Oceani e Mediterraneo che si surriscaldano aumentano le probabilità che cicloni sempre più violenti si verifichino, tanto che secondo alcuni scienziati bisognerebbe aggiungere una categoria alla scala con cui si classificano. Ma prima di tutto dobbiamo migliorare le previsioni.
È fine settembre, la barca Perola do mar di Xploration Sailing, una compagnia nautica che organizza viaggi in aree remote degli oceani e dell’artico, sta attraversando il Nord Atlantico. È partita il 14 settembre dalla Groenlandia. Destinazione: Azzorre. Una barca di 18 metri e mezzo, comandante Dmitry Ryzhov. Il mare comincia a ingrossarsi, il cielo si fa scuro. Parte dell’equipaggio inizia a non sentirsi bene, le onde sono troppo alte.
«Per due giorni siamo stati fermi, bloccati nel ciclone con oltre quaranta nodi di vento con onde fino a cinque metri. Eravamo in sei a fare i turni», raccontano Marta Musso e Marco Magnani, biologi marini che si trovavano sull’imbarcazione. «Secondo le previsioni saremmo riusciti a evitare il nucleo più violento, ma poi i pronostici sono cambiati e ci siamo resi conto che ci sarebbe passato sopra. Siamo rimasti in mezzo all’oceano ad aspettare che si spostasse per non finire nell’occhio del ciclone e poi ci siamo diretti verso la Spagna. Lungo la strada già avevamo trovato molte tempeste, normali in questo periodo ma probabilmente potenziate anche a causa delle temperature superficiali dell’acqua, che erano molto elevate. Abbiamo letto che è dal 2005 che un uragano di quell’energia non si dirigeva verso le coste europee». Racconta Dmitry Ryzhov che è stato il passaggio più difficile e fisicamente impegnativo della sua carriera. Il ciclone Gabrielle ha poi colpito le Azzorre giovedì 25 settembre, con raffiche di vento fino a 185 chilometri all’ora. Poi, dall’altra parte dell’Atlantico, quella dei Caraibi, è arrivato Melissa con una forza distruttiva tale da devastare la Giamaica.
Uragani, cicloni, tifoni. Prendono nomi diversi sulla base del luogo in cui si formano e delle condizioni atmosferiche che li generano e li potenziano. I Maya pensavano fosse Huracán, il dio su una gamba sola, a crearli. Un dio che come loro si reggeva su un unico punto. Da allora abbiamo creato modelli di studio, meteorologici e climatici che ci consentono di analizzarli e di scoprire come si formano.
Sappiamo che sono messi in moto con l’energia fornita dall’aria calda e umida. Più l’acqua è calda al livello della superficie (e maggiore è la quantità di acqua calda), e più forte è la loro fonte di alimentazione. La condizione fondamentale per la creazione di un ciclone tropicale è che a fior d’acqua si misurino 26 gradi. Il calore porta la parte superficiale del mare a scaldare l’aria a contatto, che sale verso l’alto generando un vuoto, una zona di “bassa pressione” che attira aria fredda. Così si formano i venti, sempre più rapidi attorno all’occhio del ciclone. Nel frattempo, il vapore acqueo che sale condensa nel momento in cui, sempre più su, incontra temperature inferiori. E si creano le nuvole. La forza di Coriolis dovuta alla rotazione della Terra sul proprio asse, poi, dà all’aria il movimento rotatorio. E il ciclone tropicale è pronto.
Tipicamente, «questi eventi climatici si verificano in acque oceaniche», spiega Leone Cavicchia, ricercatore del Centro Euromediterraneo sui Cambiamenti climatici (Cmcc). «Si chiamano tropicali perché si generano e si spostano nell’area compresa tra i due tropici e hanno una determinata forza. Ma secondo alcuni studi potrebbe aumentare l’intensità a causa del cambiamento climatico. In conseguenza del riscaldamento globale, la quantità di acqua che l’atmosfera è in grado di trattenere cresce. E, inoltre, i cicloni possono diventare più lenti e questo ha un effetto sugli impatti. Si fermano più a lungo nello stesso posto e scaricano più acqua».
