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Enrico Bucci
Le sei molecole alla base della vita

Le Sei Molecole Alla Base Della Vita Bucci Cover
chimica Scienza

Le migliaia di reazioni interconnesse, insieme all'alta specializzazione delle particelle e alla forte interdipendenza delle componenti delle reti metaboliche, rendono la base della vita ipercomplessa. Per questo abbiamo sempre cercato di capire i processi dal loro punto di arrivo.

Quando si osserva la biochimica contemporanea con gli strumenti della biologia molecolare, la vita appare come un sistema di elevata complessità strutturale. Migliaia di reazioni interconnesse, macromolecole altamente specializzate, reti metaboliche che funzionano solo se tutte le componenti sono presenti simultaneamente. Questa complessità ha a lungo suggerito che l’origine dovesse essere altrettanto complessa, o che richiedesse condizioni iniziali eccezionali. Per questo, per molto tempo, la domanda sull’origine della vita è stata posta partendo dal punto di arrivo.

Se invece si torna indietro e si considera la Terra primordiale come un sistema chimico, il quadro cambia. In un ambiente planetario giovane, privo di ossigeno libero e dominato da vulcanismo, radiazione e cicli geochimici semplici, la chimica disponibile può essere estremamente ridotta. Bastano poche molecole semplici – per esempio acqua (H₂O), azoto molecolare (N₂), metano (CH₄), ammoniaca (NH₃), acido cianidrico (HCN) e solfuro di idrogeno (H₂S) – per rappresentare un punto di partenza realistico.

Sono tutte molecole piccole, osservabili e producibili in contesti “planetari” generici: l’acqua come solvente e reagente universale, l’azoto molecolare come serbatoio principale di azoto atomico, metano e ammoniaca come forme ridotte di carbonio e azoto, HCN come specie-chiave perché porta insieme carbonio e azoto in un frammento altamente reattivo, e H₂S come sorgente riducente e di zolfo, capace di entrare in reazioni che cambiano drasticamente la reattività del carbonio. Queste sei piccole molecole, messe insieme, contengono già gli elementi e i legami minimi necessari a generare una chimica del carbonio ricca: C, N, O, H, S, e un primo nucleo C≡N che, per la chimica organica, è una porta spalancata verso specie più complesse.

Il problema, a questo punto, è descrivere come una miscela chimicamente povera come quella che abbiamo ipotizzato diventi qualcosa di riconoscibilmente complesso. La chimica non procede per scopi; procede per compatibilità strutturali ed energetiche. Una reazione avviene quando esiste un percorso che abbassa l’energia necessaria a trasformare reagenti in prodotti, e quando l’ambiente fornisce l’energia o le condizioni per attraversare quella barriera: un certo pH, una certa temperatura, un sale metallico comune, una superficie minerale, un gradiente chimico, luce o scariche elettriche.

In natura queste condizioni non sono stazionarie: oscillano, si alternano, si localizzano. La stessa pozza può essere acida dopo un episodio vulcanico e più neutra dopo diluizione; la stessa fessura idrotermale può imporre un ciclo termico; la stessa superficie minerale può concentrare alcune molecole e lasciarne altre in soluzione. Questo dettaglio ambientale conta perché, per “arrivare lontano”, la domanda cruciale non è solo “questa reazione è possibile?”, ma “quante volte può ripetersi e quanti percorsi alternativi esistono se le condizioni cambiano?”

È qui che entra un passaggio metodologico che ha permesso di trasformare una quantità enorme di chimica prebiotica frammentaria in un’unica immagine coerente. Un gruppo di ricercatori è partito da una constatazione banale: negli ultimi decenni, lo studio della chimica prebiotica ha prodotto centinaia di reazioni dimostrate in laboratorio – ciascuna in un contesto specifico, con un set di reagenti e condizioni – ma quasi sempre descritte in isolamento.

Il lavoro del gruppo è stato mettere tutto insieme in modo rigoroso: selezionare reazioni già ottenute e discusse come prebioticamente plausibili, eliminarne le dipendenze “da laboratorio moderno” (per esempio solventi esotici, passaggi che richiedono protezioni/deprotezioni tipiche della sintesi chimica fine, condizioni incompatibili con acqua), formalizzare ciascuna trasformazione come regola applicabile a classi di molecole, e poi farle lavorare tutte nello stesso spazio, come se fossero l’insieme delle mosse disponibili su una grande scacchiera chimica delle possibilità.

