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Enrico Bucci
Il nuovo modo di concepire la materia che vale il Nobel

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chimica tecnologia

Il Premio Nobel per la Chimica 2025 è stato assegnato a chi ha inventato e sviluppato i metal–organic frameworks, uno dei materiali più straordinari della chimica contemporanea, che consente una libertà di progettazione inedita.

Immaginate di prendere la superficie di un campo da calcio, con i suoi circa cento metri di lunghezza e settanta di larghezza, e di piegarla, ripiegarla e riavvolgerla su sé stessa milioni di volte, fino a farla stare tutta dentro il volume di uno zuccherino. Non è un gioco di fantasia, ma la proporzione reale di ciò che accade in uno dei materiali più straordinari della chimica contemporanea: i metal–organic frameworks, abbreviati in MOF.

Nel cuore di questi materiali, invisibile a occhio nudo, si nasconde una superficie interna vastissima, percorribile per diffusione da altre molecole come minuscoli viaggiatori. È una superficie fatta di pareti e di corridoi su scala nanometrica – miliardesimi di metro – che moltiplica a dismisura lo spazio in cui far accadere qualcosa di utile alla chimica: un contenitore che ha la geometria di una spugna, ma con molto più spazio nei suoi canali e pareti molto più sottili, su proporzioni piccolissime, con geometrie inoltre rigorosamente prefissate. Ogni canale è un luogo in cui possiamo far entrare, aderire, reagire e poi trasformare altre molecole bersaglio, sfruttando la chimica delle superfici del MOF progettate allo scopo.

Per misurare quanta superficie si nasconde in un MOF, infatti, i chimici usano proprio molecole che entrano nei loro pori: un gas inerte, di solito azoto, che riempie i pori a basse temperature. Calcolando quanto gas viene adsorbito, si risale all’area complessiva delle pareti interne. I numeri sono sbalorditivi: diecimila metri quadrati per grammo significa che, come dicevo pocanzi, un piccolo frammento di materiale contiene più superficie utile di un campo da calcio.

Il premio Nobel per la Chimica 2025 è stato assegnato a Susumu Kitagawa, Richard Robson e Omar M. Yaghi per aver inventato e sviluppato questi materiali. È un riconoscimento non solo di una scoperta interessante, ma di un modo nuovo di concepire la materia. Fino a pochi decenni fa, i solidi porosi erano perlopiù naturali: argille, zeoliti, carboni attivi. I loro pori erano dati dalla natura e difficili da controllare. I tre chimici premiati hanno mostrato che si può progettare la distribuzione del vuoto dentro la materia fino a scala molecolare: disegnare reticoli ordinati, tridimensionali, formati da metalli e molecole organiche, in cui le pareti sono la parte funzionale del materiale, e lo spazio nei cunicoli interni è il contenitore in cui far avvenire ciò che si vuole.

Per capire quanto sia nuova questa idea, serve un passo indietro.

Un cristallo, come il sale o il quarzo, è un solido in cui gli atomi si dispongono strettamente impacchettati secondo un ordine geometrico che si ripete nello spazio. Nel cloruro di sodio, per esempio, ioni di sodio positivi e ioni di cloro negativi si attraggono e si alternano in modo regolare: è un reticolo ionico, compatto e rigido. Nei cristalli covalenti, come il diamante o la silice, gli atomi si legano in una rete continua di legami fortissimi, che non lascia spazi liberi. Questi materiali sono stabili, ma anche chiusi: non c’è posto per nient’altro.

I MOF nascono dall’idea di creare un cristallo ordinato, ma basato su legami di tipo diverso – legami di coordinazione, nei quali uno ione metallico si lega a una molecola organica che gli dona una coppia di elettroni. Questi legami, pur essendo direzionali e robusti e orientati secondo geometrie prevedibili, lasciano spazio tra un nodo metallico e l’altro. 

“Fino a pochi decenni fa, i solidi porosi erano perlopiù naturali: argille, zeoliti, carboni attivi. I loro pori erano dati dalla natura e difficili da controllare. I tre chimici premiati hanno mostrato che si può progettare la distribuzione del vuoto dentro la materia fino a scala molecolare”.

L’intuizione iniziale si deve a Richard Robson. Negli anni Settanta e Ottanta, mentre costruiva modelli molecolari per le sue lezioni all’Università di Melbourne, fissò la sua attenzione su un dettaglio che è la base della chimica strutturale che egli insegnava ai suoi studenti: gli atomi si legano sempre in direzioni preferite. Nel cristallo di sale, ogni ione di sodio è circondato da sei ioni di cloro, disposti ai vertici di un cubo: non uno di più, non uno di meno, e una geometria precisa si osserva anche per i legami covalenti, per esempio disposti in direzione dei vertici di un tetraedro nella molecola del metano.