Il ciclone tropicale di categoria cinque Melissa, che pochi giorni fa ha devastato la Giamaica e poi meno intensamente Cuba, è arrivato con una forza senza precedenti. Era il 28 ottobre e mancavano poche ore al suo schianto, quando il Financial Times ha trascritto le parole di uno specialista di cicloni tropicali della World Meteorological Organization: «For Jamaica, it will be the storm of the century for sure». Intorno all’occhio venti fino a 298 chilometri all’ora, con mareggiate e piogge torrenziali. È il terzo uragano più forte mai registrato per pressione raggiunta.
Eventi con queste caratteristiche mettono in crisi la rigida griglia di caratteristiche della categoria 5, la più alta della scala Saffir-Simpson usata per misurare i cicloni, con venti da 252 chilometri all’ora fino a 310. Quella delle tempeste distruttive, insomma.
Climameter, un framework dedicato alla comprensione degli eventi climatici estremi mutuato dall’Institut Pierre Simon Laplace, ha scritto: «I cicloni simili all’uragano Melissa sono circa 0,5 °C più caldi, fino a 14 millimetri al giorno (10%) più umidi e fino a 8 chilometri all’ora (fino al 10%) più ventosi rispetto al passato. Interpretiamo l’aumento delle precipitazioni e dei venti più forti associati all’uragano Melissa come amplificati dal cambiamento climatico causato dall’uomo, mentre la variabilità naturale ha svolto un ruolo importante nel modulare lo sviluppo e la traiettoria della tempesta».
Eventi con queste caratteristiche mettono in crisi la rigida griglia di caratteristiche della categoria 5, la più alta della scala Saffir-Simpson usata per misurare i cicloni, con venti da 252 chilometri all’ora fino a 310. Quella delle tempeste distruttive, insomma. Nel 2024, gli uragani così sono stati due, Milton e Beryl. Melissa è il terzo per questa stagione. E con questo è tornata la discussione attorno alla nuova categoria 6: il 29 ottobre Scientific America ha parlato di «monstrous storms» che necessitano di una nuova classificazione, citando un paper pubblicato da Pnas nel 2024, di Michael F. Wehner e James P. Kossin, che definiva sempre più inadeguata la classificazione Saffir-Simpson in un mondo in riscaldamento.
Per comprendere le reali cause di questi eventi occorrono studi di attribuzione con procedure lunghe e laboriose. Ma quelli che già ne legano l’aumento di intensità al cambiamento climatico, alle emissioni del fossile e alle attività umane non si contano: rispetto a Milton, l’anno scorso la World Weather Attribution, istituto di ricerca fondato nel 2014 da Friederike Otto e Geert Jan van Oldenborgh per quantificare l’impatto del cambiamento climatico su intensità e probabilità di eventi meteorologici estremi, parlava di «un altro uragano più umido, ventoso e distruttivo a causa del cambiamento climatico», e aveva attribuito alla stessa causa anche la forza devastante di Helene (categoria 4).
Nel 2023, su Nature è uscito uno studio che, oltre a collegare eventi catastrofici di questo tipo alle attività umane, parlava dell’aumento del potenziale distruttivo di quelli che nel tempo escono dalla fascia tropicale e si spostano verso le medie latitudini subendo quella che si definisce una transizione extra-tropicale, «durante la quale perdono la loro simmetria e le caratteristiche di nucleo caldo. Trasformandosi in cicloni extratropicali, tendono a colpire aree più estese e quindi popolazioni più numerose».
