Articolo
Agnese Codignola
Fate bene a odiare le zanzare

Fate Bene A Odiare Le Zanzare Codignola Sito

Ve lo dice la scienza, che sperimenta nuovi modi per combatterle mentre la crisi climatica trasforma la Terra in un luogo più caldo e più malato.

“Dopo aver passato più di cinquant’anni a combattere i virus, uno di essi ha reagito, e mi ha quasi abbattuto. Parlo del virus della febbre del Nilo occidentale, trasmessomi da uno degli animali più letali che esistano: le zanzare. E non sono stato infettato in uno dei miei viaggi, ma nel giardino di casa, nei sobborghi di Washington, nel mese di agosto”. 

Così iniziava, sul «New York Times» dello scorso ottobre, il drammatico racconto di Anthony Fauci, il leggendario direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases dal 1984 al 2022, diventato noto a tutto il mondo durante la pandemia sia in quanto fonte di informazioni preziose, sia per i suoi scontri con Donald Trump e la sua cerchia di convinti no vax e negazionisti climatici. Febbre a 39,5°C, delirio, confusione mentale, debolezza muscolare, stanchezza estrema e sensazione di essere sul punto di morire lo hanno accompagnato per cinque giorni. Poi, lentamente, la ripresa e la dimissione. Senza una diagnosi, arrivata solo il giorno dopo, con l’esito dei test specifici: era stato il virus della febbre del Nilo (o Wnv, da West Nile Virus), un flavivirus della stessa famiglia di quelli della febbre gialla e della dengue, che danno tutti sintomi simil-influenzali e contro il quale non esistono cure. Con i suoi 83 anni, era stato davvero a rischio, perché quel virus uccide una persona su dieci tra chi sviluppa i sintomi. 

Per uno strano destino, è toccato quindi a Fauci incarnare ciò che i suoi colleghi virologi, climatologi, epidemiologi ed esperti di varie discipline stanno gridando al mondo da anni, inascoltati come altrettante Cassandre: il cambiamento climatico sta trasformando la Terra in un luogo più caldo e più malato, come alcuni di loro hanno scritto in un articolo uscito nel 2019, subito diventato un riferimento. Perché l’aumento delle temperature aiuta le zanzare e altri insetti ad ampliare le zone di diffusione e i periodi di riproduzione, con la conseguenza che diverse infezioni fino a pochi anni fa considerate tropicali stanno diventando endemiche anche nei climi temperati. Lo ha appena confermato, tra gli altri, una revisione di 59 studi aggiornata a gennaio 2024 sulla diffusione di forme autoctone (ovvero non a seguito di viaggi) di zika, chikungunya e dengue, effettuata dai ricercatori di diversi atenei italiani e pubblicata su Lancet Regional Health Europe. In Europa tra il 2007 e il 2023 è in aumento costante, e l’Italia è il paese più colpito. 

“L’aumento delle temperature aiuta le zanzare e altri insetti ad ampliare le zone di diffusione e i periodi di riproduzione, con la conseguenza che diverse infezioni fino a pochi anni fa considerate tropicali stanno diventando endemiche anche nei climi temperati”.

Dietro l’inarrestabile ascesa delle zanzare, del resto, non c’è solo l’aumento della temperatura media, ma un vero successo evolutivo. Grazie all’antropizzazione, vettrici come la Aedes aegypti e la Aedes albopictus, adattate magnificamente al clima tiepido, hanno appreso come nutrirsi del nettare delle piante ornamentali delle città, in mancanza di meglio. Non lo facevano, fino a qualche anno fa, ma poi hanno capito che, diminuendo le zone con vegetazione selvatica, ed essendo quelle coltivate zeppe di insetticidi, era meglio cercare su balconi e terrazzi delle città. Sono bastati piccoli aggiustamenti nelle abitudini e voilà, la sopravvivenza delle specie è stata assicurata. 

Un grande aiuto è arrivato dal plasticene, perché la plastica di cui la Terra è satura si è trasformata in un paradiso per la deposizione delle uova: in un tappo di bottiglia in polietilene (PET) ce ne stanno duecento, di quelle di zanzara. 

