Articolo
Riccardo Venturi
Una foresta di libri

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arte natura storia

A fine Settecento, un misterioso naturalista tedesco di nome Carl Schildbach costruisce una biblioteca di migliaia di volumi, fatti non di carta ma di legno e corteccia. Un'opera scientifica impressionante che dialoga con il presente.

Nel 2012 visitai la Documenta 13 di Kassel e colsi l’occasione per recarmi al parco barocco di Wilhelmshöhe, nell’ex langraviato d’Assia-Kassel. Oltre ai giochi d’acqua, a colpirmi è un sontuoso dipinto che, per le sue dimensioni (340×665 cm), copre un’intera parete della Gemäldegalerie Alte Meister: Il serraglio del langravio Carlo (1722-28) di Johann Melchior Roos. Mostra una gioiosa arca di Noè, una finestra sul mondo vivente nelle sue manifestazioni animali più rigogliose per quanto difficilmente immaginabili nello stesso milieu. A modo suo Roos restituisce l’atmosfera della ménagerie o del serraglio che ospitava allora animali selvaggi ed esotici (tigri, foche, cammelli, casuari e così via). Nel 1784 è proprio questo serraglio ad arricchirsi del celebre elefante di cui Goethe studierà l’osso intermascellare del cranio per dimostrare la vicinanza tra uomini e animali. Se nel dipinto è assente ogni traccia antropomorfa, l’Uomo è il regista invisibile della scena, colui che rende di fatto possibile la coesistenza di animali così diversi, trasportati per nave da una parte all’altra del globo come se fossero merci.

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Johann Melchior Roos, “Il serraglio del langravio Carlo” (1722-28), Herzog Anton Ulrich-Museum

Alcuni giorni dopo, all’Ottoneum di Kassel, ignorando che le sue collezioni di storia naturale erano una volta conservate al Fridericianum, “cervello” della Documenta, m’imbatto nell’elefante di Goethe e, soprattutto, in una struttura esagonale di quercia. Si tratta di un’installazione dell’artista americano Mark Dion: cinque pannelli corrispondono ai continenti (Africa, Americhe, Asia e Oceania), con l’Europa che segna l’ingresso a una biblioteca di libri fatti non di carta ma di legno e corteccia. Una biblioteca che, realizzo con sorpresa, non è di Dion o di un altro artista contemporaneo ma risale al XVIII secolo.

L’autore è Carl Schildbach (1730-1817), uno sconosciuto naturalista tedesco, custode dello stesso serraglio dipinto da Ross. Nel bel mezzo sorgeva il suo Naturalienkabinett con minerali, uccelli tassidermizzati, frutta in cera e sculture di fiori che illustrano a fini pedagogici la classificazione di Linneo. Ne restano solo alcune testimonianze scritte, ma più fortunato fu il destino della biblioteca di legno ora installata da Dion. Tra il 1771 e il 1799 Schildbach realizza 530 volumi di diverso formato – in folio, in ottavo e in dodicesimo –, utilizzando 441 specie di alberi che crescevano nella tenuta del langravio. Inutile provare a sfogliarli, perché si tratta di oggetti fisici, a tre dimensioni se non a quattro, se pensiamo che alberi e arbusti sono colti nel tempo, attraverso le stagioni e nella loro metamorfosi.

Per leggere questi libri è necessario seguire un percorso suggerito dall’autore in un opuscolo di 18 pagine apparso nel 1788, quando stava ancora mettendo insieme la sua collezione. Ciascun libro ha otto facce, sei consacrate alle caratteristiche del legno e due alla storia naturale della pianta.

Si comincia dal dorso del libro, fatto con la corteccia dell’albero in questione, ma anche con le resine, i muschi e i licheni che si formano sulla corteccia. Su un’etichetta di cuoio rosso è riportata, stampata in oro, la specie dell’albero secondo la nomenclatura binomiale di Linneo, in latino e in tedesco. Si prosegue col taglio superiore e inferiore del libro. Il primo è costituito dall’alburno,  la parte esterna dell’albero, la più giovane, con gli anelli di accrescimento; il secondo dal durame, la parte più interna. Il frontespizio è un coperchio scorrevole, la quarta di copertina è realizzata con il midollo, la parte centrale del tronco. Il taglio del libro è costituito da tagli del legno a cuore vivo su cui sono incollati diverse varietà di funghi, un cubo di legno lucidato con l’indicazione del suo peso specifico, in gradi Fahrenheit e Réamur, in primavera, in autunno e dopo lo stoccaggio, per finire con un cubo di legno carbonizzato. Un’etichetta precisa gli usi conosciuti della pianta e le proprietà del suolo.

