Oggi il film sul cane lupo che ha portato l'antitossina da Anchorage a Nome nel 1925 compie trent'anni. Ma qual è la vera storia?
Non è un cane, non è un lupo. E non è neanche l’unico eroe di quell’impresa che tutti ricordiamo; e nemmeno, se così si può dire, il frutto di un’ibridazione tra una specie domestica e una selvaggia. E, ancora, non trae da queste radici una forza superiore. Balto corre sul ghiaccio dei ricordi della nostra infanzia con le grosse zampe di un animale selvaggio. Nella realtà la storia ha seguito un corso diverso e pure un po’ più amaro. Qualunque sia la verità, questo mezzo-lupo della mitologia millennial resta pur sempre un simbolo sociale, emotivo, e anche di attenzione alla salute individuale e collettiva.
Quest’anno, il 2 febbraio, l’impresa che tutti ricordiamo come “quella di Balto” ha celebrato i cent’anni. E proprio oggi compie trent’anni il film di Simon Wells prodotto da Steven Spielberg che ne ha animato la storia: nel 1925, in occasione di un attacco di difterite che stava mettendo in pericolo i bambini dell’isolata cittadina di Nome affacciata sul mare di Bering, in Alaska, Balto trainò da Anchorage, durante il gelido inverno nordico, la slitta che trasportava l’antitossina, un siero ricavato dal plasma di cavalli immunizzati usato al tempo per curare questo tipo di infezione batterica. Vero, ma solo per la sua ultima tappa.
Come riporta su Anchorage Daily News lo storico David Reamer, esperto di storia dell’Alaska, all’inizio di quell’anno l’unico medico di Nome rimase senza il farmaco perché per via del freddo la consegna non poteva essere portata a termine. Ma i casi di infezione in aumento resero sempre più urgente avere nuove fiale. Alla fine dell’Ottocento le vittime di difterite erano tante, sei persone su dieci morivano soffocate perché il batterio impediva loro di respirare. Per la maggior parte erano bambini. Nel 1901, poi, il medico prussiano Emil Adolf von Behring ricevette il primo premio Nobel per la medicina della storia (insieme al giapponese Shibasaburo Kitasato): con il siero antidifterico aveva curato il primo bambino e, sviluppando il farmaco su larga scala attraverso l’accordo con un’azienda di Francoforte, riuscì ad abbattere la mortalità per difterite dal 60 al 20 per cento. Nel 1913, poi, migliorò il vaccino unendo la tossina difterica al siero con tossine terapeutiche, per produrre la reazione del sistema immunitario e poi continuando a proteggere passivamente il paziente. Aveva dato il via all’immunologia moderna.
I mezzi per curare c’erano, quindi, ma restavano lontani, bloccati nella neve. In un inverno che raggiunse temperature fino a -52°C, con una violenta tempesta che rendeva impossibile volare, i cani da slitta rimasero l’unica opzione di trasporto valida delle casse con i farmaci. Il percorso era lungo e faticoso e per accelerare i tempi e rendere più sicura l’intera impresa fu organizzato un sistema di staffette con un ricambio di conducenti e slitte: venti musher (i conducenti di quel tipo di slitta) e centocinquanta cani percorsero più di mille chilometri.
Una corsa contro il tempo, difficile e pericolosa: nel film parte l’arrogante husky Steele alla guida della muta, ma il freddo blocca i cani. È Balto a riportare a casa la squadra, galoppando forsennatamente, inseguito dalla paura di arrivare tardi, il timore di cadere in un burrone ghiacciato e il terrore di non essere abbastanza. Ed è l’apparizione di un lupo bianco ad aiutarlo a richiamare la sua origine selvaggia e la sua forza, e ritrovare quelle energie che possono sostenerli fino a consegnare il farmaco.
Nel gelido inverno del 1925, il primo a partire e a percorrere il tratto più lungo e impegnativo fu il musher esperto Leonhard Seppala con in testa il suo husky Togo. Poi le squadre si passarono il testimone lungo tutto il percorso. Balto era alla guida della muta che trainava la slitta che consegnò l’antitossina, con Gunnar Kaasen alla conduzione. Fu lui a passare alla storia.
Balto morì nel 1933, a un’età tra gli undici e i quattordici anni. Togo, che forse non aveva “goduto” della fama che qualcuno avrebbe voluto per lui, visse però tranquillo nel Maine nella casa del suo musher e della moglie fino ai sedici anni.
In quello stesso anno a maggio uscì il cortometraggio Balto’s Race to Nome, girato a Los Angeles tra pellicce (quelle indossate da Kaasen) sudate e cani stressati, e il 15 dicembre venne eretta a Central Park, a New York, una statua in bronzo, progettata da Frederick Roth e raffigurante l’eroe a quattro zampe. Poi, fallito il tour di promozione del film lungo la costa occidentale degli Stati Uniti e vista quella che il New York Times definì “l’imperturbabilità” di Balto di fronte ai vari riconoscimenti, i cani furono venduti e portati in uno squallido museo di Los Angeles. Come avevano potuto collaborare così poco?