Un ulteriore aiuto è arrivato dall’aumento dell’umidità, fattore meno considerato rispetto alla siccità ma altrettanto pericoloso, così come quello dell’urbanizzazione. Tutto questo, oltre a favorire le zanzare “classiche” come la Aedes aegypti, ne spinge di nuove a contatti sempre più stretti con l’uomo. È il caso della Culex coronator, identificata in Luisiana nel 2004 e diffusasi rapidamente in tutti gli Stati Uniti del Sud, e responsabile della trasmissione non solo del Wnv, ma anche di un’altra infezione preoccupante, l’encefalite chiamata appunto di Saint Louis. Crescono quindi le probabilità di essere punti da singole zanzare che ne che ospitano virus diversi, così come quelle di essere preda di più di un tipo di zanzare, ciascuna dotata del suo patrimonio patogeno, se così si può dire.

Stime prudenti affermano che ogni anno, nel mondo, 700 milioni di persone sono punte da zanzare vettrici di virus, e un milione ne muore.

Per chilkungunya e dengue esistono vaccini, mentre per zika non ce ne sono ancora, anche se ne sono stati sperimentati diversi. Tuttavia, la disponibilità di un vaccino non comporta sempre la risoluzione delle crisi: troppo spesso i vaccini sono pochissimo utilizzati, da una parte perché, quando basati su virus vivi attenuati (come i due citati), comportano qualche rischio, dall’altra perché se ne producono poche dosi, e la somministrazione è tutto tranne che sistemica, soprattutto laddove ve ne sarebbe più bisogno

“Secondo stime prudenti, ogni anno, nel mondo, 700 milioni di persone sono punte da zanzare vettrici di virus, e un milione ne muore”.

Ma l’inefficienza vaccinale non è sempre frutto di povertà e sistemi sanitari arretrati. I vaccini, quando funzionano, necessitano al massimo di tre somministrazioni, o di una seguita da richiami a distanza di anni, e per quanto possa costare una dose, sono sempre un pessimo affare, se si pensa al denaro necessario per metterli a punto e poi sperimentarli, a meno che non si debbano vaccinare milioni di persone, possibilmente in Paesi disposti a pagare molto per ogni singola dose, e dotati di strutture sanitarie in grado di effettuare immunizzazioni di massa.

Anche per questi motivi, il nuovo Accordo Pandemico approvato il 14 maggio dall’Assemblea Mondiale della Sanità, organo legislativo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha rappresentato un significativo passo in avanti, che potrebbe fare la differenza in previsione di possibili pandemie di malattie veicolate da zanzare. Ha infatti stabilito, per le aziende – che manterranno comunque la proprietà dei brevetti – che esse avranno «un ruolo chiave nell’accesso equo e tempestivo ai prodotti sanitari legati alla pandemia», con l’obbligo di «mettere a disposizione dell’OMS, in tempo reale, un accesso rapido e mirato al 20% della loro produzione di vaccini, terapie e diagnostica sicuri, di qualità ed efficaci per l’agente patogeno che causa l’emergenza pandemica», e ha concluso che «la distribuzione ai diversi Paesi sarà effettuata sulla base del rischio e delle necessità per la salute pubblica, con particolare attenzione alle esigenze dei Paesi in via di sviluppo».

L’Italia si è inspiegabilmente astenuta insieme a Russia, Iran, Bulgaria, Polonia, Giamaica, Israele, Romania, Paraguay, Guatemala e Slovacchia, esibendo assurde argomentazioni nazionalistiche che non hanno nulla a che vedere con il merito dell’Accordo, che esclude esplicitamente (all’articolo 22) qualunque ingerenza nelle politiche gestionali pandemiche degli stati aderenti. Contro questa decisione, e si è schierata, compatta e indignata, tutta la comunità scientifica nazionale, sottolineandone l’infondatezza, e i rischi in caso di nuove pandemie.

“Bill Gates ha accusato Elon Musk di volere la morte di migliaia di bambini dei Paesi più poveri per i tagli fatti al budget dell’U.S.A.I.D”.