Queste trasformazioni non sono state inventate: provengono da esperimenti già pubblicati e da reazioni elementari della chimica organica note per avvenire in acqua senza l’aiuto di enzimi. Il salto concettuale importante sta nell’averle rese tra loro compatibili e nel farle operare come un repertorio unico.

Da questa raccolta sistematica sono state codificate 614 trasformazioni chimiche possibili in ambiente prebiotico, raggruppate in 72 classi generali in base al meccanismo: idrolisi (tagli di legami per aggiunta di acqua), condensazioni (costruzione di legami con eliminazione di una piccola molecola, spesso acqua), ossidoriduzioni semplici (passaggi che spostano elettroni e cambiano il livello di ossidazione del carbonio), addizioni a doppi e tripli legami (modi standard con cui il carbonio insaturo “accetta” nuovi gruppi), reazioni multicomponente (in cui più reagenti entrano insieme e costruiscono strutture più complesse in un solo evento), e coordinazioni con metalli comuni (perché metalli come rame, ferro, nichel, zinco cambiano i percorsi energetici, stabilizzano intermedi, fanno da catalizzatori).

Come dovrebbe essere a questo punto chiaro, queste trasformazioni non sono state inventate: provengono da esperimenti già pubblicati e da reazioni elementari della chimica organica note per avvenire in acqua senza l’aiuto di enzimi. Il salto concettuale importante sta nell’averle rese tra loro compatibili e nel farle operare come un repertorio unico.

Una volta costruito questo repertorio, il gruppo ha applicato le regole in modo iterativo. Il punto va spiegato con calma, perché è qui che nasce la crescita esplosiva della chimica prebiotica. Si parte con sei molecole. Si applicano tutte le trasformazioni che possono agire su quelle sei, ottenendo una prima generazione di prodotti. Poi, invece di fermarsi e “scegliere” la reazione preferita, si fa l’opposto: si prende tutto ciò che è stato prodotto e lo si reinserisce come reagente potenziale, applicando di nuovo l’intero repertorio. È una chimica che non sceglie una strada: le percorre tutte, fin dove è possibile. 

Per mantenere il modello dentro confini realistici, sono stati imposti vincoli concreti: evitare trasformazioni incompatibili con determinati gruppi funzionali, restare in un dominio dominato dall’acqua, e soprattutto limitare le molecole a una massa molecolare massima di 300 dalton, cioè molecole ancora piccole, gestibili, compatibili con un ambiente prebiotico in cui la probabilità di accumulare strutture enormi senza selezione e senza compartimenti è bassa. Con questi vincoli, dopo sette cicli di espansione – sette “generazioni” – la rete ottenuta contiene 36.603 molecole non biologiche, e al suo interno 82 molecole appartenenti a famiglie che oggi riconosciamo come tipiche della biochimica: amminoacidi e piccoli peptidi, carboidrati, nucleobasi, nucleosidi e metaboliti centrali.

Questo numero, da solo, non dice ancora la cosa importante. La cosa importante è che quelle 82 biomolecole non sono state cercate come bersaglio. Sono emerse come conseguenza della connettività della rete. E, analizzandole, mostrano proprietà statistiche che le distinguono dall’oceano di prodotti “non biologici”. Per rendere questo meglio comprensibile, conviene esplicitare cosa significa una proprietà come idrofobicità o stabilità termodinamica. Una molecola idrofobica in acqua tende a segregare, a separarsi, a ridurre la propria disponibilità per ulteriori reazioni in soluzione; una molecola più idrofila resta “in giro”, partecipa, viene trasformata e riformata. Allo stesso modo, una molecola termodinamicamente instabile è una molecola che, date le condizioni, ha molte vie facili per degradare o reagire in modo distruttivo; una più stabile può accumularsi, diventare nodo di passaggio, persistendo abbastanza a lungo da entrare in sequenze chimiche più complesse.

Nel dataset ottenuto dai ricercatori, in media, le molecole biotiche risultano più stabili termodinamicamente di molecole abiogeniche di massa simile, meno idrofobiche, e con un bilanciamento più regolare tra donatori e accettori di legami a idrogeno: quei punti della molecola che permettono interazioni deboli ma specifiche, fondamentali quando si passa dalle reazioni isolate a fenomeni come riconoscimento, aggregazione, pre-organizzazione. Inoltre, hanno mediamente meno “funzionalità” diverse per molecola e meno gruppi estremamente reattivi. Questo è un punto che vale la pena chiarire: più gruppi reattivi diversi significano più vie collaterali e più probabilità di finire in vicoli ciechi o in decomposizioni; una chimica che deve costruire catene lunghe tende a favorire intermedi che non si autodistruggono appena formati.

