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Agnese Codignola
I Pfas diminuiranno solo quando studieremo materiali alternativi

I Pfas Diminuiranno Solo Quando Studieremo Materiali Alternativi Uroboro Pfas Web
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La prima indicazione del rischio di contaminazione è del 1977. Ora le aziende responsabili dei danni dei "forever chemicals" devono pagare miliardi di dollari di risarcimento. Ma per ridurli davvero, serve prima di tutto fare ricerca su alternative PFAS-free.

Sono ovunque, in migliaia di oggetti e materiali con i quali entriamo in contatto ogni giorno. E da questi arrivano nei suoli, nelle acque, nell’aria, per poi tornare a noi e agli altri organismi viventi. I perfluoroalchili o PFAS, “contaminanti perenni”, non hanno intenzione di andarsene. E la responsabilità è nostra: li abbiamo impiegati senza remore, ovunque, per decenni. E ora non sappiamo come liberarcene, non solo perché è difficilissimo eliminarli, data la loro stabilità chimica, ma anche perché al momento le alternative sono poche, e non ancora abbastanza efficienti e diffuse. 

Per questo l’unica soluzione, peraltro evocata da una parte consistente della comunità scientifica, è vietarne la produzione, a prescindere, sia pure con alcune sparute eccezioni. Una legge europea in tal senso è attesa entro fine anno, anche se secondo molti osservatori è improbabile che venga davvero varata in una forma così restrittiva, perché le conseguenze sull’industria sarebbero devastanti: trovare metodi e materiali alternativi per centinaia di produzioni sarebbe una sfida di fronte alla quale molte aziende non potrebbero sopravvivere, e ci si potrebbe trovare in una drammatica carenza di merci di vario tipo.

Gli PFAS, la cui storia è stata ricostruita anche in diversi libri tra i quali PFAS. Gli inquinanti eterni e invisibili nell’acqua di Giuseppe Ungherese, sono anche al centro di alcune cause miliardarie per contaminazioni ambientali e danni alla salute dei residenti che negli ultimi anni hanno avuto grande rilevanza anche mediatica. Vicende che ne ricordano altre, tutte molto simili. Enormi aziende – dal tabacco alle bevande zuccherate fino agli oppioidi – recitano infatti un copione che è sempre lo stesso: una volta emersi i rischi, manipolano, insabbiano, distraggono e, parallelamente, intimidiscono, minacciano e corrompono. E intanto continuano a produrre e vendere, finché si può. Poco importa se le persone si ammalano e spesso muoiono, se l’ecosistema ne esce a pezzi e se le bonifiche ambientali diventano così onerose da essere a volte impossibili.

Forse l’anima sinistra degli PFAS era già insita nel loro atto di nascita: il progetto Manhattan. Furono gli scienziati di Los Alamos a capire, durante lo sviluppo della bomba atomica, come sfruttare un legame chimico scoperto per caso nel 1938: quello tra il carbonio e il più ribelle degli elementi, il più restìo a legarsi con altri, il fluoro, da loro ribattezzato il selvaggio inferno. In certe condizioni, però, fluoro e carbonio non solo si accoppiavano, ma stabilivano un legame tra i più forti di tutta la chimica organica, difficilissimo da spezzare.

Finita la guerra, alcuni di quei chimici furono assunti dal colosso 3M, e continuarono a lavorare su quel legame talmente saldo da meritarsi l’appellativo di perenne. Ottennero decine di molecole di varia lunghezza e forma, tutte estremamente versatili e resistenti a calore, olio e acqua. Era iniziata l’era degli PFAS, sostenuta anche dall’ingresso in campo, all’inizio degli anni Cinquanta, di un altro colosso della chimica, la DuPont, che acquistò da 3M e sviluppò una delle molecole, il PFOA o acido perfluoroottanoico (tutti gli PFAS hanno nomi chimici assai complessi, riassunti da acronimi), per realizzare un materiale dal successo planetario: il teflon.

