Un quartiere troppo rumoroso. Una brava insegnante. Una mensa scolastica in cui si mangiava male. Una nonna dalla voce gentile. Un inverno senza riscaldamento. Studi recenti dimostrano che la materia grigia non si forma nel vuoto, ma porta i segni dell'ambiente sociale.
Immaginiamo il cervello come una grande città. Le sue strade principali, i suoi viadotti e le sue gallerie sotterranee sono la materia bianca: fasci di fibre nervose rivestite di mielina, che permettono ai messaggi di viaggiare in fretta, coordinati, senza intoppi. Più queste vie sono integre, più la città funziona: le informazioni scorrono, si incrociano, si traducono in parole, pensieri e decisioni.
Nel 2025, sulle pagine della rivista «PNAS», compare uno studio frutto di un’indagine effettuata su oltre novemila bambini americani tra i 9 e i 10 anni. Secondo gli scienziati, l’ambiente in cui cresciamo, quello quotidiano – fatto di strade, scuole, famiglie, relazioni e risorse – lascia una nitida impronta nella struttura del nostro cervello. Non metaforica ma fisica. Un’impronta che costringe a rimetter mano al concetto di “merito” e a chiederci se tutto sia, davvero, merito del merito. La materia bianca, che connette le diverse aree cerebrali, risulta più o meno integra a seconda del contesto sociale vissuto nei primi anni di vita. E questa differenza si riflette poi nelle capacità fondamentali: comprendere un testo, fare un calcolo, memorizzare una poesia.
I neuroscienziati misurano un parametro chiamato FA (anisotropia frazionale). Più alto è, più le fibre sono ben orientate, mielinizzate, solide. Al contrario, più è basso, più lo scambio di informazioni si disperde e si disorganizza. Come se i collegamenti tra i diversi “quartieri” della mente fossero peggiori.
Nello studio pubblicato su PNAS, i ricercatori hanno incrociato questi dati cerebrali con 19 variabili ambientali che caratterizzano un’infanzia: dalle condizioni economiche della famiglia alla salute prenatale, dalla qualità del quartiere di origine alla presenza di traumi o difficoltà relazionali, fino al livello di istruzione dei genitori. Attraverso una tecnica statistica chiamata “regressione PLS”, hanno quindi sintetizzato tutti questi fattori in una sorta di “indice cumulativo dell’ambiente” in cui il bambino cresce.
Il risultato è netto: più l’indice ambientale segnala isolamento sociale, povertà, traumi e altri tipi di svantaggi, più la materia bianca del cervello risulta fragile, con valori di FA più bassi. Al contrario, crescere in un ambiente stabile e supportivo, lascia tracce misurabili: connessioni cerebrali più integre e più efficienti.
Dunque, l’ambiente non è semplicemente il contesto in cui il cervello si sviluppa, bensì contribuisce attivamente a costruire, con i suoi stimoli e le sue carenze, l’infrastruttura stessa del pensiero.
Il cervello non è un destino scritto una volta per tutte. È un organismo plastico, malleabile, reattivo. Soprattutto nei primi anni di vita, è una scultura in lavorazione. Gli oligodendrociti, le cellule che rivestono i neuroni di mielina e ne potenziano la comunicazione, non smettono di agire con la crescita: rispondono agli stimoli, mutano, si adattano.
Più l’indice ambientale segnala traumi e altri tipi di svantaggi, più la materia bianca del cervello risulta fragile
Esperienze complesse, relazioni significative, un apprendimento continuo: sono questi alcuni tra i fattori che incoraggiano la produzione di nuova mielina. Come un muscolo che si rafforza con l’esercizio, anche i circuiti cerebrali più usati si consolidano. Ma proprio come un muscolo che si indebolisce se non viene usato, anche la mielinizzazione può essere compromessa da ambienti poveri di stimoli o segnati da traumi.
