In una delle più antiche rappresentazioni dell'attività estrattiva umana possiamo riconoscere le radici della crisi che viviamo, e ripercorrerne la storia.
Quattro figure maschili raccolgono argilla da una cava rocciosa. Da destra a sinistra seguiamo l’elementare catena di montaggio, dall’estrazione al trasporto della materia: uno piccona la parete, uno raccoglie la roccia sgretolata in una cesta,uno la porge alla figura più esile che, in equilibrio precario, è il tramite tra il sottosuolo e la superficie. Chiara la divisione del lavoro: i due più giovani assistono i due adulti, riconoscibili dalla barba, in un’operazione che richiede esperienza e diverse competenze, tra cui la localizzazione delle fonti d’argilla a seconda dei prodotti di ceramica da realizzare, la conoscenza della topografia locale e dei processi geologici. Per rifocillarsi, bevono acqua o vino dall’anfora sospesa al centro. La nudità, che si ritrova anche nelle immagini che raffigurano i lavoratori nelle fornaci, indica lo statuto sociale degli artigiani e la condizione degradante della loro attività. Le dimensioni smisurate dei genitali (αἰδοῖα) dell’uomo più attivo non sono quindi legate alla virilità, come verrebbe da pensare, ma allo stigma sociale, a meno che l’intento non sia ironico.
Si tratta di un pinax, una piccola (10.4×13.2 cm) tavoletta votiva in terracotta, piatta e rettangolare, dipinta su entrambi i lati (sull’altro è raffigurato un uomo a cavallo). Risalente al 570 a.C. circa, è stato ritrovato casualmente nel 1879, assieme a un migliaio di frammenti sulla collina di Penteskouphia, un villaggio sconosciuto vicino Corinto, sull’istmo che unisce la penisola del Peloponneso alla terraferma greca. Conservato all’Altes Museum di Berlino, alcuni si trovano al Louvre di Parigi, mentre i 350 frammenti ritrovati in seguito, nel 1905, sono al Museo archeologico dell’antica Corinto. Rispetto ai pinakes in altri materiali (legno, avorio, pietra, metallo), quelli in terracotta si sono conservati meglio grazie alle proprietà dell’argilla cotta e al fatto che non si prestava a essere riutilizzato. In questo corpus di 1200 frammenti, diverso da quello ritrovato ad Atene, dove abbondano scene mitologiche e rituali, prevalgono le scene di agricoltura e lavori manuali, caccia, equitazione e lotta, navi e singoli animali e, soprattutto, 97 scene di vasai al lavoro.
Anziché processioni, danze e sacrifici, come nei pinakes ateniesi, quelli di Penteskouphia offrono le rappresentazioni più precise e complete del ciclo produttivo della ceramica e della fabbricazione dei vasi. Nella nostra tavoletta – una delle più “affollate” – è mostrata la fase preliminare nella cava: dopo aver rimosso lo strato superficiale detto sterile, composto da sabbia, ghiaia e ciottoli, e aver trovato l’argilla, si scava un fossato a cielo aperto. Gli affioramenti d’argilla sono esposti su entrambi i lati della scarpata e, come mostra una recente ricostruzione dell’originale, sembrano inghiottire i quattro uomini. Non sorprende che, in un primo momento, sia stata interpretata come un’estrazione di minerale argentifero.

L’utilizzo di questo pinax è ancora dibattuto. I due fori sul lato superiore indicano che era appeso a una corda. “Schematicamente, i pinakes possono essere classificati in tre categorie principali in base al loro metodo di esposizione. Potevano essere appesi con una corda agli alberi o alle pareti degli edifici. Se non erano forati, potevano essere disposti intorno all’altare o a una statua di culto, su scaffali e tavoli di legno o a terra. E potevano essere collocati su pilastri e colonne o affissi su fusti di colonne” (Kyriaki Karoglou). Tuttavia, nell’area di Penteskouphia non sono state ritrovate vestigia di edifici antichi o fornaci da ceramica.
Che il nostro pinax fosse destinato a un santuario o a un altare all’aperto come un boschetto sacro, dedicato o meno a Poseidone, per una devozione privata simile a quella delle icone? Che una comunità di vasai l’avesse collocato all’esterno delle fornaci come immagine apotropaica per conquistare il favore dei numi, alla stregua delle figure itifalliche o delle maschere di satiri? Che fosse, più prosaicamente, un campione da laboratorio di ceramica, lo scarto di un’esercitazione sulla cottura al forno? A riprova della natura ibrida delle immagini, il nostro pinax è compatibile con un contesto tanto sacro e rituale quanto industriale e commerciale.
Fin qui è archeologia. Tuttavia, se l’importanza storico-artistica del pinax è fuori discussione, non possiamo accontentarci delle analisi archeologiche per quanto appassionanti e approfondite. Perché in gioco non c’è solo una migliore comprensione delle tecniche artigianali della ceramica greca o dei risvolti religiosi ed economici nell’antica Grecia. Questa tavoletta esprime qualcosa di urgente sulla nostra situazione al tempo dell’Antropocene.