Già verso la fine degli anni Settanta però, a causa di alcuni dati sospetti, in 3M furono condotti i primi test su animali con un altro composto, il PFOS. Somministrato quotidianamente ai ratti, a dosi considerate basse, di dieci milligrammi per chilogrammo di peso, per poche settimane, mostrava una tossicità epatica evidente: uccideva metà degli animali e, a dosi inferiori, le scimmie; aveva cioè una tossicità che lo avrebbe collocato al livello più alto tra i cinque attualmente riconosciuti dalle Nazioni Unite, se qualcuno avesse reso noti i risultati di quei test. Ma tutto rimase segreto, nonostante già nel 1979 un rapporto interno di 3M definisse il PFOS “certamente più tossico del previsto” e raccomandasse studi sulle esposizioni a lungo termine. Un chimico esterno suggerì di verificare se, tra i lavoratori, vi fossero tassi insoliti di tumori o di difficoltà di concepimento o gravidanza, ma l’azienda si guardò bene dall’eseguire i controlli e, anzi, aumentò la produzione di tutti gli PFAS.

La situazione rimase immutata almeno fino al 1997, anno in cui in 3M arrivò una giovane chimica, la ventisettenne Kris Hansen, la cui storia è stata ricostruita in un reportage del New Yorker. Le fu chiesto di controllare se il PFOS fosse presente nel sangue degli operai, perché le analisi effettuate da un laboratorio esterno segnalavano anomalie. Hansen confrontò i campioni interni con quelli della popolazione della zona raccolti dalla Croce Rossa e trovò le stesse stranezze. Perché persone che non erano mai neppure entrate in azienda avevano PFOS nel sangue? Eppure, nonostante infiniti controlli e ripetizioni, i risultati continuavano a ripetersi sempre uguali: tutti i campioni analizzati, interni ed esterni, contenevano PFOS. Di certo i dirigenti avrebbero approfondito, pensava ma, al contrario, le reazioni ai vertici furono nulle. 

Hansen pensò che i tempi fossero finalmente maturi, e riferì al consiglio di amministrazione l’esito di anni di ricerche, sperando di essere finalmente ascoltata, ma l’unico risultato che ottenne fu un demansionamento. In seguito, cambiò settore. Non denunciò pubblicamente quanto scoperto, ma presto il mondo avrebbe saputo.

Chiusa nel suo laboratorio, osteggiata e umiliata, Hansen fece altre scoperte cruciali. Dimostrò che la quantità di PFAS assorbita aumenta con l’età, e quindi che queste molecole si accumulano nei tessuti, e provò il ruolo della catena alimentare nella contaminazione. Capì, sperimentando su ratte incinte, che le concentrazioni di PFAS diminuivano drasticamente, perché passavano al feto (anni dopo ne ebbe riprova in una sua gravidanza). Dimostrò che il PFOS si trovava anche in materiali che, in origine, non ne avevano, perché il PFOS è anche uno dei prodotti di degradazione di composti a catena più lunga. Infine, ne trovò tracce in cavalli, aquile, polli, conigli, maiali e altri animali della zona, a riprova di una contaminazione ambientale preoccupante. In seguito scoprì che nel sangue degli abitanti dell’area attorno alla 3M erano presenti anche altri 14 PFAS, alcuni dei quali sversati senza alcuna cautela nelle acque reflue.

Nel tentativo di definire standard omogenei, analizzò anche i campioni dei primissimi anni di produzione, raccolti tra il 1969 e il 1971, ma trovò lo PFOS anche lì. Allora provò con il sangue dei lavoratori della 3M raccolti prima che questa iniziasse a produrre PFAS, e con altri campioni di sangue provenienti da uno studio condotto in quegli stessi anni nelle regioni interne della Cina, e finalmente riuscì ad avere, sui suoi vetrini, sangue privo di PFAS. Pensò che i tempi fossero finalmente maturi, e riferì al consiglio di amministrazione l’esito di anni di ricerche, sperando di essere finalmente ascoltata, ma l’unico risultato che ottenne fu un demansionamento. In seguito, cambiò settore. Non denunciò pubblicamente quanto scoperto, ma presto il mondo avrebbe saputo.

La verità stava infatti trovando la sua strada, perché dagli anni Settanta una legge federale obbligava le aziende a segnalare alla Environmental Protection Agency (EPA) qualunque prova che un certo prodotto potesse costituire un rischio sostanziale per la salute o per l’ambiente. I tecnici della 3M inviarono qualche dato all’EPA solo nel 1998, e solo per il PFOS ritrovato nel sangue delle persone, senza mai citare gli studi sugli animali. Di più: affermarono che quella sostanza non causava alcun danno. Un anno dopo l’azienda segnalò all’agenzia altri 14 PFAS, probabilmente spinta da ciò che, nel frattempo, stava accadendo al principale competitor, la DuPont.

