I minerali a cui il sociologo francese Roger Caillois ha dedicato arte e fantasticherie raccontano di una lunga tradizione alchemica e della nostra continua ricerca di un senso. E ci portano a domandarci perché scolpiamo la pietra.
Anni fa, incuriosito dall’immaginario geologico, avevo ripreso in mano Aberrazioni. Saggio sulla leggenda delle forme (1957) di Jurgis Baltrušaitis. Il secondo capitolo, sulle “pietre figurate” (pierres imagées), è accompagnato da una quarantina di fotografie di cui diciotto della stessa persona. In un Nota bene Baltrušaitis specifica: “Dobbiamo gli esemplari di quest’ultima serie a Claude Boullé, che ci ha generosamente aperto la porta delle sue collezioni”. Il dettaglio mi era finora sfuggito: Boullé non è solo un fotografo ma un lapidario, un mineralogista, un collezionista e un gallerista di pietre paesine o pietre-paesaggio. Con mia grande sorpresa, la sua galleria-boutique parigina risultava ancora attiva, a 28 rue Jacob, nel cuore di Saint-Germain-des-Près.
Dal giorno successivo ho cominciato a frequentare sporadicamente questo minuscolo negozio fino alla sua recente chiusura. Non si tratta di una semplice cessione d’attività, ma della scomparsa di uno degli ultimi fossili dell’epoca surrealista incastonati nel cuore di Parigi. La galleria-boutique, che non ha mai cambiato sede, era infatti frequentata, oltre che da Baltrušaitis, da André Breton, Yves Bonnefoy, Raoul Ubac, Kenneth White e, ovviamente, Roger Caillois. Si rifornivano di pietre per le loro collezioni o le prendevano in prestito per cercare ispirazione e illustrare i loro libri. È in questo negozio ad esempio che Baltrušaitis ha tratto materiale – e ispirazione – per le pietre figurate e le prospettive depravate.
Calcaire de type paésine. Val de l’Arno (Toscane, Italie)
Ogni volta che aprivo la porta vetrata di questo spazio dai battenti blu e ammiravo i minerali disposti sulle vetrine o a piatto, e in alcuni casi incorniciati come quadri, pensavo che, anni prima, avrei potuto imbattermi in uno dei suoi illustri clienti. Nato nel 1934, Boullé, dal carattere mite e riservato, annunciava spesso di voler chiudere l’attività, anche per trascorrere più tempo nel suo atelier a Saint-Faust, un villaggio sui Pirenei, ma continuava a rimandare l’ultimo giorno al punto che, quando ha infine deciso di chiudere il suo scrigno minerale nel 2024, è stato un fulmine a ciel sereno.
Alcune pietre paesine in possesso di Caillois sono ora esposte in Rêveries de pierres. Poésie et minéraux de Roger Caillois all’École des Arts Joailliers di Parigi (fino al 29 marzo 2026) curata dal mineralogista François Farges, che a questa collezione ha dedicato decenni di ricerca e una pubblicazione definitiva di oltre mille pagine (consultabile on line). Se tra i duecento minerali della collezione Caillois ora esposti le pietre paesine sono subito riconoscibili, il merito è anche di Boullé. Il loro sfondo è generato dalla compressione e dal frazionamento degli strati sedimentari di calcare, marna e argilla apparsi nei fondi oceanici dell’Eocene. I motivi grafici e cromatici che distinguono queste pietre-paesaggio sono invece il risultato naturale delle infiltrazioni di un’acqua ricca di sali minerali, di processi di ossidazione e di cristallizzazione della calcite.
I nomi francesi di queste operazioni restituiscono bene l’impressione che qui abbiamo a che fare con un processo alchemico, un lavoro d’altri tempi, sebbene Boullé non utilizzi solo martello e scalpello ma anche macchine rudimentali. Il risultato è quella che Boullé chiama, in linea col surrealismo, “geologia visionaria”.
Ma in che modo Boullé lavorava le sue pietre per rendere così netti i paesaggi? In La mémoires des pierres, a mia conoscenza l’unico suo testo, Boullé si concentra sul ciclo geologico e tettonico, sul fenomeno dell’erosione, sui sedimenti, i filoni e le fenditure delle rocce, ma non fa alcun cenno alla loro realizzazione, su cui esiste però un video girato nel 2020. Qui le diverse fasi sono accennate in modo schematico: il dégrossissage della pietra; il découpage con un disco diamantato; diverse fasi di polissage per addolcirla; il lissage e il trattamento con una polvere d’alluminio applicata sulla pietra; il lustrage, il rincement o risciacquo, l’esposizione al sole.