Nello spostamento «perdono simmetria perché rispetto a quelli tropicali traggono energia da due masse d’aria che si spostano», spiega Leone Cavicchia, «e la differenza orizzontale di temperatura crea una struttura diversa. Con le condizioni dei mari che cambiano, questi passaggi si possono modificare. E possono viaggiare fino all’Europa: dopo la formazione tra i tropici, tipicamente al centro dell’Atlantico, si spostano verso l’America e quelli che non si esauriscono contro le coste proseguono verso l’alto, con la traiettoria di una “C”, a seconda della latitudine. Ma anche questo può essere modificato dal cambiamento climatico». Il percorso a “C” completa dipende da molte variabili, dalla latitudine del punto in cui la tempesta si forma, dalla sua velocità e dalla sua energia.
E poi ci sono gli eventi unicamente legati al Mediterraneo, il bacino che si scalda più in fretta di tutti, dove la temperatura superficiale dell’acqua ha raggiunto i +5 gradi rispetto alla media passata. «I fenomeni che hanno nella temperatura del mare i fattori necessari alla formazione anche qui trovano energia crescente e possono diventare più estremi», spiega Cavicchia. Dai Medicane ad altri eventi più o meno rari.
«I Medicane sono piccoli cicloni simili a quelli tropicali che nascono e muoiono nel Mediterraneo», prosegue Cavicchia. «Anche loro alimentati dalla temperatura superficiale in crescita, anche se con un funzionamento diverso». Nel 2013, uno studio firmato da due tra i maggiori esperti nei cicloni mediterranei, Romu Romero e Kerry Emanuel, e pubblicato da Jgr Atmosphere riportava che «con una frequenza media di soli uno o due eventi all’anno e data la mancanza di database sistematici e pluridecennali, una valutazione oggettiva del rischio a lungo termine dei venti indotti dai Medicane è impraticabile con metodi standard. Inoltre, vi è una crescente preoccupazione per il modo in cui questi fenomeni estremi potrebbero cambiare in frequenza o intensità a causa dell’influenza umana sul clima». I casi documentati di Medicane ne registrano una maggiore formazione nelle stagioni fredde e nelle regioni occidentali del Mediterraneo. Ma sempre secondo questo studio l’intero bacino deve prepararsi ad affrontare più tempeste e altri eventi anche più violenti dei Medicane.
In passato abbiamo elaborato teorie climatiche sulla base dei dati che avevamo registrato e sulle statistiche storiche. Oggi assistiamo alla distruzione di quelle teorie, su cui abbiamo fondato il nostro modo di abitare e costruire nel mondo.
Piogge estreme, cellule temporalesche, trombe d’aria, ma anche eventi meno noti come il derecho, una linea di temporali che creano un fronte di piogge con venti molto forti e precipitazioni estreme. «Capita spesso in America, da cui prende il nome, mentre da noi è più raro», commenta Cavicchia. «Nel 2022, però, se ne è formato uno che ha collegato le Baleari, dove si è originato, alla Repubblica Ceca, causando importanti danni in Corsica». Sull’isola francese il vento, tra 17 e 18 agosto, ha raggiunto raffiche fino a 224 chilometri all’ora e ha causato cinque morti e dieci feriti. Secondo un paper pubblicato nell’agosto 2023 dal Bulletin of American Meteorological Society, una delle cause di quello che è stato un evento «distruttivo» è il riscaldamento dovuto alle attività umane. Ancora.
«L’enorme energia in eccesso che abbiamo prodotto è stata assorbita dall’oceano», spiega Giulio Boccaletti, responsabile scientifico del Cmcc, «e questo sbilancia l’equilibrio energetico e climatico del pianeta. In precedenza abbiamo elaborato teorie climatiche sulla base dei dati che avevamo registrato e sulle statistiche storiche. Oggi assistiamo alla distruzione di quelle teorie, su cui abbiamo fondato il nostro modo di abitare e costruire nel mondo. Le infrastrutture che abbiamo progettato sono adeguate alle condizioni storiche, ma stiamo vedendo cambiare anche i tempi di ritorno: ci aspettavamo che un evento con determinate caratteristiche capitasse ogni cinquant’anni o più. Oggi lo vediamo tornare simile entro i due anni».