La domanda resta: come contrastare l’inarrestabile avanzata delle zanzare in un momento in cui l’amministrazione Trump decide che l’istituto da penalizzare maggiormente – con una sforbiciata da 506 milioni di dollari e la chiusura brutale e improvvisa di decine di progetti – è proprio il National Institute of Allergy and Infectious Diseases, che è utile interrompere le collaborazioni con l’Organizzazione Mondiale della sanità, estinguere lo US Aid e licenziare oltre 2200 ricercatori del Vaccine Research Center? 

La comunità scientifica internazionale sta cercando di approntare risposte adeguate, per esempio aumentando il contributo all’OMS dei singoli stati, per colmare la voragine lasciata dall’abbandono degli Stati Uniti. Tuttavia è evidente che non basterà affidarsi alle organizzazioni filantropiche che da anni affiancano e completano gli interventi dei governi come la Gates Foundation, che entro il 2045 spenderà ulteriori duecento miliardi di dollari (nove nel solo 2026), e il cui fondatore, Bill Gates, ha accusato Elon Musk di volere la morte di migliaia di bambini dei Paesi più poveri. Sarà necessario – prima o poi, auspicabilmente in tempi di calma relativa, e non durante il caos di una pandemia –  che gli Stati adottino lo stesso tipo di politiche, ovvero: sovvenzionare lo sviluppo e poi la produzione e la distribuzione di farmaci e vaccini; aiutare i paesi a rafforzare le proprie strutture sanitarie e i sistemi di sorveglianza; dotarli dei presidi che aiutano a tenere lontani gli insetti; incentivare la ricerca e sostenere tutto ciò che contrasta l’antropizzazione e il cambiamento climatico nelle sue più diverse declinazioni, dalla lotta alla plastica alle politiche di riduzione delle emissioni fino alla protezione del mare e al ripristino della biodiversità.

In attesa di grandi strategie globali, uno dei provvedimenti più efficaci è e resta la lotta alle zanzare, per la quale ci sono vari approcci. I più vecchi (gli insetticidi) oggi sono armi spuntate, sia perché la loro potenza è andata scemando negli anni, per lo sviluppo di resistenze, sia per i danni che arrecano all’ambiente e alle persone. Strategie più innovative si stanno rivelando vincenti, e potrebbero modificare radicalmente la situazione, a parità di pianeta caldo.

“Non è più tempo di puntare sugli insetticidi: oggi sono armi spuntate, sia perché la loro potenza è andata scemando negli anni, per lo sviluppo di resistenze, sia per i danni che arrecano all’ambiente e alle persone”.

Storicamente, la prima svolta è avvenuta grazie all’arrivo di insetticidi potenti di cui il più noto è il DDT (o para-dicloro-difenil-tricoloroetano). Introdotto negli anni Quaranta, e generosamente utilizzato durante e dopo la Seconda guerra mondiale, il DDT ha consentito di eliminare le anofele – le zanzare che trasmettono il plasmodio della malaria – da Europa e Nord America, e di contrastare il tifo trasmesso da vari tipi di pulci. I problemi veri sono iniziati con l’impiego agricolo ad ampio spettro promosso alla fine della guerra, perché le dosi impiegate in agricoltura sono state da subito massicce e via via crescenti a causa della rapida insorgenza di resistenze. Per una quindicina d’anni, i campi di molti Paesi sono stati inzuppati di DDT, al punto da risultare quasi del tutto privi di insetti, impollinatori compresi.

Era la saturazione da DDT la causa del terrificante silenzio raccontato da Rachel Carson nel suo Primavera silenziosa, il libro del 1962 che ha dato inizio al movimento ecologista e che ha portato al graduale abbandono del DDT, vietato quasi ovunque nei primi anni Settanta. Anche perché, nel frattempo, si era capito che, accumulandosi nelle verdure e nella frutta irrorate, il composto arrivava pressoché intatto agli esseri umani, depositandosi anche nei loro tessuti e continuando a esercitare la sua azione tossica. Carson pagò con la vita il suo impegno: morì nel 1964 a causa di un tumore e dell’indebolimento generale provocato dall’esposizione a quantità elevatissime di DDT e di altri pesticidi come il dieldrin e l’heptachlor provocato dalle sue ricognizioni continue nei campi, ma il suo lavoro ha ispirato generazioni di scienziati, ed è tutt’ora un riferimento assoluto. Specularmente, ha sempre attirato critiche pretestuose e infondate, sostenute da persone stipendiate da aziende chimiche e da lobbysti, che si riverberano ancora oggi nelle fake news diffuse dai negazionisti climatici e dai sostenitori dei modelli intensivi. In Italia, quelle stesse falsità sono state propagandate anche da personaggi pubblici come Antonella Viola, che non è mai stata un’esperta né di pesticidi né di zanzare ma che, in una TED conference, ha accusato Rachel Carson di essere la causa indiretta della morte, nientemeno, di 50 milioni di bambini per malaria. 