Anche i legami di coordinazione, che uniscono metalli e molecole organiche, seguono geometrie fisse – ottaedriche, tetraedriche, planari – determinate dalla forma degli orbitali del metallo. Robson si chiese se non fosse possibile sfruttare questa direzionalità per costruire un reticolo esteso, tridimensionale, non fatto solo di atomi singoli come nel diamante, ma di “blocchi” più grandi: nodi metallici collegati da travi organiche, costituite cioè da carbonio, idrogeno e in misura minore da altri elementi come ossigeno e azoto. Se i legami avessero tenuto, la struttura risultante sarebbe stata un solido ordinato come un cristallo, ma con vuoti regolari a determinare “camere” microscopiche al suo interno.

L’idea era così nuova che molti colleghi non la presero sul serio. La chimica dei complessi di coordinazione era considerata un campo di molecole discrete, non di materiali estesi. Ma Robson insistette. Nel 1989, combinando ioni rameosi (Cu⁺) con una molecola organica a quattro bracci, vide comparire un cristallo trasparente e regolare. Sottoposto all’analisi ai raggi X, rivelò una struttura ordinata, con cavità e canali che attraversavano tutto il solido. Era il primo esempio di una rete di coordinazione tridimensionale stabile: una forma di materia nuova, in cui la chimica dei metalli e quella organica si incontravano per creare architetture controllabili dai chimici. Robson comprese che quelle cavità potevano funzionare come trappole per molecole più piccole, o come vie preferenziali per reazioni chimiche. Aveva costruito un materiale che non solo rispondeva a una teoria interessante, ma poteva essere utilizzato per ricavare laboratori chimici con camere di reazione su una superficie estesissima.

Negli anni Novanta, l’idea si sviluppò in Giappone. Susumu Kitagawa, allora alla Kindai University, riprese il concetto e lo portò più avanti. Nel 1992 realizzò un reticolo bidimensionale capace di intrappolare piccole molecole. Cinque anni dopo ottenne le prime strutture tridimensionali veramente stabili, formate da ioni di nichel, cobalto o zinco e dalla molecola 4,4’-bipiridina, che fungeva da legante. La novità non era solo nella geometria, ma nel comportamento: una volta asciugati, quei materiali non collassavano, ma rimanevano porosi. Potevano assorbire e rilasciare gas – metano, ossigeno, azoto – senza deformarsi.

Kitagawa osservò un fenomeno che nessun solido aveva mostrato prima: il reticolo si adattava alle molecole ospiti, espandendosi leggermente e poi ritornando alla forma originale. Era una “elasticità” molecolare, resa possibile dai legami di coordinazione, che agivano come giunti mobili – una cosa impossibile da ottenersi con legami covalenti come quelli del diamante. Kitagawa definì queste strutture “cristalli soffici” e nel 1998 propose una classificazione che oggi è rimasta storica: una prima generazione di reticoli che erano fragili, una seconda stabili e reversibili, una terza dinamici, capaci di cambiare forma sotto stimoli esterni come pressione, temperatura o luce.

Quasi in contemporanea, un giovane chimico giordano naturalizzato americano, Omar M. Yaghi, portava avanti la stessa intuizione negli Stati Uniti. Come i suoi colleghi, dopo anni di lavoro sulla chimica dei complessi metallici in singole molecole, Yaghi voleva progettare e costruire materiali estesi. Nel 1995 pubblicò la struttura della prima rete bidimensionale metallorganica e coniò il termine metal–organic framework. Quattro anni dopo, nel 1999, presentò al mondo MOF-5, un reticolo cubico basato su cluster di zinco e acido benzenedicarbossilico. MOF-5 era stabile fino a 300 °C, manteneva la sua forma anche dopo la rimozione dei solventi e possedeva una superficie interna di migliaia di metri quadrati per grammo. Era la dimostrazione pratica che si potevano costruire solidi a porosità permanente, cioè materiali che restano porosi anche quando i pori sono vuoti.

Da allora, la chimica dei MOF è diventata una scienza a sé. Yaghi ha formalizzato una nuova suddivisione della sua materia di ricerca, la chimica reticolare: una disciplina che studia come progettare materiali macroscopici solidi scegliendo a priori le unità costruttive – i secondary building units, o SBU – e lasciando che si autoassemblino secondo geometrie prevedibili. Nodi metallici con direzioni di legame fissate, leganti organici con lunghezze definite: variando i leganti, si ottengono intere famiglie di materiali con la stessa struttura di base ma con pori di dimensioni diverse. Questa prevedibilità, unita all’autoassemblaggio spontaneo, ha trasformato la sintesi dei materiali.

