatto ed ecofatto, e cui afferiscono tre approcci distinti: antropologia, storia dell’arte e archeologia. Come ripensare i loro rapporti reciproci?

Ecco cosa fa di Sea Sculpture un unicum nella collezione del Victoria and Albert Museum, istituzione dedicata, come si legge sul sito ufficiale, a “design and creativity in all its forms” ma dove, per quanto largo sia lo spettro storico (dall’antichità ai giorni nostri), tematico (dalle arti applicate alla moda alla musica popolare), geografico (oltre i confini dell’Occidente), la fattura umana resta il prerequisito indiscusso. Installata tra tazze da tè e porcellane, Sea Sculpture passa facilmente inosservata; per molti di noi queste collezioni, per quanto pregiate, ricordano i ripiani delle credenze dei nonni che sanno di naftalina. Eppure qui, mimetizzata tra i cocci, c’è un un’opera artificiale e organica, un ecofatto costituito di – o meglio da – fuoco ed acqua.

Riccardo Venturi

Riccardo Venturi insegna Teoria e storia dell’arte contemporanea all’università Panthéon-Sorbonne di Parigi e si occupa del rapporto tra arti visive e scienze umane dell’ambiente.

Contenuti Correlati