A differenza dell'antidoto ricavato dai cavalli usato tradizionalmente, una nuova generazione di farmaci derivati dai camelidi potrebbe riuscire a contrastare l'effetto del veleno di quasi tutti i serpenti senza rischi di shock anafilattico.
I serpenti ogni anno mordono più di cinque milioni di persone. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) quasi un morso su due causa avvelenamento. Nel 2019 le vittime sono state 64.000, ma il numero delle persone che subisce danni permanenti, come amputazioni degli arti colpiti, è probabilmente tre volte più grande. Si tratta a tutti gli effetti di un grave problema di salute pubblica in diverse aree del mondo, in particolare per le fasce della popolazione meno abbienti e i bambini, più esposti agli effetti del veleno per via della ridotta massa corporea.
Per questo motivo, l’OMS auspica di dimezzare il numero delle vittime entro il 2030 agendo su diversi fronti: migliorare informazione e prevenzione, rinforzare la risposta sanitaria nelle aree più arretrate, favorire la ricerca di nuovi antidoti, più efficaci e meno costosi.
Fra le aree più colpite c’è il continente africano, in particolare i Paesi della fascia tropicale, dove vivono alcuni fra i serpenti velenosi più pericolosi del mondo, responsabili ogni anno di circa mezzo milione di morsi che necessitano trattamento sanitario. La sola famiglia degli elapidi, composta da rettili dai denti veleniferi fissi e posti nella parte anteriore della bocca (proteroglifi), è rappresentata da specie note ai più, come i cobra e i mamba.
Il mamba nero (Dendroaspis polylepis), serpente rapido e di grandi dimensioni, è in grado di iniettare un veleno neurotossico che agisce sul sistema nervoso, paralizzando la vittima e bloccandone il sistema respiratorio. Diversa è invece l’azione del veleno di altri elapidi presenti in Africa, come il cobra sputatore gigante (Naja ashei): si tratta di sostanze prettamente citotossiche, capaci cioè di attaccare i tessuti nei pressi del morso causando necrosi e edemi che a volte richiedono interventi drastici fino all’amputazione.
Gli antidoti oggi più diffusi sono ottenuti immunizzando animali molto resistenti, solitamente cavalli, con il veleno di una singola specie di serpente. Il risultato è un antidoto che contiene al suo interno gli anticorpi prodotti dal cavallo, che andranno ad agire nel corpo della vittima di un morso contrastando l’azione del veleno. Sebbene rappresentino l’unico modo oggi esistente per intervenire, da anni vengono criticati diversi aspetti della loro produzione ed efficacia.
La qualità dei singoli antidoti infatti varia, perché vengono prodotti utilizzando cavalli diversi e soprattutto il loro impiego non è esente da rischi ed effetti collaterali (come reazioni allergiche e shock di tipo anafilattoide), senza considerare che di frequente è necessario usarne in grande quantità per trattare un singolo paziente. Inoltre, in regioni dove sono presenti più specie di serpenti velenosi, sarebbe ideale avere a disposizione un antidoto più versatile, che faciliterebbe l’intervento del personale sanitario, spesso impreparato e alle prese con vittime incapaci di indicare la corretta specie di serpente responsabile del morso.
L’antidoto è riuscito a inattivare le tossine di diciassette serpenti velenosi dell’area sub-sahariana, fra cui anche il mamba nero e il cobra sputatore gigante. Un solo veleno (di tipo neurotossico) è riuscito a superare anche questo antidoto: quello dell’elusivo mamba verde occidentale
Un recente articolo, Nanobody-based Recombinant Antivenom for Cobra, Mamba and Rinkhals Bites, pubblicato su Nature , racconta la ricerca di un team danese della DTU Bioengineering guidato da Andreas Hougaard Laustsen-Kiel che ha l’obiettivo di sviluppare un antidoto di nuova generazione, destinato forse a cambiare l’approccio sanitario ai morsi di serpenti velenosi.
Gli scienziati hanno infatti utilizzato un tipo diverso di anticorpi, denominati nanobodies (nanocorpi), che vengono ricavati da camelidi, in questo caso lama e alpaca. Si tratta di anticorpi più piccoli di quelli ordinari, decisamente più stabili e perfetti per essere modificati ad hoc dai ricercatori. La caratteristica che li rende più appetibili rispetto a quelli ricavati dai cavalli è che pur mantenendo la capacità di legare le tossine presenti nel veleno inoculato dai serpenti non presentano rischi di reazioni allergiche.
Il gruppo di ricerca della DTU ha isolato in tutto otto nanobodies, che hanno dato ottimi risultati durante test su topi. L’antidoto che li contiene è riuscito a inattivare le tossine di diciassette serpenti velenosi dell’area sub-sahariana, fra cui anche il mamba nero e il cobra sputatore gigante. Un solo veleno (di tipo neurotossico) è riuscito a superare anche questo antidoto: quello dell’elusivo mamba verde occidentale (Dendroaspis viridis), rettile dalle abitudini arboricole che vive nelle foreste della Liberia e della Costa d’Avorio.
Nello studio gli scienziati sottolineano anche un altro aspetto: il nuovo antidoto, in un confronto con quelli attualmente disponibili, si è rivelato più efficace nel neutralizzare il veleno di tutte le specie coinvolte, mamba nero a parte, per il quale l’antidoto già in uso Inoserp PAN-AFRICA è risultato essere ancora il migliore.
