Articolo
Camilla Capasso
Riscoprire il fuoco

Riscoprire Il Fuoco Capasso Cover

Nei miti la sua creazione è un momento di riscossa per la nostra specie, ma gli ultimi capitoli della sua storia raccontano disastri e tragedie. Ora si tratta di scriverne il futuro, con l'aiuto dei saperi indigeni.

La storia inizia più o meno così: all’inizio non c’era il fuoco e il mondo era freddo. Poi accade qualcosa. Una figura divina, un eroe, uno spirito antico – Prometeo in Grecia, Maui in Polinesia, il ragno acquatico nelle tradizioni cherokee – sfida l’ordine del mondo e ruba il fuoco per donarlo all’umanità. 

Le mitologie legate al fuoco, seppure con differenze geografiche e culturali, presentano elementi ricorrenti. Nella maggior parte di questi racconti, l’arrivo del fuoco segna un momento di svolta nella nostra esistenza: il mondo, da freddo e inospitale, diventa un luogo che siamo in grado di modellare secondo i nostri bisogni. Ma ogni furto, si sa, ha un prezzo. 

Se oggi fossimo chiamati a scrivere gli ultimi capitoli del mito del fuoco, racconteremmo di incendi sempre più vasti e frequenti, che devastano interi ecosistemi e mettono a rischio la vita di milioni di persone. Non sarebbe più una storia di scoperta e trasformazione, bensì di abuso e distruzione. Il fuoco, oggi più che mai, è diventato uno dei simboli della crisi ambientale e climatica che stiamo vivendo. 

Con ogni probabilità, i primi esseri umani entrarono in contatto con il fuoco attraverso eventi naturali: fulmini, eruzioni vulcaniche o incendi spontanei. La scrittrice e giornalista britannica Gaia Vince, nel suo libro Evoluzione, si interroga però su un punto cruciale: è stato il nostro cervello – più grande e intelligente di quello degli altri animali – a permetterci di addomesticarlo o, al contrario, è stato il fuoco a consentirci di sviluppare un cervello più grande? La risposta di Vince è: entrambe le cose. 

Padroneggiare il fuoco ci ha permesso di cuocere il cibo che mangiavamo cambiandone chimicamente la composizione e rendendolo dunque più digeribile. Questo ha permesso ai nostri antenati di ridurre il dispendio energetico dell’apparato digerente e di destinare più risorse allo sviluppo cerebrale. D’altro canto, è stato proprio quel cervello più evoluto a renderci in grado di controllare e sfruttare il fuoco come risorsa tecnologica.

L’esternalizzazione di parte del nostro fabbisogno energetico grazie al fuoco ci ha permesso di superare molti limiti imposti dall’ambiente, potenziando sia le nostre capacità fisiche che quelle cognitive. Così, con il tempo, abbiamo imparato a utilizzare il fuoco non solo per cuocere i cibi o scaldarci, ma anche per trasformare il paesaggio, ampliando le aree abitabili e adattandole alle nostre esigenze. Questo uso intenzionale del fuoco ha dato origine a pratiche di gestione ecologica profondamente radicate, come gli incendi controllati, capaci di rigenerare il paesaggio e favorire la crescita di nuove specie.

È il caso del firestick farming, una pratica con la quale le popolazioni indigene australiane davano fuoco a piccole porzioni di terreno in modo controllato e che ha contribuito a creare un ambiente eterogeneo, composto da savane e foreste rade, che favoriva la presenza di grandi erbivori come i canguri e stimolava la crescita di specie vegetali utili all’alimentazione, tra cui fiori, frutti e tuberi. Allo stesso tempo, questa tecnica svolgeva un ruolo fondamentale nella prevenzione degli incendi, eliminando regolarmente la vegetazione secca e il materiale combustibile e riducendo così il rischio che piccoli focolai si trasformassero in roghi devastanti. 

L’uso intenzionale del fuoco ha dato origine a pratiche di gestione ecologica profondamente radicate, come gli incendi controllati, capaci di rigenerare il paesaggio e favorire la crescita di nuove specie.

Con il tempo abbiamo imparato ad addomesticare il fuoco, dunque, a modellare i paesaggi attraverso incendi controllati, a servircene per rendere il mondo più ospitale. Eppure, scrive lo storico Stephen J. Pyne – autore di oltre una dozzina di libri sul tema, tra cui Pirocene (Codice edizioni, 2022), e uno dei massimi esperti in materia – “oggi viviamo nell’epoca del fuoco, un’epoca in cui le antiche profezie di mondi distrutti e rinnovati dal fuoco sono diventate realtà.”

