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Laura Tripaldi
L’IA ha sognato milioni di nuovi materiali

L’ia Ha Sognato Milioni Di Nuovi Materiali Cover Tripaldi
chimica evoluzione Scienza

Il progetto GNoME di Google potrebbe accelerare l'evoluzione minerale del Pianeta Terra. Siamo abituati a tecnologie che emergono dalla crosta terrestre, ma che cosa succede quando sono le tecnologie stesse a produrre nuova geologia?

Ai tempi, ormai lontani, in cui ero una giovane studentessa di chimica, imparai che c’erano due modi di essere un chimico. Alcuni di noi erano destinati a incarnare l’archetipo del topo da laboratorio, in camice bianco, immersi in miscele fumanti di sostanze pericolose. Altri, invece, si dedicavano a una pratica più oscura: mescolavano linguaggi e numeri invece di fluidi e cristalli. I loro laboratori non erano stanze piene di oggetti di vetro e reagenti, ma terminali connessi a supercomputer.

Questi due percorsi si escludevano a vicenda: dedicarsi a uno significava (almeno nella mente di noi giovani scienziati ventenni e zelanti) essere certi dell’inadeguatezza dell’altro. I chimici sperimentali erano convinti che solo loro potessero padroneggiare la vera natura della nostra antica scienza, grazie alla loro coraggiosa vicinanza all’energia indomita della materia; i chimici computazionali, invece, consideravano il sapere dei colleghi poco più che un residuo premoderno. Per loro, tutto si riduceva a combinare la fisica quantistica con una sufficiente potenza di calcolo.

A quei tempi, la prospettiva di trasformare la chimica in una “scienza dura” mi affascinava. Forse tale fascinazione era dovuta alla mia ingenua attrazione verso le formule matematiche astruse e spaventose. Ma probabilmente c’entrava qualcosa anche la mia scarsa predisposizione alla sintesi organica (e il risentimento che ne derivava). C’era però anche una curiosità più profonda: mettere alla prova i limiti del linguaggio matematico e dell’infrastruttura computazionale nella loro capacità di spiegare, rappresentare e forse persino creare la realtà materiale.

Metamaterialità

La me di un tempo sarebbe stata entusiasta di sapere che, un paio d’anni fa, il mondo della scienza dei materiali è stato scosso da un annuncio rivoluzionario. L’intelligenza artificiale di Google, DeepMind, ha scoperto 2,2 milioni di nuovi materiali inorganici sconosciuti all’umanità, ampliando improvvisamente di due ordini di grandezza i circa quarantamila materiali precedentemente noti. Questa scoperta è frutto di una piattaforma tecnologica chiamata “Graph Networks for Materials Exploration”, nota anche come GNoME; e i materiali scoperti possono essere esplorati liberamente in un database open source. Ma cosa significa esattamente che una IA “scopre” un materiale? Che cosa ha a che fare un algoritmo disincarnato con qualcosa di tangibile come un qualsiasi sasso da giardino? Per rispondere a questa domanda – semplice solo in apparenza – serve un po’ di contesto.

Le regole che determinano come gli elementi si combinano nei materiali reali non sono affatto ovvie come si potrebbe pensare. La chimica dei materiali è come imparare l’inglese come seconda lingua: ti insegnano le regole a scuola, ma presto scopri che raramente si applicano davvero. Sebbene rappresentiamo gli atomi come piccole sfere perfette, sono in realtà corpi non classici, complessi, che interagiscono in modi controintuitivi.

“Dove verranno estratti, un giorno, gli elementi esotici che compongono i materiali immaginati da DeepMind, se mai decideremo di utilizzarli? E a quale costo geopolitico, ecologico e umano?”

Per progettare un materiale che possa esistere fisicamente, non basta mescolare gli elementi desiderati nelle giuste proporzioni. Quasi tutte le combinazioni che si possono immaginare “non sono stabili”, il che significa che la loro esistenza è termodinamicamente impossibile quanto “sbollire” un uovo (esiste sorprendentemente una ricerca fiorente sulle “uova sbollite”, ma non è questo lo spazio per parlarne). Per scoprire un materiale effettivamente realizzabile, si può seguire una via sintetica – cioè tentare fisicamente di crearlo in laboratorio e “vedere”, con strumenti complessi e costosi, cosa ne è venuto fuori – oppure una via computazionale, cioè valutarne la stabilità con calcoli lunghi e complicati.