Un’altra misura che il gruppo ha quantificato riguarda la “difficoltà ambientale” dei percorsi. Molte reazioni, prese singolarmente, sono possibili solo in finestre strette di pH o temperatura. Se una molecola richiede cinque passaggi ciascuno in una condizione estrema diversa, quel percorso in natura diventa fragile. Nel modello, i percorsi che portano alle molecole biotiche richiedono, in media, un numero inferiore di cambi drastici di condizioni rispetto a quelli che portano a molte molecole abiogeniche. Non significa che la chimica prebiotica sia “semplice”; significa che, nel grande spazio delle possibilità, esistono regioni che si raggiungono con una logistica ambientale meno improbabile: queste regioni, guarda caso, contengono molecole che sono fondamentali per la chimica del vivente, come oggi la conosciamo.

Nella rete delle trasformazioni chimiche che unisce le decine di migliaia di molecole descritte dai ricercatori, pochi nodi diventano estremamente connessi, molti restano poco connessi.

Fin qui abbiamo parlato di “quali molecole”, ma la rete permette anche di vedere “come è fatta” la chimica quando cresce. La distribuzione delle connessioni attraverso trasformazioni chimiche che trasformano un reagente in un prodotto non è uniforme: nella rete delle trasformazioni chimiche che unisce le decine di migliaia di molecole descritte dai ricercatori, pochi nodi diventano estremamente connessi, molti restano poco connessi. Questa è la firma di una rete di tipo scale-free, descrivibile con una legge di potenza con esponente intorno a 1,8. Tradotto: quando una nuova molecola entra nella rete, tende a collegarsi più spesso a nodi già ben collegati, perché quei nodi corrispondono a molecole semplici e versatili, capaci di reagire in molti modi.

È un punto importante perché suggerisce che la chimica non si espande come una nebbia omogenea: si espande attorno a crocevia. E quei crocevia, nella rete in questione, includono molecole piccole e molto “connettive” come acido formico, cianoacetilene e acido isocianico, che sono perfette per una chimica organica generativa: piccoli frammenti che trasferiscono carbonio, azoto, o energia chimica con facilità.

A questo punto entra la parte più concreta, dove la rete non è più solo un diagramma di possibilità ma una guida a fenomeni misurabili in laboratorio. Se si lascia crescere la rete di reazioni, si ottengono anche molecole che cambiano la velocità delle reazioni di sintesi nella rete stessa. Questo è catalisi: una reazione chimica può essere possibile ma lentissima, ma un catalizzatore offre un percorso più rapido abbassando la barriera energetica e accelerandola di ordini di grandezza. In un mondo senza enzimi, “catalizzatore” significa una piccola molecola capace di formare intermedi temporanei o stabilizzare stati di transizione, ottenendo l’effetto descritto.

I ricercatori hanno identificato e poi verificato sperimentalmente alcuni casi in cui una molecola generata precocemente nella rete funge da catalizzatore per una trasformazione successiva. Un esempio ben chiaro è la formaldeide. In soluzione acquosa basica moderata, la formaldeide catalizza l’idrolisi selettiva di α-amminonitrili. Un α-amminonitrile si può descrivere così: è un precursore “a metà strada” tra una molecola molto semplice e un amminoacido, cioè la componente fondamentale delle proteine di cui sono fatti gli esseri viventi. Contiene un gruppo amminico (–NH₂ o simili) e un nitrile (–C≡N), e l’idrolisi del nitrile è un modo diretto per ottenere un gruppo carbossilico (–COOH), così da avere un aminoacido. Nei test, con formaldeide la resa dell’idrolisi di amminonitrili ad aminoacidi sale al 90%; senza formaldeide, nelle stesse condizioni, crolla a circa il 2%. 

La rete chimica ottenuta da 6 piccole molecole di partenza produce spontaneamente una molecola che accelera un passaggio chiave verso la chimica degli amminoacidi, cioè verso i mattoni di quei fondamenti della vita che sono le proteine.

Un altro esempio di catalizzatore riguarda l’acetato complessato con rame. Un metallo in soluzione, o su una superficie, può coordinare gruppi di una molecola reattiva e imporre una geometria favorevole a determinate reazioni chimiche, oltre a facilitare scambi elettronici. L’acetato è un ligando semplice; con rame forma un complesso catalitico che abilita una reazione multicomponente verso strutture imidazoliche. L’imidazolo è un anello a cinque membri contenente due atomi di azoto; oggi lo troviamo nell’istidina e alla base di molte molecole biologiche. Nei test sperimentali, in presenza del complesso rame–acetato il prodotto si ottiene con resa del 22,4%; senza catalizzatore, il prodotto non è osservabile. Anche qui, nella rete chimica che si auto-organizza a partire da sei molecole semplici, otteniamo un catalizzatore che favorisce grandemente la formazione di precursori della vita.