In realtà, come sa bene tutta la comunità scientifica, il DDT continua a fare danni: per esempio ancora oggi, a settant’anni dalla dispersione e a mezzo secolo dal divieto, i salmerini di fonte (Salvelinus fontinalis) canadesi del distretto di New Brunswick nelle loro carni hanno concentrazioni di DDT che eccedono di dieci volte le quantità massime considerate sicure. La convenzione di Stoccolma per il bando degli insetticidi organici persistenti del 2001, sottoscritta inizialmente da 98 paesi (tra i quali non c’era l’Italia) e oggi arrivati a 151 (Italia compresa), ne consente ormai un impiego molto limitato, ma soprattutto esprime una realtà: non è più tempo di puntare sugli insetticidi. Oltretutto, quelli arrivati dopo come gli organofosfati e i neonicotinoidi sono anch’essi pericolosi, e altrettanto persistenti e pervasivi. Basti pensare che il novello DDT, il glifosato, considerato probabilmente cancerogeno dall’International Agency for Research on Cancer dell’OMS di Lione, è ubiquitario e rilevabile pressoché in tutti gli esseri viventi. Ma finora non è stato messo al bando, se non in qualche limitata realtà locale. 

“Un esempio di strategie alternative che si stanno rivelando vincenti viene dalla lotta alla malaria, che sembra essere a un punto di svolta”.

Come se ne esce? Un esempio di strategie alternative che si stanno rivelando vincenti viene dalla lotta alla malaria, che sembra essere a un punto di svolta. Come ha raccontato Andrea Crisanti nel suo libro Reazione genetica a catena, le prime vittorie si sono avute a partire dalla fine dell’Ottocento, con l’arrivo del chinino e delle bonifiche seguite, tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, appunto dal DDT. Poi, con l’abbandono del DDT, la situazione ha iniziato a peggiorare di nuovo, e così è stato fino al 1998, anno in cui l’OMS ha promosso Roll Back Malaria o RBM, un programma in partnership con l’UNICEF, la Banca Mondiale e il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite che puntava alla diffusione delle zanzariere, all’accesso esteso agli antimalarici e al rafforzamento delle strutture sanitarie. Tutti obiettivi raggiunti, che hanno fatto emergere l’efficacia di un approccio coordinato a livello internazionale e la bontà del più semplice dei tre, le zanzariere. Questi semplicissimi ed economici presidi, da soli, avrebbero fatto calare del 70% i casi di malaria, del 30% quelli più gravi e del 17% i decessi, favorendo al tempo stesso il rafforzamento delle strutture sanitarie e la nascita di imprese locali per la loro realizzazione. Oltretutto, le zanzariere costano pochissimo e non richiedono alcuna logistica o competenza specifiche. 

L’evoluzione di questi oggetti straordinari potrebbe risiedere in zanzariere intrise non di insetticidi, ma di un farmaco – l’atovaquone o suoi simili chiamati ELQ – che uccidono il plasmodio della malaria, e che arrivano a esso tramite le zampe delle anofele. La proposta arriva da un articolo pubblicato su «Nature» e condotto da quegli stessi scienziati di Harvard cui Trump ha dichiarato guerra, qui coordinati da un’ex allieva dello stesso Crisanti, l’immunologa italiana Flaminia Catteruccia. I test effettuati da lei hanno infatti confermato che funzionano, e diminuiscono la circolazione del plasmodio senza comportare l’impiego di insetticidi. 

Durante la pandemia da Covid 19, poi, è stata dimostrata sul campo, in Mali, l’efficacia di trappole allo zucchero, alimento di cui le anofele sono ghiotte, avvelenato con l’insetticida dinotefuran: in poche settimane le popolazioni di anofele si dimezzano.