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© Les Éditions Martin de Halleux / Peter Mansfeld – Naturkunde Museum im Ottoneum

Questo viaggio nella morfologia dell’albero come negli anelli del fusto, dalla corteccia al midollo, prepara il lettore al contenuto del libro, che mostra lo sviluppo della pianta dalla nascita alla morte attraverso le sue fasi fenologiche, ovvero il ciclo di vita nelle sue mutazioni stagionali, ambientali e climatiche. Il libro contiene così l’intera storia naturale di un albero, visibile in un’unica composizione. Anche in questo caso, Schildbach propone un percorso di lettura, in senso orario partendo da in basso a sinistra. Si susseguono semi, plantula (l’embrione vegetale), piccoli germogli, gemme, rami a diversi stadi di sviluppo, fioritura, frutti e loro maturazione, frutti morenti, foglie secche, gusci sul terreno e, di nuovo, semi.

Il risultato è strabiliante. Schildbach è un maestro nel disporre i singoli elementi. Dialoga con la tradizione pittorica della natura morta, ma se ne discosta per il trattamento della superficie: protagonista suprema è la pianta, in primo piano, con una carta blu come sfondo che riveste lo spazio interno, riempito fino alle estremità. Siamo lontani dalla composizione arborescente tipica delle rappresentazioni botaniche, col tronco o il vaso in basso e la chioma in alto.

Sull’ultimo lato, quello opposto al coperchio scorrevole, è infine incollata una scheda botanica dell’albero, redatta con una calligrafia gotica difficilmente decifrabile. Riporta informazioni sulla riproduzione, la coltura, gli usi della pianta e delle sue diverse parti, la durezza del legno (utile per la costruzione di navi, ad esempio), le proprietà medicinali dei frutti, i fogliami raccomandati come cibo per gli animali, il rendimento termico del carbone…

Osservo da vicino questi specimen vegetali nelle magnifiche illustrazioni di un recente libro sull’opera di Schildbach: piante da frutto (meli, peri, ciliegi, susini, agrumi, melograni, caffè) oltre a noci, querce, pioppi, aceri, frassini, cornioli, spiree, rosai, clematidi (i libri sulle specie tropicali restano vuoti). Come è possibile che fiori e frutti siano ancora maturi a distanza di oltre due secoli? Qual è il segreto di Schildbach, a quale processo di stabilizzazione, a quale potente fissante ha fatto ricorso? A nessuno, perché il suo mondo vegetale è artificiale e non è più vero di una natura morta – una flora artefacta.

Infatti, assieme agli elementi naturali, Schildbach ricorre a tessuti di lino, carta colorata e soprattutto cera per modellare le sue creazioni vegetali nei minimi dettagli. Si tratta di cere botaniche, applicazione originale della ceroplastica, diffusa soprattutto nei modelli anatomici e nei ritratti. Ottiene così un’imitazione infallibile del mondo vegetale, la cui illusione resiste anche ai primi piani delle fotografie.

Compie questo lavoro certosino senza assistenti, da autodidatta; non intrattiene alcuna corrispondenza con scienziati famosi dell’epoca, non fa parte di società erudite, non è coinvolto in campagne botaniche. Chi visitava la sua collezione, previo pagamento di un obolo, restava colpito, oltre che dai volumi di legno ordinatamente disposti, dalla sua persona: un uomo alienato e trasandato, dallo stile di vita frugale, che consumava un solo pasto al giorno, avvolto in una folta pelliccia. Un animale silvestre rintanato nel suo cabinet.

A Melchior Kirchhofer, uno studente svizzero che studia a Marburgo e gli rende visita nel 1795, appare mogio e burbero, forse perché sente che il suo lavoro non ha il riconoscimento che meriterebbe. “Un demiurgo solitario al centro del suo prodigioso giardino, mentre organizza il cosmo quasi nella clandestinità”, secondo la scrittrice Claudie Hunzinger. Me lo immagino chino a raccogliere grani, rami, foglie e cortecce, ad assemblarli pazientemente sul tavolo della sua capanna, lavorando allo stesso tempo su diversi libri e continuando a occuparsi del serraglio ma anche della tassidermia di alcuni animali sotto la guida di Samuel Thomas von Sömmering al Collegium Carolinum. Pare che fu proprio Schildbach a occuparsi dell’elefante di Goethe.

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© Les Éditions Martin de Halleux / Peter Mansfeld – Naturkunde Museum im Ottoneum

Le conoscenze di Schildbach sono impressionanti: utilizza la classificazione di Linneo e non esita a illustrare la fecondazione dei fiori – un segno di modernità in un periodo in cui la vita sessuale delle piante suscitava riserve morali più che scientifiche; ma non esita a servirsi di altre classificazioni botaniche, come quella di Joseph Pitton de Tournefort, basata sulla forma della corolla. Dove e come Schildbach si sia formato resta un mistero. Abbiamo poche informazioni sul suo conto: era un uomo del XVIII secolo, vive in pieno Illuminismo, il periodo della tassonomia, della passione botanica di Jean-Jacques Rousseau, della leggibilità del mondo naturale. È in Germania che nascono allora le scuole forestali e si diffonde una silvicoltura scientifica, in reazione allo stato critico delle foreste europee, impoverite dallo sfruttamento intenso, dall’aumento del fabbisogno di legno per la metallurgia, dalla crescita demografica e da altre attività industriali come la costruzione delle navi. Nel frattempo, associazioni agricole difendono una gestione virtuosa e redditizia degli alberi nelle foreste – oggi lo chiamiamo “sviluppo sostenibile”, un’espressione equivoca che, dietro la protezione dell’ambiente, incentiva lo sfruttamento commerciale delle risorse naturali.

