Si allargano le fasce climatiche, le aree con caratteristiche tropicali si ampliano e anche i tempi delle stagioni si trasformano. Con il cambiamento climatico cambiano limiti e confini delle condizioni atmosferiche e tutte le nostre abitudini ne subiscono le conseguenze.
Ai miei tempi, il cambiamento climatico non si studiava a scuola. Si parlava di clima in senso astronomico, principalmente attraverso la descrizione di fasce climatiche omogenee, sviluppate in senso latitudinale e con confini definiti dall’inclinazione dei raggi solari rispetto alla superficie della Terra. Del resto, la parola clima deriva dal greco e significa proprio “inclinazione”.
Venivano descritte cinque fasce climatiche: tropicale, compresa tra il Tropico del Cancro e del Capricorno (situati a circa 23.5 gradi di latitudine nord e sud), dove il sole si trova esattamente allo zenit durante i solstizi; le due fasce delle medie latitudini che si estendono dai Tropici fino ai Circoli polari (circa 66 gradi di latitudine in ciascun emisfero); e infine le due fasce polari. Ciascuna fascia, anche se molto estesa, ha un proprio clima tipico: torrido nella fascia tropicale, temperato alle medie latitudini, freddo nelle zone polari. Oggi, però, queste fasce perdono i loro confini, vittime di un rapido cambiamento.
In climatologia esistono diversi criteri per definire le zone con clima simile, e non tutti conducono necessariamente agli stessi confini. Uno dei metodi più usati per cogliere l’enorme varietà di habitat e microclimi presenti all’interno delle fasce latitudinali è la classificazione proposta nel 1884 dal geofisico e meteorologo russo Wladimir Köppen. Si basa sui valori medi mensili, stagionali e annuali di precipitazione e temperatura. Il clima tropicale, ad esempio, è caratterizzato da due stagioni: una calda e umida (la stagione delle piogge) e una secca e mite. Nella zona attorno all’equatore, la stagione delle piogge dura tutto l’anno, in contrasto con le condizioni aride e desertiche delle zone ai confini dei Tropici, dette subtropicali.
Il clima temperato delle medie latitudini è più variabile e caratterizzato dall’alternanza delle quattro stagioni che ben conosciamo: inverni tipicamente freddi, estati moderatamente calde e piogge distribuite durante tutto l’anno ma specialmente in autunno e primavera. Infine, i climi polari sono freddi, con inverni lunghi e rigidi ed estati brevi e umide. La classificazione di Köppen comprende anche una distinzione in sotto-climi, tra cui quello mediterraneo, caratterizzato da una stagione secca più lunga e un inverno più mite rispetto al clima temperato. Secondo la classificazione di Köppen, il clima mediterraneo presenta un mese più freddo con temperatura in media superiore a 0 °C, almeno un mese sopra i 22 °C e almeno quattro sopra i 10 °C; il mese più umido deve avere almeno il triplo delle precipitazioni rispetto a quello più secco, che riceve meno di 30 mm di pioggia.
Negli ultimi decenni, il riscaldamento globale ha provocato molti cambiamenti in tutte le componenti del sistema climatico terrestre, dall’atmosfera agli oceani, dai ghiacci alla vegetazione ai suoli, rimodellando anche molti aspetti del clima che ritenevamo fissi e immutabili, come la distribuzione delle fasce climatiche o il ritmo delle stagioni. In particolare, studi condotti negli ultimi vent’anni hanno mostrato che l’estensione della fascia Tropicale sta cambiando in risposta al riscaldamento globale. Non si tratta di un riposizionamento dei Tropici astronomici – Cancro e Capricorno – la cui posizione cambia naturalmente, lentamente e prevedibilmente di circa 2,5° di latitudine ogni 40.000 anni, per effetto delle oscillazioni nell’inclinazione dell’asse terrestre. I cambiamenti che si stanno osservando oggi sono molto più ampi, rapidi e difficilmente prevedibili.
Per comprenderli, è utile ricordare i processi che portano il clima tropicale ad avere le caratteristiche che ha, ad avere foreste ma anche deserti a seconda che ci si trovi all’equatore o nelle zone subtropicali. Fra i 30 gradi nord e i 30 sud di latitudine si trovano due grandi sistemi di circolazione atmosferica chiamati celle di Hadley, una cella per ciascun emisfero. E le loro dinamiche sono in grado di spiegare tutte le caratteristiche del clima e della biosfera che troviamo nella fascia tropicale. In ciascuna di esse, l’aria calda e umida sale all’equatore, si sposta in quota in direzione dei Tropici e, intorno ai 30 gradi di latitudine, scende, secca e calda, per poi tornare verso l’equatore in superficie creando i venti Alisei (anche noti come venti del commercio).