Robert Billot, un avvocato della Virginia specializzato in contenziosi su composti chimici, interpellato da un allevatore della zona, Wilbur Tennant, di Parkersburg, che continuava a veder morire le sue mucche con i denti neri, la schiuma alla bocca e altri sintomi mai visti prima, aveva infatti denunciato l’azienda, obbligandola così a tirar fuori i propri dati. I numeri mostrarono che le acque dell’allevamento contenevano concentrazioni astronomiche di PFOA, la molecola acquistata molti anni prima da 3M.

Dopo quella causa nulla sarebbe più stato come prima.

Come ricostruito anche in Dark Waters, il film del 2019 con Marc Ruffalo nelle vesti di Billot, nel 2010, dopo una serie di sconfitte, la procura del Minnesota intentò un’altra causa contro l’azienda che, senza mai ammettere alcuna responsabilità, fu costretta a pagare 850 milioni di dollari e a diffondere migliaia di registrazioni, mail e comunicazioni interne. 

Quella quantità gigantesca di documenti è stata in seguito donata da Billot all’Università della California e nel 2023, dopo anni di approfondimenti e verifiche, i ricercatori hanno pubblicato, sugli Annals of Global Health, un rapporto dal titolo Il diavolo che conoscevano: analisi della documentazione chimica sull’influenza dell’industria nella scienza degli PFAS

Emerse, tra l’altro, che anche nel caso di DuPont i primi indizi risalivano a molti anni prima, ed erano stati colpevolmente ignorati. Nel 1980, l’azienda era infatti venuta a conoscenza del fatto che due delle otto dipendenti incinte che lavoravano al C8, uno degli PFAS più usati, avevano dato alla luce bambini con malformazioni. I dirigenti avevano taciuto il fatto, e pochi mesi dopo avevano dichiarato che non esistevano prove della pericolosità del C8 per le donne incinte.

Uno dei casi più gravi e noti riguarda l’Italia, dove 180 chilometri quadrati suddivisi in una trentina di comuni delle province di Padova, Verona e Vicenza, dove vivono circa 300.000 persone, sono stati contaminati dalla Miteni di Trissino, che per anni ha versato nel torrente Poscola reflui contenenti enormi concentrazioni di PFAS, e ha contaminato le falde acquifere di un’area molto estesa, con conseguenze ancora in gran parte da valutare.

Nel 2004, decenni dopo le prime segnalazioni, per questi fatti arrivò una multa di 16,4 milioni di dollari: un’inezia, visto che, solo quell’anno, grazie agli PFAS l’azienda aveva guadagnato un miliardo. Dopo la vittoria di Billot centinaia di avvocati e procuratori intentarono cause singole e class action contro numerose aziende in diversi paesi, ottenendo risarcimenti miliardari: solo 3M nei prossimi anni dovrà pagare più di 12 miliardi di dollari in bonifiche. 

Uno dei casi più gravi e noti riguarda l’Italia, dove 180 chilometri quadrati suddivisi in una trentina di comuni delle province di Padova, Verona e Vicenza, dove vivono circa 300.000 persone, sono stati contaminati dalla Miteni di Trissino. L’azienda chimica, allora di proprietà di Mitsubishi ed EniChem, fallita nel 2018, per anni ha versato nel torrente Poscola reflui contenenti enormi concentrazioni di PFAS, e ha contaminato le falde acquifere di un’area molto estesa, con conseguenze ancora in gran parte da valutare. La situazione è stata portata all’attenzione delle autorità grazie soprattutto all’instancabile azione delle Mamme no PFAS e di diversi gruppi ambientalisti, anche se le primissime indicazioni di una possibile contaminazione sono del 1977 e anche se uno studio commissionato nel 2011 dal ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare al Consiglio Nazionale delle Ricerche, e pubblicato il 25 marzo 2013 già poneva interrogativi inquietanti su quelle falde contaminate.