Per raccontare questo nuovo mondo, Pyne ha coniato il termine Pirocene: un’epoca in cui gli incendi non sono più eventi naturali isolati, ma manifestazioni di una combustione sistemica. 

Pyne sostiene che l’evoluzione del rapporto dell’uomo con il fuoco possa essere suddivisa in tre fasi, primo fuoco, secondo fuoco e terzo fuoco. Il primo fuoco è quello descritto da Vince, prodotto da fulmini o eruzioni vulcaniche, che l’uomo ha imparato a usare e controllare fin dalla preistoria per cucinare, scaldarsi e intervenire sull’ambiente naturale. Il secondo fuoco è intenzionale e pianificato, utilizzato per gestire il territorio, liberare campi, fertilizzare il suolo e favorire certe colture o specie animali. Infine, il terzo fuoco è quello industriale, racchiuso nei motori a combustione. Questo fuoco non brucia più all’aperto, ma all’interno di macchine e infrastrutture, alimentato da combustibili fossili – ed è proprio questo tipo di fuoco, secondo Pyne, ad aver profondamente alterato il clima del pianeta.

In altre parole, la nostra storia con il fuoco sarebbe passata da una relazione di co-evoluzione e adattamento con l’ambiente a una dinamica di sfruttamento e alterazione sistemica. Se i primi due fuochi – quello naturale e quello controllato – erano integrati negli equilibri ecologici e avevano una funzione rigenerativa, il terzo fuoco ha rotto questo equilibrio. Non plasma più solo il paesaggio, ma l’intero sistema climatico terrestre. 

Anche lo scrittore John Vaillant individua nei combustibili fossili la scintilla di una nuova epoca. Il Petrocene, come Vaillant lo battezza, sarebbe iniziato 150 anni fa con la scoperta del petrolio, che ha reso accessibili a chiunque enormi quantità di energia, prima riservate solo a ristrette élite. In L’età del fuoco: una storia vera da un mondo sempre più caldo (Iperborea, 2024), Vaillant racconta l’incendio di Fort McMurray, scoppiato in Canada nel 2016. L’incendio interessò 5.900 chilometri quadrati di territorio causando lo sfollamento di 88.000 persone; fu uno dei peggiori incendi della storia del Canada e venne dichiarato definitivamente spento solo un anno dopo. 

Per Vaillant, quella di Fort McMurray è una tragedia perfettamente rappresentativa di questa nuova era. La città, infatti, era stata costruita intorno all’estrazione del petrolio da sabbie bituminose e quasi tutti gli abitanti lavoravano per l’industria fossile. Il petrolio, una volta raffinato e bruciato, produce CO₂ contribuendo a un clima più caldo e secco, proprio le condizioni che hanno innescato il devastante incendio di Fort McMurray. 

Anche se oggi disponiamo di molti più dati, quantificare l’effetto diretto del riscaldamento globale sugli incendi è però più complesso di quanto si pensi, soprattutto perché l’innesco e la propagazione dipendono anche da numerosi fattori non climatici. Tuttavia, studi recenti hanno dimostrato che gli incendi di grandi dimensioni, come ad esempio quelli che negli ultimi anni hanno devastato la penisola Iberica, presentano un tasso di diffusione significativamente maggiore rispetto a quelli che si sviluppavano in condizioni pre-industriali. In altre parole, gli incendi sono diventati più estesi, intensi e difficili da controllare rispetto al passato. 

Ma non è solo una questione di diffusione, è cambiata anche la geografia degli incendi, che stanno interessando aree sempre più a nord. Tra il 2001 e il 2023, infatti, le emissioni globali di CO₂ generate dagli incendi forestali sono aumentate del 60%, con un picco quasi triplicato nelle foreste boreali dell’Eurasia e del Nord America. 

Se da un lato l’utilizzo dei combustibili fossili ha fatto da acceleratore, dall’altro l’abbandono di quello che Pyne chiama secondo fuoco, cioè la pratica tradizionale del fuoco controllato per la gestione del territorio, ha rappresentato un ulteriore fattore di squilibrio.

Tra il 2001 e il 2023, infatti, le emissioni globali di CO₂ generate dagli incendi forestali sono aumentate del 60%, con un picco quasi triplicato nelle foreste boreali dell’Eurasia e del Nord America. 