Di conseguenza, abbiamo la presenza delle foreste pluviali equatoriali nelle zone dove l’aria sale e l’umidità contenuta permette la formazione di nubi e precipitazioni, e quella dei deserti nelle zone subtropicali, dove l’aria scendendo si comprime e si riscalda, diventando secca. Se ci si fa caso, i principali deserti sul nostro pianeta si trovano nella zona subtropicale: il Sahara in Africa, il deserto Arabico in Medio Oriente, il Kalahari nell’Africa australe, il deserto dell’Australia centrale, quello di Atacama in Sud America.
L’“allargamento dei tropici” non è solo un cambiamento geografico ma ha forti implicazioni legate soprattutto ai cambiamenti nella quantità e disponibilità di acqua.
Le ricerche suggeriscono che i rami discendenti della circolazione di Hadley e le zone secche subtropicali a essi associate si sono spostati verso i poli nel corso della fine del ventesimo secolo e dell’inizio del ventunesimo. Lo spostamento, dal 1980, è tra 0,1 e 0,5 gradi di latitudine per decennio (diviso nei due emisferi) – è un ritmo tra le 150 e le 800 volte più rapido delle variazioni naturali legate ai cicli astronomici. Ciò suggerisce un possibile ruolo chiave giocato dalle concentrazioni crescenti di gas serra di origine antropica, che si somma alla variabilità naturale del clima. Esperimenti numerici mirati, con i modelli climatici, serviranno a distinguere meglio il ruolo dei possibili fattori che stanno facendo allargare i tropici. Le conseguenze sono significative: le zone aride del pianeta (come il Sahara o l’Australia centrale) si stanno espandendo e le contigue fasce temperate diventano più soggette a condizioni tipiche del clima subtropicale.
Nell’emisfero nord, ad esempio, l’espansione della cella di Hadley ha conseguenze in Europa, e specialmente nell’area del Mediterraneo che anche per questo è definita un hot-spot climatico con tendenze alla tropicalizzazione. Sono più frequenti le incursioni degli anticicloni africani, un tempo confinati sul Sahara, a scapito dell’anticiclone delle Azzorre, cui eravamo già abituati e che agiva da cuscinetto durante gran parte del periodo estivo, sia contro le perturbazioni da nord sia dall’intenso caldo africano. Gli anticicloni africani, oggi, portano calore e siccità nel mediterraneo ma sono anche meno stabili dell’anticiclone delle Azzorre: quando si ritirano per tornare sull’Africa, lasciano spazio a correnti più fredde che, scontrandosi con l’aria calda e umida preesistente, generano fenomeni estremi come grandinate violente e alluvioni lampo. L’“allargamento dei tropici”, quindi, non è solo un cambiamento geografico ma ha forti implicazioni legate soprattutto ai cambiamenti nella quantità e disponibilità di acqua.
Un discorso analogo riguarda le stagioni, che stanno cambiando caratteristiche e tempistiche in molte zone della Terra, specialmente alle medie latitudini. Estati più lunghe e più calde, inverni più corti e più caldi, primavere e autunni più brevi rappresentano oggi la nuova normalità, e questo tipo di tendenza potrebbe amplificarsi in futuro a causa dell’aumento dei gas serra e del conseguente riscaldamento. Assistiamo già oggi a una primavera che tende a iniziare prima, con un anticipo nel germogliamento, nella comparsa delle prime foglie e nella fioritura. Questo può generare sfasamenti nell’ecosistema, ad esempio quando le erbette fioriscono prima ma gli insetti impollinatori non cambiano i propri cicli. Ricordiamo che l’impollinazione è un servizio ecosistemico essenziale che mantiene e promuove la biodiversità, la salute dell’ecosistema e di conseguenza anche la nostra attraverso i cibi che mangiamo.
Un inizio precoce della stagione vegetativa, inoltre, espone le piante al rischio di danni da gelate tardive –gli eventi di gelo sono ancora possibili in un clima che globalmente di scalda – e a una maggiore vulnerabilità alla siccità estiva. Alcune ricerche hanno mostrato che una primavera precoce in Europa centrale e settentrionale nel 2018 ha sì favorito una maggiore crescita della vegetazione, ma ha anche contribuito alla rapida perdita di umidità del suolo con l’arrivo del caldo, amplificando le siccità estive.