Come ricostruisce un dettagliato rapporto dell’OMS, anche in quel caso non successe granché fino a quando, nel 2017, alcune analisi rivelarono che i ragazzi della zona avevano valori di PFAS 30-40 volte quelli di coetanei residenti in altre regioni. Le “mamme” iniziarono a mobilitarsi e a chiedere chiarezza e protezione in ogni sede, dalla regione al parlamento, dalla Commissione Europea al Vaticano, fino all’OMS, e ottennero la creazione di una zona rossa, la dichiarazione dello stato di emergenza, la creazione di una commissione di inchiesta, le bonifiche, l’approvvigionamento di acque sicure, il monitoraggio degli abitanti e il coinvolgimento della procura di Vicenza in una causa arrivata a sentenza l’estate scorsa.

Per la prima volta in Italia un tribunale ha condannato a un totale complessivo di 141 anni di carcere, interdizioni e risarcimenti 11 dei 15 imputati di reati come avvelenamento doloso di acque destinate a uso umano, disastro innominato ambientale, inquinamento ambientale, gestione illecita di rifiuti speciali pericolosi e bancarotta fraudolenta. La sentenza si è avvalsa anche dei dati della Regione Veneto, che nel 2019 avevano confermato un incremento di pre-eclampsia (una grave condizione della gravidanza che può portare anche a morte del bambino e della madre), diabete gravidico, basso peso alla nascita, anomalie congenite al sistema nervoso e difetti congeniti al cuore dei bambini nati nelle aree a maggiore esposizione a PFAS. Le mamme avevano ragione, purtroppo. E anche altrove le prove sulla pericolosità degli PFAS stavano diventando schiaccianti. 

Non a caso nel novembre del 2023 esperti di trenta paesi hanno concluso che il PFOA è cancerogeno, e il PFOS è un probabile cancerogeno. Nello stesso anno la Commissione Europea ha varato limiti per le acque potabili, e lo stesso hanno fatto molti paesi, introducendo valori massimi di riferimento, controlli e divieti che da allora vengono continuamente ritoccati al ribasso. Anche in Italia l’ultimo decreto ha diminuito le concentrazioni massime della presenza di PFAS nelle acque potabili, anche se in generale va detto che i valori degli acquedotti, costantemente monitorati, non destano particolari preoccupazioni. 

Ma il principio di precauzione in questo caso è più che mai d’obbligo, perché oltre ai rischi per il feto e a quelli oncologici, negli anni ne sono stati dimostrati altri per: tiroide, sistema immunitario, sviluppo cognitivo dei bambini, microbiota intestinale, colesterolo, reni e fegato, sterilità obesità e diabete. Si può dire che non passi settimana senza che non venga pubblicato qualche nuovo studio che conferma ed estende quanto si sa, aggravando un quadro già preoccupante. 

E questo non stupisce, perché una delle caratteristiche degli PFAS è proprio quella di legarsi molto saldamente alle cellule, siano queste animali o vegetali. Una volta penetrate in un organismo, così come in un terreno, reagiscono ovunque e non si degradano, anzi si accumulano: nessun sistema biologico, virtualmente, si salva. E poiché quasi tutte le acque della Terra sono contaminate, nessuno o quasi riesce a non avere PFAS al proprio interno. 

Non tutti gli PFAS hanno la stessa tossicità: alcuni di quelli a catena più corta, con pochi atomi di carbonio, potrebbero essere quasi innocui, mentre altri sono tra le sostanze più tossiche in assoluto. Ma comunque ingenuo pensare di affrontare uno PFAS alla volta, e probabilmente poco utile, anche perché ad oggi i sistemi per eliminarli sono tutt’altro che efficienti.

Tenendo presenti anche i metaboliti, cioè le sostanze che si formano per quel poco di degradazione che avviene, il numero degli PFAS è astronomico, di certo superiore a 10.000, e non ancora certo. I divieti e i limiti, al momento, riguardano alcuni dei più usati come il PFOA e il PFOS, per i quali sono stati condotti studi approfonditi, ma è irrealistico pensare che lo stesso lavoro possa essere fatto per tutte le altre migliaia di sostanze etichettate come PFAS. Inoltre va tenuto presente l’effetto di accumulo, e l’esposizione cronica a sostanze multiple, le cui interazioni reciproche e con i substrati biologici sono in gran parte sconosciute. D’altro canto, non tutti gli PFAS hanno la stessa tossicità: alcuni di quelli a catena più corta, con pochi atomi di carbonio, potrebbero essere quasi innocui, mentre altri sono tra le sostanze più tossiche in assoluto. 