“Nei MOF è come se tutta la materia fosse “superficie”: ogni grammo offre milioni di siti dove una molecola può attaccarsi, essere riconosciuta, reagire”.

Oggi esistono decine di migliaia di MOF, con strutture e funzioni diversissime. Alcuni, come MOF-177 o NU-1501, hanno superfici specifiche di oltre 10.000 metri quadrati per grammo: valori impensabili fino a pochi anni fa. Altri, come MIL-101 o UiO-67, vengono usati per catalizzare reazioni o depurare acque contaminate. CALF-20 è già impiegato su scala industriale per la cattura selettiva dell’anidride carbonica; MOF-303, sviluppato dal gruppo di Yaghi, permette di estrarre acqua potabile dall’aria desertica sfruttando il ciclo termico giorno-notte. 

Rispetto a strutture porose tradizionali, la chimica dei MOF ha notevoli vantaggi. Nella citata cattura della CO₂, per esempio, i MOF permettono di trattenere selettivamente la molecola di anidride carbonica in mezzo a miscele di gas, sfruttando la forma e la polarità dei pori. Nello stoccaggio dell’idrogeno e del metano, la grande superficie interna consente di accumulare quantità notevoli di gas a pressioni moderate, con vantaggi di sicurezza ed efficienza. Nella purificazione dell’acqua, i MOF possono adsorbire sostanze tossiche o metalli pesanti e poi rigenerarsi. Altri MOF conducono elettricità o mostrano luminescenza, aprendo prospettive nella sensoristica e nell’elettronica molecolare.

In laboratorio si studiano MOF capaci di trattenere gas tossici, intrappolare contaminanti organici persistenti come i PFAS, o ospitare enzimi che catalizzano reazioni delicate. 

In ognuno di questi casi, la funzione nasce dalla forma: dal modo in cui i pori si aprono, si chiudono e si affacciano sul mondo esterno, e dai gruppi chimici presenti nelle pareti che li delimitano all’interno del materiale. Ciò che infatti distingue i MOF dai materiali porosi tradizionali, come le zeoliti, è la flessibilità chimica. Le zeoliti sono reti inorganiche di silicio e ossigeno, molto stabili ma di chimica uniforme. I MOF, invece, possono essere modificati quasi all’infinito: cambiando il metallo, si cambia la geometria dei nodi; cambiando la molecola organica, si varia la lunghezza e la chimica delle pareti dei pori. Si possono aggiungere gruppi funzionali che attraggono selettivamente certe molecole, o creare pori che si aprono e si chiudono come valvole. È un materiale “programmabile”, in cui l’architettura e la funzione sono inseparabili.

Il principio che regge tutto è semplice, ma potentissimo. In un blocco compatto di quarzo o di acciaio, solo gli atomi in superficie possono interagire con l’esterno; gli altri restano chiusi all’interno. Nei MOF, invece, quasi ogni atomo fa parte di una parete interna, a contatto con i canali del materiale. È come se tutta la materia fosse “superficie”: ogni grammo offre milioni di siti dove una molecola può attaccarsi, essere riconosciuta, reagire. Questo moltiplica l’efficienza di qualsiasi processo chimico che avvenga in presenza del materiale.

Per questo il Nobel a Kitagawa, Robson e Yaghi non riconosce soltanto un nuovo tipo di materiali, ma un nuovo livello di controllo sulla materia. In molte branche della chimica – organica, farmaceutica, dei polimeri – progettare molecole con proprietà desiderate è pratica comune; la novità dei MOF è aver portato questa capacità di progetto al mondo dei solidi cristallini, dove finora la struttura si lasciava più scoprire che costruire.

Con i loro reticoli metal–organici, è diventato possibile prevedere e modulare non solo la composizione, ma la geometria dello spazio interno: stabilità, porosità, capacità di adsorbimento o di catalisi dipendono da scelte precise di metallo, legante e topologia. I MOF non sono semplicemente materiali più porosi: sono i primi solidi in cui la funzione nasce da un disegno molecolare ripetuto all’infinito con regolarità cristallina, senza vincoli o limitazioni per quanto riguarda le geometrie ottenibili, andando cioè molto oltre i materiali polimerici o le leghe metalliche o altri tipi di materiali amorfi.

È questa la vera innovazione che il Nobel premia: l’estensione del concetto di progettazione chimica dal livello della singola molecola a quello della materia estesa, con una libertà di progettazione prima sconosciuta.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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