Anche l’estate è cambiata, con periodi prolungati di caldo estremo, ondate di calore terrestri e marine. Il mediterraneo è il bacino che si è scaldato di più, accumulando un’energia che diventa il motore per eventi estremi più intensi nell’autunno seguente. Le estati degli ultimi anni, in Italia, sono caratterizzate da ondate di caldo afoso e periodi siccitosi molto lunghi e aspri – inframezzati a eventi di precipitazione improvvisi e violenti, spesso accompagnati da grandinate. E poi gli incendi, favoriti da suoli privi di umidità.
L’autunno, contrariamente alla primavera, si è spostato più avanti: inizia più tardi, con alte pressioni persistenti fino a ottobre inoltrato. Ci sono stati autunni caldi e soleggiati anche in passato, certo, e con precipitazioni scarse, ma erano eccezioni. Adesso avere alte pressioni anche a metà ottobre è considerato normale. È anche sempre più rara una fase di piogge abbondanti per tutti, sostituita da eventi di precipitazione sempre più localizzati e intensi, indice di una estremizzazione del clima ormai indubbia.
Le variazioni delle stagioni simulate dai modelli climatici per i decenni a venire mostrano che nello scenario “business-as-usual” primavera ed estate inizieranno circa un mese prima rispetto al primo decennio del ventunesimo secolo, mentre autunno e inverno inizieranno circa mezzo mese più tardi, l’estate, cioè potrà durare quasi metà anno e l’inverno meno di due mesi nel 2100.
Anche l’inverno mostra cambiamenti evidenti, con la neve che arriva più tardi e fonde prima. In un mondo più caldo, la neve è sostituita più spesso dalla pioggia, anche a quote elevate. La riduzione del manto nevoso ha conseguenze importanti: in montagna la coltre di neve protegge il suolo dalle gelate agendo da isolante e favorisce, al disgelo, il rilascio di nutrienti. Se manca la neve, inoltre, non si forma la riserva strategica di acqua che alimenta torrenti e fiumi nella stagione calda e non c’è neppure uno strato protettivo per i ghiacciai che, così, fondono direttamente all’arrivo del caldo perdendo massa e arretrando di anno in anno.
Le variazioni delle stagioni simulate dai modelli climatici per i decenni a venire mostrano che nello scenario “business-as-usual”, che prevede emissioni future elevate di gas serra, entro la fine del secolo primavera ed estate inizieranno circa un mese prima rispetto al primo decennio del ventunesimo secolo, mentre autunno e inverno inizieranno circa mezzo mese più tardi, l’estate, cioè potrà durare quasi metà anno e l’inverno meno di due mesi nel 2100.
In Africa, nella regione del Sahel, la relazione tra pastori transumanti e agricoltori sedentari si poggia tradizionalmente sul fatto che le terre arabili vengono utilizzate per la coltivazione durante la stagione delle piogge e per il pascolo degli animali durante la stagione secca. La scarsità di precipitazioni può interrompere questo accordo inducendo i gruppi pastorali a migrare verso le terre agricole prima del raccolto, causando conflitti.
L’ipotesi è stata valutata combinando informazioni etnografiche sulle localizzazioni tradizionali dei pastori transumanti e degli agricoltori sedentari con dati ad alta risoluzione su localizzazione e tempistica delle precipitazioni e degli eventi di conflitto violento in Africa dal 1989 al 2018, trovando che una riduzione delle precipitazioni porta i mandriani a migrare verso i territori agricoli vicini prima del raccolto, con conseguente competizione per le risorse. Il regime mutato delle precipitazioni, suggerisce lo studio, è una concausa dei conflitti tra pastori e agricoltori: i gruppi pastorali transumanti sono generalmente sottorappresentati nella politica nazionale, a suggerire che una distribuzione più equa del potere politico potrebbe generare benefici significativi in termini di pace.
Il clima terrestre non è, o almeno non è più, un concetto statico, ma dinamico. I fenomeni osservati negli ultimi decenni mostrano quanto le attività umane abbiano accelerato processi naturali con conseguenze significative per ecosistemi, agricoltura, risorse idriche. Comprendere questi cambiamenti, studiarli e sviluppare strategie di adattamento diventa essenziale, non solo per proteggere la natura, ma anche per garantire il benessere e la resilienza delle comunità che vivono sul nostro pianeta.