Grazie a una raccolta fondi che mobilitò l’opinione pubblica per quella che venne dichiarata “una causa umanitaria, una causa educativa” dal neocostituito Comitato Balto di Cleveland, nel 1927 l’imprenditore George Kimble riuscì ad acquistare a sua volta i cani e li portò allo zoo di Cleveland, dove invecchiarono, lontani dalla neve ma quantomeno in uno spazio sicuro. Balto morì nel 1933, a un’età tra gli undici e i quattordici anni. Togo, che forse non aveva “goduto” della fama che qualcuno, come Seppala, che lo amava profondamente, avrebbe voluto per lui, visse però tranquillo nel Maine nella casa del suo musher e della moglie fino ai sedici anni.
Questa è la storia ricostruita, tra incertezze e versioni più o meno accurate. Un dettaglio chiave è che, a differenza di ciò che racconta il film d’animazione del ’95, che prende il cane-lupo come simbolo del “reietto” all’interno della società e vede nella sua natura selvaggia la radice di una forza indomita e superiore a quella degli altri cani da slitta, Balto non era un individuo frutto di ibridazione, cioè nato dall’accoppiamento di un cane con un lupo.
Secondo uno studio pubblicato nel 2023 su Science i cani da slitta di quel periodo che in Alaska erano usati come metodo di spostamento e trasporto durante le bufere o quando faceva particolarmente freddo erano importati dalla Siberia, ed erano piccoli e veloci, geneticamente un po’ diversi rispetto alle razze moderne. Questo potrebbe averne consentito la sopravvivenza e l’utilizzo anche nelle dure condizioni di quel tempo in quell’area geografica. I ricercatori hanno prelevato un campione di DNA dai resti tassidermizzati dell’animale che sono conservati dal Cleveland Museum of Natural History e si sono basati sui dati genetici di 682 mammiferi tra cani e lupi di oggi. Ne è emerso che Balto e colleghi erano di statura inferiore e più compatta, ed erano più capaci di digerire gli amidi, tutte caratteristiche che in circostanze di quel tipo potevano aiutare molto. Poi i ricercatori scrivono che dai geni non risultava “alcuna discendenza riconoscibile dal lupo”. Quantomeno recente.
Quindi, ecco, Balto non era un lupo, ma un cane, solo molto resistente e adatto a condizioni estreme, guida di una muta di altri cani altrettanto forti. Ma raccontare ai bambini la storia di un “semplice” cane che traina una slitta forse rischiava di non essere abbastanza efficace. Sicuramente meno poetico e appassionante.
Nella realtà, però, l’utilizzo di ibridi e di lupi può generare problematiche. Bisogna dire, intanto, che “lupo e cane sono la stessa specie”, specifica Marco Antonelli, responsabile grandi carnivori del WWF. “Il cane è stato addomesticato artificialmente in 30mila anni, con un’accelerazione negli ultimi due secoli”. Quindi la vicinanza c’è, solo che nel tempo abbiamo selezionato i geni adeguati ad avere animali con comportamenti più socievoli. E così abbiamo creato un animale che ci dà quell’affetto e fedeltà che identificano per noi il cane, rendendolo parte dei nostri nuclei familiari.
Eppure può accadere che “quando ci sono randagi o cani che possono muoversi in libertà si accoppino con lupe solitarie”, prosegue Antonelli. “E allora i piccoli crescono in natura come animali selvatici, pur portando parte del DNA del cane. E questi, a loro volta, saranno fecondi e genereranno altri lupi ibridi fino a che i geni si diluiranno nelle generazioni successive. Raramente avviene il contrario, cioè che un lupo maschio si accoppi con un cane femmina. In questi rari casi i cuccioli ibridi non andranno a incrociarsi di nuovo in natura, ma verranno con molta probabilità allevati dai proprietari del cane e gestiti come cani dall’indole un po’ più selvatica”.
Gli animali selvatici si abituano a frequentare zone abitate in particolare perché trovano facilmente cibo nei cassonetti, da una mala gestione dei rifiuti da parte delle aziende agricole, dalle ciotole di cani e gatti lasciate all’aperto oppure con prede non custodite come piccoli animali domestici non protetti.
Non è questa mescolanza di geni, in ogni caso, che dà origine a episodi di lupi che si avvicinano a persone o comunità urbane: “L’ibridazione non è legata alla confidenza”, prosegue Antonelli. Secondo la definizione universalmente riconosciuta di “lupo confidente”, riportata in un documento della Large Carnivore Initiative for Europe (LCIE) si tratta di “un lupo che tollera ripetutamente le persone (riconoscibili in quanto tali) entro trenta metri, o che si avvicina attivamente e ripetutamente alle persone all’interno di questa distanza. Una condizione fondamentale del comportamento confidente è il forte adattamento”.