L’intelligenza artificiale offre una terza via. Dopo essere stata addestrata su informazioni strutturali di materiali già esistenti – dal comune quarzo ai cristalli sintetici più avanzati – essa impara a suggerire strutture che potrebbero essere sufficientemente stabili nel mondo reale. E lo fa senza calcolare rigorosamente la stabilità di ciascuna (questa è una fase successiva), un po’ come un chimico esperto può intuire se una certa molecola o un certo materiale possano esistere o meno. Solo che lo fa molto, molto più velocemente.

Mi sono resa conto di non avere una parola per descrivere quanto profondamente i materiali stiano diventando intrecciati con i processi computazionali. Tecnologie come GNoME sembrano sfidare sia l’idea del digitale come nube disincarnata separata dai corpi materiali sia la visione della materialità come qualcosa di localizzato, fisso e indipendente da immagini e linguaggio. Il termine metamaterialità, inteso come il processo in cui modelli linguistici (come l’IA) coevolvono con i materiali in insiemi simbiotici, sembra adattarsi bene a questo fenomeno emergente. 

Medianature

La storia della chimica moderna è tanto una storia di pratiche sperimentali quanto di modelli: rappresentazioni che ci aiutano a comprendere e ad agire sulla realtà empirica. Il fatto che la chimica si occupi da secoli di fenomeni multi-scala, imprevedibili e in gran parte invisibili l’ha resa un terreno estremamente fertile per i modelli: dalla vituperata “teoria del flogisto” del XVII secolo alla “teoria degli orbitali molecolari” insegnata oggi a scuola. Ciò che una molecola è – e persino il fatto che “una molecola” esista – non dovrebbe essere considerato un ovvio dato epistemologico. La realtà delle molecole, come la conosciamo oggi, è stata oggetto di accesi dibattiti fino all’inizio del XX secolo; e oggi uno dei modelli più usati nella chimica contemporanea, il DFT, mette da parte l’idea di atomi e molecole come entità predefinite per trattare i materiali come nuvole tridimensionali di probabilità.

Ciò non significa che i modelli siano intercambiabili o neutrali: al contrario, cambiando i modelli con cui affrontiamo la mutevolezza della materia, cambia anche la nostra capacità di interagire tecnologicamente con essa. L’impresa di GNoME dimostra ulteriormente che il lavoro di rappresentare, visualizzare e immaginare la realtà non è mai completamente separabile dalla sua concreta materializzazione fatta di carne e ossa (o di atomi e molecole). Il concetto di medianature, che prendo in prestito dal libro A Geology of Media di Jussi Parikka, coglie perfettamente questa idea: «È un concetto che cristallizza il “doppio legame” di media e natura come sfere co-costitutive».

Parikka aggiunge che non dovremmo cadere nella trappola di pensare le medianature come fantasie futuristiche guidate dall’IA: l’intreccio tra materiali e modelli era vero ai tempi di Lavoisier tanto quanto lo è oggi. Tuttavia, man mano che l’IA prefigura la prossima generazione di minerali terrestri, i media stanno diventando geologici nel senso più letterale dell’espressione. E per quanto la materialità di questi corpi possa essere infinitamente riconfigurata nell’astrazione di una mente digitale, la crosta terrestre rimane (per ora) l’unico substrato in grado di chiudere il ciclo medianaturale. Dove verranno estratti, un giorno, gli elementi esotici che compongono i materiali immaginati da DeepMind, se mai decideremo di utilizzarli? E a quale costo geopolitico, ecologico e umano?

Evoluzione minerale nella tecnosfera

Il geologo Robert Hazen è noto per la sua teoria dell’evoluzione minerale: l’idea radicale che i corpi geologici, proprio come gli organismi viventi, possano adattarsi e differenziarsi in risposta a stimoli ambientali. Naturalmente, questa evoluzione avviene in tempi cosmici, ben più insondabili di quelli darwiniani con cui abbiamo familiarità; per questo il fenomeno è difficile da percepire dalla nostra prospettiva umana. Eppure, secondo Hazen, sembra esistere una tendenza intrinseca sia della materia vivente sia di quella inanimata verso una complessità crescente.