Schildbach fa scienza – cerca ovvero il sistema, la classificazione, la tipologia, la categoria – senza tradire la vita brulicante della foresta. Non diversamente dagli erbari, i suoi libri sono composti di materia vegetale e d’informazioni botaniche riportate su etichette di carta, tuttavia se ne discostano per sormontare un limite visivo, ben colto dal botanico Marc Jeanson: “Caratteristiche quali la disposizione spaziale delle foglie, i colori dei tessuti e alcune texture degli organi si perdono durante la pressatura e l’essiccazione. Da sempre agli erbari sono stati associati disegni e altre illustrazioni botaniche che consentono di restituire ciò che scompare durante la preparazione dell’erbario (per le versioni a colori) ma anche di rappresentare, su un unico supporto, organi osservati a scale diverse. Queste illustrazioni traducono anche i diversi stadi, o stati, della pianta a seconda della stagione, quello che gli erbari, che corrispondono alla raccolta di una pianta in un determinato momento del suo ciclo di vita, non possono rappresentare”.

Così Schildbach opta per materiali come la cera, le cui applicazioni botaniche restano poco (e male) documentate. Il suo è un erbario sui generis: non c’è un foglio sul quale è disposto uno specimen perché i due coincidono. Schildbach fa degli alberi e dei libri una sola cosa, eliminando lo iato tra l’albero e la sua descrizione, tra il mondo e la sua rappresentazione. Lontano dall’astrazione scientifica, la sua biblioteca sul legno è fatta di legno.

Lavoro di una vita, la siloteca di Schildbach non ha modelli preesistenti ed è unica tra quelle conservate nei musei di scienze naturali. Una ricerca del 1997 ne ha identificate 44 (tra cui due in Italia): si tratta perlopiù di rotelle di tronchi o di campioni simili a tavolette o mattoncini dalle dimensioni prestabilite (10x7x2 cm) dall’Index Xylariorum – siamo lontani dalla Holzbibliothek di Schildbach. Se esistono alcuni tentativi d’imitazione, Mark Dion ne resta l’interprete più sensibile. L’artista americano non si è limitato a esporre la siloteca ma ha aggiunto alla collezione storica sei libri: i primi cinque riguardano i continenti non considerati da Schildbach (Africa, Stati Uniti, America del Sud, Asia e Australia), il sesto è realizzato con una delle 7000 querce piantate da Joseph Beuys nel corso della Documenta 7 e 8 nel 1982-1987 (7000 Oaks).


Cosa rappresenta oggi la biblioteca-foresta di Schildbach? A distanza di oltre due secoli, è anzitutto un archivio vegetale, un inventario delle piante perenni che crescevano intorno al 1800 nell’antica Selva Ercinia vicino Kassel. È inoltre uno strumento pedagogico, se pensiamo che nel 1956 il campione tipo del pioppo canadese (Populus canadensis) è stato ritrovato nel libro 188 della collezione Schildbach. È anche un teatrino della vita botanica – del resto l’Ottoneum, dove è conservato, nasce come teatro – che ricorda le box of wonders del surrealista Joseph Cornell. Le foreste inscatolate da Schildbach mostrano infine una sensibilità ecologica che ci è familiare. I suoi libri ricostruiscono e restituiscono l’ecosistema dell’albero nella foresta, mai isolato ma considerato in relazione al suo ambiente e paesaggio circostante. Non a caso ci teneva che i suoi libri restassero in Germania: rifiutò  l’offerta di Buffon di portarla a Parigi e quella dell’imperatrice Caterina di farla entrare nella collezione della Kunstkamera di San Pietroburgo. Schildbach propose invece al langravio Guglielmo IX di acquistare le sue collezioni di storia naturale – inclusa la parte andata perduta – in cambio di un vitalizio di 5000 talleri. Morì a 87 anni.

Immagine in copertina © Les Éditions Martin de Halleux / Peter Mansfeld – Naturkunde Museum im Ottoneum

Riccardo Venturi

Riccardo Venturi insegna Teoria e storia dell’arte contemporanea all’università Panthéon-Sorbonne di Parigi e si occupa del rapporto tra arti visive e scienze umane dell’ambiente.

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