Facciamo un passo indietro. Con la scoperta dell’ossigeno, nel 1774, il fuoco venne ricondotto a una semplice reazione chimica – la combustione – perdendo così il suo status di elemento primario con un ruolo ben definito nella gestione dei paesaggi, e diventando motore simbolico e materiale della rivoluzione industriale in corso. Mentre la combustione divenne sinonimo di modernità – razionale, misurabile, controllabile – il fuoco naturale fu relegato a una dimensione arcaica e caotica.

Da strumento di gestione ecologica, il fuoco divenne quindi una minaccia da eliminare. Le politiche di soppressione degli incendi, considerati sintomo di cattiva gestione del territorio, sebbene abbiano inizialmente ridotto la frequenza dei roghi, hanno finito per creare una sorta di debito col fuoco. Non solo: il progressivo abbandono delle campagne a favore delle città ha lasciato vaste aree rurali abbandonate. In questi spazi un tempo coltivati o destinati al pascolo, la vegetazione, soprattutto arbustiva e legnosa, è tornata ad espandersi spontaneamente, creando paesaggi sempre più infiammabili. 

In molte comunità, sia a causa delle politiche di soppressione degli incendi che dell’abbandono dei territori rurali, si è perso il contatto diretto con il fuoco e con il bagaglio di conoscenze che ne permettevano una gestione sostenibile. È il caso dei popoli indigeni della California, un territorio che negli ultimi decenni è stato devastato da incendi boschivi sempre più vasti e distruttivi. Per millenni, queste comunità hanno usato il fuoco in modo controllato, attraverso incendi di bassa intensità che svolgevano una funzione ecologica e culturale. Quasi un secolo di politiche anti-incendi del governo degli Stati Uniti ha determinato la scomparsa di simili conoscenze. Considerando ogni fiamma una minaccia da eliminare, questa strategia ha prodotto l’effetto opposto: l’accumulo di combustibile vegetale ha reso gli incendi molto più intensi e difficili da contenere. “Quanto più cerchiamo di eliminare il fuoco da zone che si sono evolute assieme ad esso,” scrive Pyne “tanto più violentemente ritornerà.” 

Solo negli ultimi anni si è cominciato a riconoscere il valore delle tecniche ancestrali di uso controllato del fuoco come strumento per mantenere gli ecosistemi in equilibrio. Oggi, in un contesto di cambiamenti climatici accelerati, chi si occupa di prevenzione e gestione degli incendi si trova costretto a rivedere radicalmente i modelli predittivi tradizionali, ormai inadatti a interpretare una realtà sempre più instabile e imprevedibile. Sta emergendo la necessità di sviluppare nuovi approcci operativi, basati sull’esperienza diretta, sull’osservazione sensibile del territorio e su una rinnovata alleanza tra conoscenza scientifica e saperi locali, in una prospettiva di co-gestione sostenibile del territorio.

L’antropologa Adriana Petryna, nel suo libro Lavoro d’orizzonte (DeriveApprodi, 2024), indaga proprio questo cambiamento di paradigma. Attraverso centinaia di interviste a vigili del fuoco, climatologi, biologi e rappresentanti delle comunità indigene, Petryna introduce il concetto di horizoning: la capacità, cruciale nell’Antropocene, di ridefinire continuamente i nostri orizzonti di azione e percezione in risposta a crisi ambientali sempre più complesse. Anticipare l’emergenza non significa più prevederla con esattezza, ma saper convivere con il rischio, accettare la parzialità dei saperi e valorizzare pratiche già esistenti di adattamento alla crisi climatica.  

È indispensabile, tuttavia, che questa nuova visione, al centro della riflessione di Petryna, si faccia strada anche a livello politico. A inizio giugno, i Paesi del G7, riuniti in Canada, hanno redatto il Kananaskis Wildfire Charter, un documento di intenti che sancisce un impegno politico condiviso nella gestione degli incendi boschivi. Se da un lato il segnale è positivo, per molti, però, si è trattato di un’occasione mancata: nel documento, infatti, non vengono menzionati i cambiamenti climatici, una delle cause principali dell’aumento e dell’intensificazione degli incendi.

Questo silenzio evidenzia quanto sia ancora urgente integrare le politiche di gestione del fuoco con una consapevolezza piena delle trasformazioni climatiche e ambientali in corso. Solo così potremo trasformare la tragedia degli incendi in un’opportunità di rinascita, riscrivendo gli ultimi capitoli del mito del fuoco come un racconto di responsabilità e speranza, anziché di dolore e distruzione.


















Camilla Capasso

Camilla Capasso scrive di cambiamenti climatici, accesso alla terra e sicurezza alimentare per organizzazioni internazionali, ONG e agenzie delle Nazioni Unite.

Contenuti Correlati