I nomi francesi di queste operazioni restituiscono bene l’impressione che qui abbiamo a che fare con un processo alchemico, un lavoro d’altri tempi, sebbene Boullé non utilizzi solo martello e scalpello ma anche macchine rudimentali. Il risultato è quella che Boullé chiama, in linea col surrealismo, “geologia visionaria”. Se già Athanasius Kircher riconosceva nelle pietre paesine città e montagne (Mundus subterraneus, 1665), gli inglesi vi vedono piuttosto delle rovine, e per questo le chiamano ruin-marbles. Ognuno può farsi la sua opinione visitando ora Rêveries de pierres.
Ma all’École des Arts Joailliers emerge un secondo artista, ed è lo stesso Roger Caillois. Influenzato dai paesaggi che segnano la sua infanzia (le rovine della nativa Reims, rasa al suolo dai bombardamenti tedeschi) e la fine della sua gioventù (le formazioni ciottolose e rocciose della Patagonia, che esplora durante i sei anni trascorsi in Argentina), la sua passione per i minerali nasce nel 1942 a Belo Horizonte.
Roger Caillois (1913-1978). Paris, 12/10/1978 – © Sophie Bassouls
Come racconta in Le fleuve Alphée (1978), al termine di una visita in una manifattura di quarzo per la fabbricazione di radar, gli viene regalata una pietra, scartata per un’imperfezione curiosa: la sua immagine si ripete al suo interno diverse volte in dimensione decrescente. Una mise en abîme che colpisce Caillois. La chiama “quarzo fantasma”, nome appropriato anche perché gli viene confiscato dalla dogana brasiliana in quanto materiale strategico, diventando così l’effigie di un tesoro perduto.
La sua collezione di minerali, rocce e fossili comincia verso il 1952 e prosegue fino alla sua scomparsa nel 1978, mentre stava lavorando a un manoscritto inedito e incompiuto, ritrovato due anni fa da Farges e pubblicato quest’anno, Pierres anagogiques. Oltre un migliaio di esemplari sono oggi conservati al Museo nazionale di storia naturale di Parigi.
Sarebbe però riduttivo considerare Caillois come un umanista erudito col tarlo per i minerali, perché, accanto al collezionista e allo scrittore, c’è un insospettabile, quanto mal compreso, scultore.
Caillois espone la sua collezione minerale in almeno due occasioni: la prima nel suo appartamento parigino, dove era disposta su delle mensole che s’intravedono in alcune foto e filmati. Decisiva la seconda, offertagli dalla galleria Katia Granoff di Parigi, allora a Place Beauveau, che, dal 9 al 29 marzo 1965 – un anno prima la pubblicazione di Pierres (1962-1966) – espone settantasette minerali della sua collezione. Jeux de la nature et sculptures intermédiaires, questo il titolo della mostra, è accompagnata da un pieghevole cartonato (17,5 x 24,5 cm) con due illustrazioni e un breve intervento dell’autore, Monologue d’un sculpteur, già pubblicato nel giugno 1963 sulla Nouvelle Revue Française con un titolo più eccentrico: Petite confidence scandaleuse sur la sculpture.
“Prendo le pietre così come sono, senza osare modificarne le forme. Mi sono convinto che alterarle vorrebbe dire quasi rovinarle in modo inevitabile. Perché queste superfici non sono arbitrarie. Non derivano né da un gusto passeggero né da una scelta discutibile. La loro bellezza non dipende da scuole e stili. Nasce dall’azione di forze cieche, irresponsabili e infallibili, le une insensibili, le altre esplosive”.
Di questa mostra si sa poco, purtroppo; in una delle rarissime recensioni, non si parla solo di “jeux de la nature” ma anche di “jeux de l’homme”. Nel suo testo, Caillois si chiede se un giorno non sentiremo più il bisogno di estrarre una forma dalle pietre – tipicamente, una sembianza umana da un blocco di marmo –, perché le pietre mostrano, al loro stato naturale, delle forme già compiute. Discreditato l’intervento manuale, la scultura ha ancora un futuro? “Prendo le pietre così come sono, senza osare modificarne le forme. Mi sono convinto che alterarle vorrebbe dire quasi rovinarle in modo inevitabile. Perché queste superfici non sono arbitrarie. Non derivano né da un gusto passeggero né da una scelta discutibile. La loro bellezza non dipende da scuole e stili. Nasce dall’azione di forze cieche, irresponsabili e infallibili, le une insensibili, le altre esplosive”.
Construction sculpturale de Caillois, reconstituée.