La rete di reazioni descritta dai ricercatori, oltre a individuare catalisi, traccia percorsi sintetici verso molecole che, per chiunque abbia anche solo sentito nominare il metabolismo, suonano familiari. Il caso del citrato è esemplare. Il citrato (acido citrico) è un nodo centrale del metabolismo moderno, ma in chimica prebiotica non interessa come “pezzo del ciclo di Krebs”; interessa come molecola policarbossilica in grado di legare metalli, partecipare a condensazioni, fungere da chelante, e quindi influenzare molte reazioni. La rete propone una via plausibile e, in laboratorio, quella via produce citrato con resa intorno al 5% in condizioni acquose relativamente miti; se si spingono condizioni più aggressive, gli intermedi si degradano e la resa peggiora. Questo dettaglio è essenziale perché mostra la selezione naturale chimica degli intermedi: non sopravvive il percorso “più diretto” in astratto, ma quello che non distrugge la propria catena di montaggio.

La chimica prebiotica può costruire legami ammidici in condizioni compatibili con acqua usando attivazioni che emergono nella rete, cioè che si possono formare miniproteine senza l’intervento della vita.

La costruzione di legami peptidici, quelli attraverso cui gli aminoacidi di cui abbiamo appena discusso si legano a formare proteine, è un altro passaggio interessante. Un legame peptidico è un legame ammidico: un carbonile (C=O) legato a un azoto (–NH–). Nelle proteine, come dicevamo, è il legame ripetuto che unisce gli amminoacidi in catena. Il problema dell’ambiente prebiotico è che formare legami ammidici in acqua non è facile, perché l’acqua ne favorisce l’idrolisi, cioè l’operazione opposta. Nella rete di reazioni che è stata ottenuta, tuttavia, si identificano percorsi in cui l’amminoacido viene prima attivato in una forma più reattiva (per esempio come anidride), e solo dopo condensa con un altro aminoacido, formando il legame peptidico.

Nel caso della di-glicina, cioè il composto formato dal legame peptidico fra due molecole dell’aminoacido glicina, i ricercatori hanno verificato un percorso in più passaggi: un primo passaggio con resa del 40% (con recupero di parte del substrato che non ha reagito), seguito da una fase che porta al dipeptide con resa del 29%. Si dimostra quindi che la chimica prebiotica può costruire legami ammidici in condizioni compatibili con acqua usando attivazioni che emergono nella rete, cioè che si possono formare miniproteine senza l’intervento della vita.

Fra i dati ottenuti dai ricercatori, c’è poi la risposta ad una questione cruciale: la differenza tra ottenere una molecola, elemento di base che funzioni da monomero, cioè da costituente di molecole dette polimeri costituite da sequenze di monomeri legati chimicamente fra loro e ottenere appunto i polimeri. Nella rete di reazioni chimiche costruite si notano sequenze di reazioni che non richiedono di isolare e purificare gli intermedi per ottenere il passaggio successivo, cioè che possono avvenire in un unico recipiente, senza passaggi di purificazione. Questo non è un dettaglio da laboratorio: in natura non ci sono i complessi apparati che i chimici usano in laboratorio per separare i prodotti di una reazione, da far reagire nel passaggio successivo.

Una sintesi multistep dell’acido urico, eseguita senza isolamento degli intermedi, comprende cinque passaggi consecutivi; gli intermedi sono stati confermati con spettrometria di massa ad alta risoluzione, e la resa complessiva è dell’ordine dell’1%, coerente con rese per singolo passaggio del 30–40% a seconda delle condizioni. È il tipo di chimica abiotica credibile, proprio perché non necessita di condizioni che separino un passaggio dal successivo, per ottenere composti complessi a partire dai monomeri di partenza.

Il passaggio più vicino alla soglia tra chimica e dinamica “darwiniana” in senso fisico è la comparsa di cicli autorigeneranti. Un ciclo chimico è una sequenza di reazioni che parte da una molecola e, dopo alcuni passaggi, ritorna a quella molecola. Un ciclo chimico autorigenerante è un ciclo che, consumando reagenti dall’ambiente, produce una quantità finale della molecola di partenza maggiore di quella iniziale. I ricercatori hanno testato sperimentalmente un ciclo, predetto dalla rete chimica che avevano ottenuto, basato sull’acido iminodiacetico (IDA), una piccola molecola con due gruppi carbossilici e un azoto centrale, capace di coordinare e partecipare a scambi chimici interessanti. Il bilancio finale è 126% di IDA rispetto alla quantità iniziale.