Ciò che progettiamo è pensato per le condizioni che, all’epoca, erano quelle del presente, pensando che sarebbero rimaste stabili. Abbiamo sempre visto i cambiamenti del mondo nel susseguirsi di molte generazioni, con il margine per rifare e modificare le costruzioni, ma alla velocità con cui surriscaldiamo l’atmosfera anche questi accelerano, e anche le infrastrutture devono essere proiettate verso il futuro. Soprattutto nell’area del Mediterraneo. «Vediamo questo mare quasi chiuso scaldarsi molto più rapidamente del resto», aggiunge Boccaletti. «La sua superficie ha raggiunto i 30 gradi. Le cause non sono ancora chiare, le capiremo quando analizzeremo le attribuzioni in futuro. Ma il suo riscaldamento è davanti ai nostri occhi e vediamo le reazioni nell’atmosfera».
Prevedere questi eventi, tuttavia, non è semplice. Esistono modelli numerici che possono intercettare condizioni favorevoli per la loro formazione, ma la certezza dell’intensità e più in generale delle sue caratteristiche arriva spesso poco prima dell’impatto. «Non si possono fare esperimenti sulla Terra come si fa in laboratorio», ha spiegato Gianmaria Sannino, dirigente della sezione Climar dell’Enea, durante la conferenza del 17 ottobre scorso del Festival for the Earth (For) a Torino con la direzione di Daniela Carrea, Giuseppe La Spada e Marco Merola. Festival che, peraltro, è stato inaugurato proprio dal Cmcc e da Giulio Boccaletti che ha consegnato il Cmcc Climate Change Communication Award 2025 con una menzione speciale a Lucy. «La sfida, a livello europeo e anche globale, è creare una mappa digitale degli oceani e del Mediterraneo. Sono più di cent’anni che cerchiamo di capire come funziona il sistema degli oceani. Ora servono modelli digitali, o gemelli digitali, completi di tutti quegli aspetti fisici che non abbiamo ancora pienamente compreso, ma che i computer possono analizzare grazie ai satelliti che ci forniscono informazioni sempre più dettagliate e ai dati che riusciamo a reperire nella sede degli eventi».
Dati come quelli registrati dalle stazioni meteorologiche o quelli catturati dagli “Hurricane Hunters”, i membri della US Air Force che anche durante il passaggio di Melissa hanno raggiunto l’occhio del ciclone, fino a dove il vento è nullo, per osservarlo. Un gemello digitale, un modello virtuale capace di replicare in toto un oggetto reale, con tutte le sue condizioni e variabili, creato aggiungendo più dati possibili, consentirebbe di verificare l’effetto di altre variabili ipotetiche e generare proiezioni verso il futuro.
«Da 15 anni lavoriamo su questo», commenta Sannino, «per riuscire a sapere non solo tra due o tre giorni qual è la probabilità che si verifichi un evento meteo estremo, ma anche prevedere quanti ce ne saranno nel prossimo futuro, e con quale intensità si presenteranno. Con i modelli che abbiamo a disposizione oggi è ancora difficile prevedere questo genere di eventi con precisione su una scala temporale lunga. I Medicane, per esempio, partono da una piccola scintilla, un “seme” meteorologico che gli attuali modelli climatici faticano a riprodurre con accuratezza. L’obiettivo è quello di arrivare allo sviluppo di un modello meteo-climatico, che unisce la precisione del modello meteorologico e dia informazioni su scale temporali di decine di anni. Questo è uno degli scopi del gemello digitale. Con la capacità di calcolo sempre più potente, una maggiore comprensione dei meccanismi chimico-fisici alla base dei mutamenti climatici, e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, il gemello digitale è sempre più alla nostra portata». Così potremo adattarci meglio, più in fretta e in maniera efficace a tutte le nuove condizioni che cambiano il mondo a cui siamo abituati, e ridurre la gravità degli impatti.