Dov’è quindi la “petite confidence scandaleuse” evocata dal titolo originario? Nella conclusione, che segna uno scarto rispetto a quanto affermato qui come nei quattro libri che Caillois ha consacrato dedicato alle pietre (Pierres, 1966; L’écriture des pierres, 1970; Agates paradoxales, 1977; Pierres anagogiques, 1978), nella quale scrive:. “Ho un tale rispetto per la natura che mi sforzo d’intervenire il meno possibile”. Intervenire? Poco prima parla di rettificare; segue la frase più sorprendente, correlata al titolo: “Mi cimento così in sculture segrete, che non mostro a nessuno e che sono fatte di pietre dove non modifico quasi niente; e quel poco, non senza rimorsi. A volte ricostruisco, adempio; rimuovo qualche escrescenza; mi azzardo a rendere visibile quanto resterebbe nascosto. Ma è tutto. E resto sgomento”. Qui Caillois lasciava il visitatore della mostra alla galleria Katia Granoff ammirare i suoi lusus naturae ritoccati.
Cuivre natif soclé sur hématite.
Insomma, non siamo solo davanti a un amante dell’ibridismo, come quando, ad esempio, incolla due ocelli in vetro su un cristallo di roccia proveniente probabilmente da Rio Grande do Sul (Brasile), trasformandolo nella testa di un’aquila. Ma a un “aumentatore” delle forme naturali che, in alcuni casi – rari e attestati –, interviene sulla sua collezione minerale per creare sculture intermediarie o segrete.
Non sorprende che Monologue d’un sculpteur sia rimasto un testo minore nel corpus di Caillois, in quanto non era chiaro a cosa facesse riferimento l’autore prima di Rêveries de pierres dove, per la prima volta, sono ricostruite ed esposte sei sculture di Caillois in una vetrina che vale da sola la visita della mostra. Ignorandone il significato, alcune sono state smantellate quando la sua collezione è entrata a far parte degli archivi del Museo di storia naturale.
Tentato dal demone dell’analogia e dalla rêverie, Caillois dava nomi evocatori alle sue pietre, riferendosi alle esplosioni nucleari, al sesso femminile, a maschere, ad alfabeti di lingue estinte, a portici e ingressi di una grotta, a feti favolosi, a danze macabre, a ferite e cicatrici e così via. Se alcuni di questi nomi sono senza dubbio apocrifi, non è il caso delle sculture segrete: Œuvre naturelle, un’agata su cristallo di roccia poggiato su cristalli naturali, provenienti probabilmente da Rio Grande do Sul e dal Madagascar; Flamme!, un rame nativo e un’agata dalla miniera di Champion (Nelson, Nuova-Zelanda) e forse dalla Renaia-Palatinato (Germania); Oiseau naissant, un calcedonio incollato su una lastra di selce, proveniente dalle Minas Gerais o Rio Grande do Sul e dall’Étretat (Alta Normandia); Fauve bondissant, una gogotte (una concrezione di arenaria dalla Foresta di Fontainebleau), su mezzo nodulo, segato e levigato, di agata messicana.
Oiseau Naissant Calcedoine.
Caillois si diverte ad accostare specimen lontani geograficamente e geologicamente. Commenta Farges: “Nessun mineralogista o collezionista esperto oserebbe commettere l’eresia di accoppiare pietre così dissimili con una colla appiccicosa e viscida. Caillois osa”. A volte (Oiseau naissant) la pietra sottostante svolge la funzione classica di basamento, di una struttura orizzontale su cui si erge un elemento verticale; altre volte (Fauve bondissant) le due pietre sono accostate secondo un’altra logica, sospesa tra l’oggetto surrealista e una sorta di ready-made geologico. Un incontro irrisolto, e il cui funzionamento escogitato da Caillois resterà misterioso.
Nelle pietre, nelle loro forme e colori, Caillois non trovava solo permanenza, serenità, purezza e perfezione geometrica, ma chimere, “quadri involontari della natura sonnambula”, giardini minerali tra il cosmico e il microscopico, una concorrenza tra il pittore – o lo scultore – e la natura. Sotto questo aspetto, Caillois non era diverso da Claude Boullé. Un cartiglio della sua galleria recita Rêves de pierres, riprendendo e ribaltando il titolo di un capitolo di L’écriture des pierres (1970) di Caillois: “pierres de rêves”, dedicato all’idea della natura che dipinge. Qui Boullé sembra più surrealista di Caillois: non sono la materia inerte su cui esercitare la nostra immaginazione e i nostri impulsi collezionistici, ma una materia inorganica dotata di capacità onirica. Sono pietre che sognano, non pietre da sogno. Ma dopo aver visitato la mostra parigina diventa chiaro che per Caillois, accanto a una natura pictrix, c’è anche una natura sculptrix e che a volte, nel segno di una carsica connivenza tra uomo e natura, si avvale di un piccolo intervento manuale.
Le immagini sono state gentilmente concesse dal Muséum national d’histoire naturelle, Paris, Collection de minéraux et gemmes, fotografia di François Farges