Il team guidato da Laustsen-Kiel ha reso noto che ci vorranno circa tre anni prima che il nuovo antidoto possa essere pronto per i test sugli esseri umani. Inoltre, affermano che ai promettenti risultati ottenuti in laboratorio si aggiunge un antidoto basato sui nanobodies che potrebbe dimostrarsi decisivo anche per altri motivi. Per prima cosa potrebbe ridurre la diffidenza che spesso coglie i sanitari che operano in zone rurali, spesso alle prese con antidoti poco sicuri e selettivi. Se l’efficacia verrà confermata, sarà poi determinante nel ridurre la quantità di antidoto impiegata per singolo paziente, aspetto da non sottovalutare per abbassarne il costo di produzione.
Fra gli obiettivi della Asclepius Snakebite Foundation, una ONG che da anni si occupa di migliorare la risposta sanitaria nelle aree critiche, ci sono anche la formazione, la prevenzione e l’educazione. Saper riconoscere i serpenti, le loro abitudini e comportarsi in modo corretto quanto se ne incontra uno è utile quanto gli antidoti. Lo conferma Marco Colombo, naturalista e fotografo, parlando della situazione in Italia. «L’approccio delle persone nei confronti dei serpenti è ancora polarizzato. Sicuramente è migliorato rispetto al passato, quando la paura e l’odio verso questi animali era più diffuso. Oggi, grazie anche a divulgazione e sensibilizzazione, c’è un occhio di riguardo in più. La mia impressione, senza voler generalizzare, è che c’è una maggior sensibilità nelle persone che vivono in città rispetto a quelle che condividono lo spazio con i serpenti in campagna o in montagna, là dove è più difficile convivere».
Saper riconoscere i serpenti, le loro abitudini e comportarsi in modo corretto quanto se ne incontra uno è utile quanto gli antidoti.
In Italia sono presenti quattro specie di vipere: la vipera comune (Vipera aspis), la vipera dal corno (Vipera ammodytes), la vipera dell’Orsini (Vipera ursinii) e il marasso (Vipera berus). Sono tutte velenose e iniettano il veleno grazie a denti cavi che funzionano in modo simile a una siringa (sono serpenti solenoglifi). «È stato scoperto che all’interno della stessa specie esiste una variabilità nel tipo di veleno presente» continua Colombo. «Per esempio, alcune popolazioni di vipera comune hanno veleni che possono risultare più pericolosi di altre (una caratteristica riscontrata anche negli scorpioni, il che suggerisce sia causata da fattori ambientali o genetici). La vipera dal corno, essendo quella più grande, è il serpente che a parità di morso può iniettare più veleno. Si tratta comunque di animali schivi, timidi e poco inclini a mordere. Se vengono avvicinate scappano o restano immobili, sperando di non essere viste grazie alla loro colorazione mimetica».
Esistono pochi dati certi sul numero di morsi di vipera che avvengono ogni anno nel nostro Paese, lacuna condivisa con gran parte del resto d’Europa. Nei pochi studi disponibili, i numeri sono decisamente ridotti (poche centinaia di casi all’anno) ed evidenziano come molte delle persone giunte nei centri antiveleno dopo un morso non mostrano segni di avvelenamento, rendendo di fatto inutile la somministrazione dell’antiofidico (l’antidoto disponibile in Italia che dal 2003 non è più farmaco da banco: può essere impiegato soltanto in ambito ospedaliero, in modo che sia possibile valutare se è necessaria la somministrazione e gestire nel migliore dei modi ogni tipo di situazione che si possa presentare nel paziente dopo l’utilizzo). «Il morso è un evento piuttosto remoto» conferma Colombo. «Se si indossano scarponi, calzettoni e pantaloni lunghi e si fa attenzione a dove si mettono le mani (per esempio se si stanno cercando dei funghi), è davvero difficile essere morsi. Inoltre, anche una vipera di 70-80 centimetri, quindi piuttosto grossa, ha denti lunghi solo pochi millimetri, incapaci di bucare uno scarpone o un pantalone. Tutt’altro discorso vale per le specie di altri Paesi. Le vipere centro-africane, per esempio, come la vipera del Gabon (Bitis gabonica) o la vipera rinoceronte (Bitis nasicornis) hanno denti lunghi diversi centimetri».
Anche nel caso delle vipere, le superstizioni e le leggende metropolitane contribuiscono a diffondere false informazioni. «Si dice che le vipere di colore nero siano più velenose delle altre» chiosa Colombo. «È falso. Così come ovviamente non è vero che, per bere, le vipere debbano togliersi le ghiandole velenifere e non siano dunque pericolose nei pressi di ruscelli o specchi d’acqua. Questa leggenda deriva dal fatto che in Italia spesso vengono confuse con le natrici (Natrix tessellata), serpenti molto simili alle vipere e comuni da incontrare in ambienti acquatici, ma del tutto inoffensivi per gli esseri umani».
Sebbene la distribuzione e la tipologia dei serpenti renda i paragoni azzardati, alcune aree del mondo sono nettamente più esposte di altre al problema dei morsi e degli avvelenamenti. India, Pakistan, Bangladesh e i paesi dell’Africa subsahariana già citata sono i luoghi dove lo sviluppo di nuovi antiveleni potrebbe incidere maggiormente. L’Europa, il Nord America e l’Australia (nonostante qui vivano alcune specie dal veleno assai pericoloso) sono quelle che nel corso degli anni registrano meno casi gravi e decessi.