Questo avvicinamento quindi “può avvenire quando gli animali selvatici si abituano a frequentare zone abitate”, spiega Antonelli, “in particolare perché trovano facilmente cibo nei cassonetti, da una mala gestione dei rifiuti da parte delle aziende agricole, dalle ciotole di cani e gatti lasciate all’aperto oppure con prede non custodite come piccoli animali domestici non protetti. Detto ciò, la maggioranza dei lupi che abitano in aree periurbane non sono confidenti, ma mantengono la loro elusività”. Per gestire questi rari casi di lupi che si avvicinano troppo alle nostre comunità, l’ISPRA ha diffuso dal dicembre 2024 un protocollo sperimentale per la loro identificazione.
Un nuovo studio che sarà pubblicato a gennaio 2026 dalla rivista Biological Conservation sottolinea però che la mescolanza con l’elevato numero di cani domestici può costituire una forte minaccia per i lupi europei, con diversi possibili effetti sui loro sistemi socio-ecologici. Dai campioni provenienti da 748 lupi recuperati morti tra il 2020 e il 2024, insieme a ventisei campioni del periodo 1993-2003, emerge che nella popolazione italiana peninsulare il 46,7 per cento dei lupi ha tracce di ibridazione, recente o meno, con i cani, il 29,5 dei quali per ibridazioni recenti, mentre il 17,2 per cento per reincroci più antichi. Scrivono i ricercatori che, soprattutto alla luce del recente declassamento del loro stato di conservazione, “ciò minaccia seriamente l’integrità genetica non solo della popolazione di lupo italiana, ma anche delle popolazioni di lupi limitrofe attraverso eventi di dispersione”.
“Quello dell’ibridazione, in realtà, è un tema per tecnici”, commenta Mia Canestrini, zoologa e tra i massimi esperti di lupi in Italia, che a febbraio 2025 ha registrato una lezione sulla loro domesticazione per Lucy. “Si tratta di situazioni molto sfumate ed è difficile fare chiarezza. Nella storia è successo più e più volte che cani e lupi si siano reincrociati, i contatti sono avvenuti per secoli. Ma nel tempo abbiamo sviluppato una fascinazione per quel selvatico, e abbiamo creato volontariamente animali che ce la ricordassero, come lupi cecoslovacchi o american wolfdog, per provare l’emozione di possedere un essere selvaggio. Questi però assomigliano molto ai lupi in natura e generano confusione.
Al netto delle possibili strumentalizzazioni delle immagini di questi animali, da parte di persone o organizzazioni che vogliono contrastare la diffusione del lupo, la cosa importante è sapere che il fenomeno può andare ad alimentare un mercato nero di ibridi non legali che possono dare molti problemi di gestione”. In questi casi gli ibridi sono creati organizzando accoppiamenti in maniera artificiale senza avere cura di selezionare geni più legati a comportamenti meno aggressivi e, viceversa, allontanare quei caratteri che li renderebbero “troppo selvatici” e poco gestibili. Sequestri, condanne e multe aspettano chi si occupa di questi allevamenti non in regola che vengono controllati dai Carabinieri del gruppo CITES: cercano animali con “caratteristiche genetiche e fenotipiche riconducibili a lupi selvatici (Canis lupus), ovvero a incroci tra due specie”, come riporta il comunicato stampa relativo all’operazione Avelupo dell’aprile 2021. In quel caso sono stati trovati ventitré esemplari “tenuti in condizioni non compatibili con la loro natura”. Storia simile dietro all’operazione Cappuccetto Rosso del luglio 2024, in cui sono stati sequestrati diciotto individui. Un cucciolo di questi poteva essere venduto fino a tremila euro.
“Abbiamo l’illusione di addomesticare il selvaggio, ma poi questi animali finiscono in recinti soffocanti perché non sono gestibili per via di una selezione genetica artificiale non oculata”, prosegue Canestrini. E riferendoci alle persone continuiamo a dare del “cane” a chi non è bravo, a chi è sottomesso, mentre i “lupi solitari” sono affascinanti e meritevoli di stima.
Continuiamo a pensare di fare come San Francesco che parla con il lupo che terrorizza Gubbio e lo ammansisce. Ma un lupo è un lupo, e un cane è un cane. E che siano l’uno o l’altro, o pure ibridi, gli animali non possono essere estensione della nostra emotività, né parte del paesaggio del nostro giardino, strumenti di promozione di un film o impostori che hanno rubato la fama a qualcun altro. Se guardiamo le loro tracce nel terreno facciamo fatica a distinguere le impronte lasciate dalle zampe di un canide selvatico e uno domestico. Nel film, Balto lo fa, appoggia una sua zampa nel solco lasciato dal lupo: noi possiamo provare a osservarle passeggiando in un bosco. Dobbiamo solo conoscere gli animali con cui abbiamo a che fare, rispettarli e non pensare che debbano diventare come noi o seguire le nostre leggi etiche ed estetiche, e che per questo una delle due parti valga di meno.