È comunque ingenuo pensare di affrontare uno PFAS alla volta, e probabilmente poco utile, anche perché ad oggi i sistemi per eliminarli sono tutt’altro che efficienti. Filtri, batteri e altri metodi di eliminazione e ripristino sono tutti costosi e non sempre praticabili, anche se la ricerca è molto attiva. Non è certamente un caso che il premio Nobel per la chimica 2025 sia stato assegnato agli scopritori di un nuovo tipo di strutture chimiche chiamate MOF (da Metal-Organic Frameworks), presenti in sostanze che potrebbero essere decisive per la cattura degli PFAS dalle acque e dall’aria. Ma ci vorrà ancora tempo prima di giungere a metodi e dispositivi disponibili su larga scala, e al momento nulla autorizza a sperare che l’umanità riesca a eliminare tutti gli PFAS di cui ha intriso la Terra. Soprattutto se, nel frattempo, continua a immetterne di nuovi, anche attraverso vie subdole. 

Per rimanere in Europa, studi recenti hanno dimostrato un aumento vertiginoso degli PFAS nella frutta e nella verdura così come nei vini, mentre una revisione delle ultime settimane ha fatto emergere una fonte inaspettata: il riciclo di alcuni materiali e delle acque nelle fattorie. Oltreché dall’acqua, gli PFAS arrivano alle piante edibili dai pesticidi, dagli imballaggi, dalle tubature, dall’aria e dai terreni. Poi raggiungono gli animali terrestri e acquatici, che infine giungono, insieme alle verdure e alla frutta già contaminate, nei piatti o nei bicchieri.

Per questi motivi, mentre si cerca comunque di ridurne la presenza nell’ambiente (soprattutto nell’acqua), l’unica vera svolta, secondo la maggior parte degli esperti, si avrà solo quando cesserà la produzione di qualunque tipo di PFAS. Tuttavia, come ricorda su Science Martin Scheringer, probabilmente questo non succederà fino a quando non si darà nuovo impulso alla ricerca di alternative PFAS-free, storicamente penalizzata a favore di quella incentrata sulla tossicità e sulle bonifiche.

Per gli PFAS non esiste una soluzione semplice e la cui applicazione possa rapidamente modificare il disastro attuale. Potrebbero davvero non esserci alternative a un approccio drastico che, del resto, alcune aziende (compresa la 3M) stanno già adottando, rinunciando agli PFAS almeno in alcuni prodotti. Come ha affermato Scheringer, siamo tutti vittima di una sindrome da locked in a causa della versatilità degli PFAS e delle loro prestazioni. È come se vedessimo la realtà ogni giorno applicata nelle nostre padelle, nei tessuti per l’outdoor, in quelli per l’igiene personale e intima, nelle corde di una racchetta o in quelle di una chitarra, nelle tappezzerie e negli sedili di un’auto così come in decine di oggetti e materiali. In ciascuno di essi sono contenuti gli PFAS, che sono ciò che li rende flessibili, impermeabili, durevoli, resistenti come accade con il teflon nelle pentole, o con le lenti a contatto.

Oggi lo sappiamo, ma è come se fossimo paralizzati all’idea di farne a meno, e quindi impossibilitati a reagire. E invece dovremmo ricordare che si tratta di componenti di miscele, di molecole che possono essere eliminate o, meglio, sostituite da altre che assicurano prestazioni analoghe, ma che non generano scorie tossiche. Le alternative già esistono e anzi, il dominio assoluto degli PFAS è sempre stato, anche, un ostacolo alla diffusione di molecole meno problematiche. Ma per far diventare davvero dominati i materiali PFAS-free occorre un impegno attivo, e gigantesco. Sta ai governi, alle aziende, e a ciascuno di noi rendere il mondo un posto un po’ meno contaminato, un po’ più sicuro.

Agnese Codignola

Agnese Codignola è scrittrice e giornalista scientifica con un passato da ricercatrice. Il suo ultimo libro è Alzheimer S.p.A. Storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è (Bollati Boringhieri, 2024).

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