Mentre si attendono a breve almeno due nuovi antimalarici, e mentre lentamente si diffondono i due vaccini approvati dall’OMS, si punta anche sulle modifiche genetiche alle zanzare, una delle quali, il gene drive, è oggetto del racconto di Crisanti. In quel caso, dopo esperimenti durati anni, sono stati creati maschi di con un gene cruciale per il differenziamento sessuale delle zanzare chiamato DSX mutato, fatto che ha creato un caos evidente. Nonostante lo svantaggio evolutivo, sono stati generati individui sterili sia maschi che femmine, in quest’ultimo caso con proboscide alterata e quindi incapaci di pungere, con genitali maschili e abbozzi di testicoli al posto delle ovaie. Nell’arco di pochissime generazioni la popolazione è collassata.

“Gli interventi sui geni delle zanzare sono stati accolti con cautela da alcuni esperti, ma presentano comunque un enorme vantaggio: sono infatti del tutto innocui verso gli insetti più danneggiati dagli insetticidi, ma anche più indispensabili, ovvero gli impollinatori”.

Altri tentativi, alcuni dei quali della stessa Catteruccia, hanno puntato sui geni degli ormoni dell’accoppiamento e su quelli della produzione di uova, così come su geni che inducono una resistenza delle zanzare al plasmodio, sempre dimostrando l’efficacia di queste strategie che, però, sono ancora da ottimizzare per un impiego su larga scala.

Gli interventi sui geni sono stati accolti anche, da alcuni esperti, con una certa cautela per gli effetti che potrebbero avere su ecosistemi complessi come quelli reali (anche se le modifiche non riguardano nessun altro essere vivente a parte le anofele). L’introduzione di popolazioni geneticamente modificate potrebbe alterare equilibri specifici degli ecosistemi, magari agendo su aspetti non previsti. Per questo si valutano sempre anche gli impatti globali di progetti di questo tipo, che presentano comunque un enorme vantaggio. Sono infatti del tutto innocui verso gli insetti più danneggiati dagli insetticidi, ma anche più indispensabili, ovvero gli impollinatori, la cui drastica riduzione in tutto il mondo sta provocando enormi problemi alla produzione di cibo, e costi giganteschi dati dalla necessità di attuare impollinazioni artificiali, esportando ogni primavera miliardi di api “industriali”, cioè fatte riprodurre in ambienti chiusi e controllati, con una modalità intensiva. Perché anche le piante delle coltivazioni più tecnologiche, se a riproduzione sessuale, per dare frutti devono essere impollinate. E se le api non ci sono più bisogna farle arrivare – come ha raccontato tra i primi Michael Pollan nel 2008 in Il dilemma dell’onnivoro (Adelphi) e poi numerose altre volte – su camion che percorrono migliaia di chilometri carichi di miliardi di insetti, in un viaggio di sola andata. 

In maggio, durante uno di questi “trasporti eccezionali” nello stato di Washington, sono state liberate 31 tonnellate di api industriali, pari a circa 250 milioni di individui. Gli insetti, in seguito recuperati almeno in parte, avevano appena intrapreso il loro viaggio annuale verso la California, dove avrebbero impollinato gli alberi da frutto e di mandorle di zone nelle quali la Primavera silenziosa dura ormai tutto l’anno.

Secondo il rapporto reso noto in occasione della giornata mondiale dell’ape, lo scorso 20 maggio, dal network internazionale Bee:wild, che riunisce i massimi esperti mondiali di api, e stilato in base agli studi degli ultimi anni, ci sono 12 fattori che minacciano gli impollinatori, e 12 soluzioni che possono fare la differenza. Gli insetticidi sono al centro di entrambi gli elenchi, in negativo, così come lo sono le tecniche genetiche come metodo per le innovazioni su cui puntare. 

Zanzare, anofele e impollinatori condividono un destino speculare. Lo stesso degli altri esseri viventi che popolano la Terra, uomo compreso.

Agnese Codignola

Agnese Codignola è scrittrice e giornalista scientifica con un passato da ricercatrice. Il suo ultimo libro è Alzheimer S.p.A. Storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è (Bollati Boringhieri, 2024).

Contenuti Correlati