Una rassegna, guidata da Karen Bales, raccoglie risultati da diversi modelli animali. Macachi che hanno subito abusi, mostrano alterazioni evidenti nella connettività della materia bianca: nel corpo calloso, nella sostanza bianca occipitale, nel tronco encefalico. Nei roditori, l’isolamento sociale precoce si traduce in una mielinizzazione ridotta della corteccia prefrontale, area chiave per la regolazione cognitiva ed emotiva.
Il messaggio è chiaro: la disuguaglianza “ambientale” lascia il segno.
Ma attenzione: il “segno” non è necessariamente una condanna inesorabile. Parliamo piuttosto di probabilità che cambiano, di sentieri che si biforcano. Differenze iniziali che, se lasciate crescere da sole, rischiano di diventare divari. Un esempio arriva da un altro imponente studio pubblicato su «Nature» nel 2025: oltre due milioni e mezzo di bambini francesi sono stati sottoposti ad un programma nazionale di valutazione che, per quattro anni consecutivi, ha monitorato le competenze matematiche e linguistiche degli alunni delle scuole elementari. Ogni bambino è stato testato tre volte: all’inizio della prima elementare, dopo quattro mesi e all’inizio dell’anno scolastico successivo. All’ingresso nella scuola, maschi e femmine mostrano punteggi di matematica pressoché identici. Ma già dopo quattro mesi si osserva un piccolo divario a favore dei maschi.
Il “segno” non è necessariamente una condanna inesorabile. Parliamo piuttosto di probabilità che cambiano
Dopo un anno, il divario si amplia in modo netto. E il fenomeno si ripete in ogni tipo di scuola, in ogni area geografica ed in ogni fascia sociale. Anzi, tende a crescere nei contesti più agiati. E diverse evidenze suggeriscono che l’ambiente giochi un ruolo. Un’analisi accurata dello studio, infatti, mostra che il divario non aumenta semplicemente con l’età dei bambini, ma con l’esposizione alla scuola: a parità di età, il gap cresce nei bambini che hanno avuto più mesi di istruzione formale. Tra le ipotesi avanzate dagli studiosi per spiegare questo fenomeno, c’è anche quella che chiama in causa gli stereotipi di genere. Per esempio, è stato osservato che molti insegnanti tendono ad attribuire i successi dei maschi al talento, e quelli delle femmine all’impegno. Una distorsione, spesso inconsapevole, che può minare la fiducia delle bambine in sé stesse e nelle proprie capacità, proprio negli anni in cui si costruisce l’identità scolastica.
Se il contesto può arrivare a plasmare in così poco tempo la traiettoria d’apprendimento, allora è lì che occorre intervenire.
Torniamo allora alla domanda iniziale: è davvero tutto “merito”? Se i circuiti cerebrali che ci permettono di ragionare, comprendere, apprendere sono scolpiti dai contesti in cui cresciamo, e se tali contesti sono caratterizzati da profonde iniquità, è il concetto stesso di “merito” a dover essere messo in discussione.
Il cervello umano non è una macchina chiusa e autonoma, ma un sistema poroso e aperto agli influssi dell’ambiente. Dietro ogni successo o insuccesso scolastico, dietro ogni test superato o fallito, ci sono non solo tratti personali, ma anche reti neurali modellate, giorno dopo giorno, dall’esperienza del mondo che edifichiamo.
Nuove politiche per l’infanzia, dall’accesso a un’abitazione dignitosa ai servizi educativi per i più piccoli, dalla genitorialità supportata alla qualità dell’aria che respiriamo e del cibo che mangiamo, non sono solo strumenti di equità sociale. Sono leve strutturali per lo sviluppo cognitivo, per la costruzione di connessioni neurali più solide, per garantire a tutti i bambini buone basi dell’apprendimento. In questo senso, parlare di “merito”, senza considerare l’ambiente che plasma fisicamente il cervello, rischia di essere una narrazione incompleta. E più che una celebrazione del talento, rischia di diventare una legittimazione delle disuguaglianze.