La molecola di partenza, necessaria per iniziare il ciclo, aumenta, consumando reagenti. In un sistema chimico prebiotico reale, in presenza di competitori, questo significa occupare spazio chimico e consumare risorse per aumentare le copie di sé stessi; emergono, cioè, spontaneamente nella rete di reazioni chimiche abiotiche ottenuta partendo da sole 6 piccole molecole, cicli chimici che portano a consumare risorse (competendo per quelle con altri cicli chimici), per produrre copie della molecola di partenza.

L’evoluzione chimica prebiotica appare come un’espansione della chimica inorganica di molecole semplicissime, una proliferazione di possibilità che, a un certo punto, produce anche i mezzi per accelerarsi, richiudersi in cicli, e localizzarsi in microambienti vescicolari.

Resta la questione dell’ambiente di reazione per le diverse possibilità chimiche presenti nella rete ricostruita. Qui la rete stessa fornisce altre informazioni interessanti: si individuano infatti vie plausibili verso molecole anfipatiche, cioè molecole con una parte polare (che interagisce bene con l’acqua) e una parte apolare (che la evita). In acqua, molecole anfipatiche tendono ad autoassemblarsi: micelle, aggregati, vescicole. La rete include canali di crescita modulare di aldeidi che portano a catene lineari e quindi ad acidi grassi e idrossiacidi; e include percorsi verso peptidi corti con teste polari e code più idrofobe, ottenuti per aggiunte successive di amminoacidi attivati. Non sono membrane cellulari nel senso moderno, ma sono strutture che possono concentrare reagenti, proteggere intermedi, e separare microambienti chimici. Come è stato più volte recentemente dimostrato, la presenza di questo tipo di strutture è sufficiente per cambiare i tassi di reazione, e cambiare i tassi di reazione cambia la storia che la chimica riesce a raccontare.

Se si rimettono in fila questi passaggi, il panorama è secondo me davvero straordinario: poche molecole semplici, abbondanti quasi ovunque nel cosmo, come punto di partenza; un repertorio di reazioni già ottenute in chimica prebiotica e rese compatibili tra loro, le quali dipendono da condizioni ambientali ed energetiche presenti all’inizio della storia del nostro pianeta (ed ancora in certi ambienti come le fumarole termali sottomarine); un’espansione iterativa che genera decine di migliaia di molecole sotto vincoli realistici; l’emergere di un sottoinsieme biotico con firme fisico-chimiche misurabili; una rete scale-free con nodi dominanti che alimentano la crescita, nodi che sono proprio biomolecole di base ancora oggi costitutive degli organismi viventi; la comparsa di catalisi; sequenze di reazioni complesse, senza necessità purificazione dei prodotti nei passaggi intermedi; cicli autorigeneranti con resa superiore al 100%; e infine molecole che, per proprietà fisiche, costruiscono compartimenti.

In questo quadro l’evoluzione chimica prebiotica appare come un’espansione della chimica inorganica di molecole semplicissime, una proliferazione di possibilità che, a un certo punto, produce anche i mezzi per accelerarsi, richiudersi in cicli, e localizzarsi in microambienti vescicolari.

Alla fine, l’elemento che direi è più sorprendente è la sproporzione tra l’inizio e ciò che segue. Si parte da molecole che non hanno nulla di “biologico” e all’occhio distratto non promettono nulla di buono. Poi, in condizioni realistiche che simulano quelle del nostro pianeta primitivo, la rete chimica, semplicemente, si allarga. E quando si allarga abbastanza, cominciano a comparire non solo nuove strutture, ma anche nuovi comportamenti della materia: molecole che favoriscono altre molecole, percorsi che non dipendono da una sola strada, cicli che si ricostruiscono, aggregati che creano un dentro e un fuori.

La chimica, a quel punto, non è ancora la vita, ma ha già alcune delle sue caratteristiche fondamentali: persistere, moltiplicarsi, organizzarsi. Alla luce di questi nuovi risultati, ottenuti negli ultimi cinque anni e fondati su nemmeno due decenni di ricerca, ogni dettaglio che chiamiamo biochimica smette di essere un salto e diventa un proseguimento di un’evoluzione cominciata a livelli ben più umili, come già Charles Darwin aveva intuito con le “tiepide pozzanghere” da cui immaginava fosse cominciata la via della vita.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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