Secondo una visione diffusa, l’Antropocene è causato dalla nostra pulsione irrefrenabile a emettere più che a estrarre, malgrado la causa delle emissioni di CO₂ nell’atmosfera sia la combustione di diverse sostanze sotterranee. Che questo secondo gesto sia poco considerato lo dimostrano gli Accordi di Parigi siglati nel dicembre 2015 nel corso della COP21: nelle trentuno pagine del documento ufficiale “emissione” appare 98 volte, “estrazione” è assente. Nelle edizioni successive la situazione non cambia: la COP27 è passata alla storia per la presenza record di 636 lobbisti delle energie fossili che ne hanno approfittato per siglare accordi vantaggiosi e ribadire la sinergia tra energie fossili ed economia mondiale. Nel documento finale la parola “emissione” ricorre tredici volte, “estrazione” e “miniera” una sola.
“Secondo una visione diffusa, l’Antropocene è causato dalla nostra pulsione irrefrenabile a emettere più che a estrarre, malgrado la causa delle emissioni di CO₂ nell’atmosfera sia la combustione di diverse sostanze sotterranee”.
A ricordarlo è Phillip John Usher, professore di Letteratura e cultura francesi alla New York University, che in Exterranean. Extraction in the Humanist Anthropocene (Fordham University Press 2019) forgia il neologismo “exterranean”. Calcato su “sub-terranean”, exterranean insiste sull’operazione che estrae, porta alla luce e infine strappa qualcosa che apparteneva alla Terra e, per estensione, “what exists, belongs to, or is characteristic of moving away from the infernal underworld”. Come scrive Frédérique Aït-Touati nell’introduzione alla traduzione francese, indica “il processo complesso attraverso il quale l’invisibile, il nascosto, il sotterraneo diventa visibile, esterno, utilizzabile e, in tal modo, sfruttabile”.
Siamo exterranean perché “we live not just on the Earth but with it”: abitiamo una Terra che non è inerte ma sensibile, vivente, animata, reattiva, suscettibile, umorale. Una Terra lontana dal Globo che osserviamo a distanza di sicurezza, come se fossimo agenti esterni davanti a fenomeni che non ci coinvolgono e che ci lasciano, in finale, indifferenti. Una Terra ugualmente lontana da un Eden danneggiato dall’attività umana, in quanto nessun vivente si accontenta di occupare il suolo ma contribuisce a modificarlo se non a crearlo.
Sviluppando la riflessione sui terrestri dell’ultimo Bruno Latour – un invito a esplorare la superficie della Terra e la nostra condizione terrestre all’era del Nuovo regime climatico – per Usher abbiamo bisogno di nuove cartografie del terrestre e di un’ecologia dell’estrazione che, per essere efficace, non può limitarsi al recente dibattito sulla crisi climatica. Così Usher va alla ricerca dell’immaginario estrattivista nella longue durée della modernità, come quei manoscritti e manuali latini sul lavoro in miniera e l’estrazione che, a partire dalla fine del XV secolo, circolano soprattutto in Germania.
“Se non si tratta della prima immagine dell’attività estrattiva dell’uomo nella civiltà europea e occidentale, ne costituisce senza dubbio una rappresentazione precoce”.
Le tracce della terraformazione sono scritte negli archivi geologici del pianeta Terra, certo, ma anche negli archivi culturali, testuali quanto visivi. Non è il caso del nostro pinax?
Se non si tratta della prima immagine dell’attività estrattiva dell’uomo nella civiltà europea e occidentale, ne costituisce senza dubbio una rappresentazione precoce. È un’immagine poco nota ma determinante in una genealogia visiva dell’estrazione, e che precede di diversi secoli il De re metallica Libri XII (1556) di Georgius Agricola, le cui 292 xilografie offriranno le lettres de noblesse all’infrastruttura delle miniere.
Risalente a oltre venticinque secoli fa, il nostro pinax è ben conservato: i volti, le espressioni, le capigliature, i colori non sbiaditi dei quattro protagonisti, i loro gesti e posture. Nessuna deformità fisica, come in tante rappresentazioni antiche dei fabbri. La parte più consumata è curiosamente la cava che, allo stato attuale di conservazione, si sgretola sotto i loro piedi. Al punto che, in futuro, ne resterà solo una macchia scura che alcuni prenderanno per un’efflorescenza sulla superficie, per un’incrostazione dello sfondo, per un glitch dell’immagine.
È come se questi uomini laboriosi siano così assorbiti nella loro attività estrattiva da essere incoscienti delle conseguenze delle loro azioni sul lungo termine. È come se non si accorgessero che l’erosione farà presto capitombolare l’uomo più giovane che, sporgendosi in bilico dal dirupo, raccoglie il cesto con l’argilla, preziosa per la sua comunità. È come se non si accorgessero che – per un effetto perverso dell’invecchiamento naturale del pinax corinzio – a forza di drill, baby, drill la zona amorfa sulla destra sta abbandonando la sua natura geologica per assumere una minacciosa forma animale dalla testa taurina. Una belva nera pronta a gettarsi sopra il procace scavatore per sbranarlo.
Che sia un’immagine del collasso? Che esista una pinacotheca – alla lettera collezione di pinakes – perlopiù sconosciuta che dalle vetrine dei musei piene di cocci di civiltà scomparse interroga da vicino il nostro modo di abitare la Terra? Oggi non si lavora più nudi, senza protezioni o con strumenti così rudimentali, eppure in questi homo faber dell’antica Grecia – veri e propri exterranean – riconosco le nostre fattezze.