Ciò che rende particolarmente interessante la teoria di Hazen è la relazione tra forme minerali e vita. Questo rapporto è spesso simbiotico: non solo la vita sulla Terra è emersa grazie alla presenza di minerali, ma anche nuovi minerali si sono evoluti a causa delle trasformazioni planetarie generate dalla vita biologica. L’evento noto come Catastrofe dell’ossigeno, durante il quale i cianobatteri “terraformarono” il nostro pianeta rilasciando enormi quantità di ossigeno nell’atmosfera, portò anche a un’esplosione di strutture geochimiche senza precedenti. Non sappiamo se questi minerali biogenici potrebbero emergere in altre condizioni, ma è certo che la vita, modificando l’atmosfera del pianeta che abita, accelera “artificialmente” i processi di evoluzione minerale in misura esponenziale.

“Un giorno, alcuni di questi stessi cristalli potrebbero diventare il cuore, o il “cervello”, delle macchine computazionali del futuro: quali altri materiali sogneranno queste nuove tecnologie, allora?”

Nel suo saggio del 2019 The Terraforming, Benjamin Bratton propone una prospettiva affascinante sul concetto di artificialità. Invece di considerare l’artificiale come opposto al naturale, Bratton sostiene che dovremmo iniziare a comprendere chimica, geologia e biologia come permeate da processi artificiali che sono essi stessi l’espressione di una dimensione planetaria senziente. Perciò la tecnologia non esiste su un piano ontologico separato da ciò che chiamiamo “natura”; piuttosto, «la tecnologia emerge in un contesto ecologico e geologico – come un ripiegamento del pianeta che dà luogo a forme particolari».

Tra le altre cose, la lettura di The Terraforming mi ha spinta a riconsiderare il noto modello di Vladimir Vernadsky del pianeta come un insieme di “sfere” sovrapposte: la geosfera, con il suo strato di rocce e minerali; la biosfera, con la proliferazione della vita; e infine la noosfera, che emerge come risultato dell’evoluzione della coscienza umana. Sebbene queste sfere interagiscano e si determinino a vicenda, la visione di Vernadsky tradisce ancora la convinzione della supremazia dell’intelligenza come attributo esclusivamente umano. Cosa accade se, invece di separare geologia, biologia e linguaggio iniziamo a considerare il pianeta come un unico strato integrato e sempre già artificiale – la tecnosfera?

Sogni di silicio

Il progetto GNoME è affascinante proprio perché sovverte le comuni gerarchie tra naturale e artificiale: sebbene siamo abituati a pensare la tecnologia come un prodotto delle risorse geologiche, raramente la immaginiamo capace di generare nuove geologie. Se accettiamo l’idea che anche la materia inorganica partecipi a processi di selezione e differenziazione, allora la scoperta di 2,2 milioni di nuove forme di materiali finora sconosciuti potrebbe avviare un’accelerazione esponenziale dell’evoluzione minerale del nostro pianeta. Chi – o cosa – sta guidando questa evoluzione? È semplicemente il frutto della volontà umana, o c’è altro?

Indipendentemente da come la si pensi sull’utilizzo antropomorfico dei verbi “pensare” o “sognare” per parlare delle tecnologie non umane, c’è qualcosa di affascinante, e forse sinistro, nella consapevolezza che chip di silicio progettati dall’uomo stiano iniziando a immaginare e materializzare cristalli. Un giorno, alcuni di questi stessi cristalli potrebbero diventare il cuore, o il “cervello”, delle macchine computazionali del futuro: quali altri materiali sogneranno queste nuove tecnologie, allora?

Prima di suonare le trombe della “singolarità” tecnologica, però, sarebbe meglio fermarsi a riflettere. Una delle questioni ancora aperte è quanto facilmente questi materiali generati dall’IA possano tradursi in sostanze reali. Benché alcuni di essi siano già stati sintetizzati con successo (nientemeno che da un “robot-scienziato” in un laboratorio completamente automatizzato, ovviamente), c’è ancora molta strada da fare prima che la chimica tradizionale, portata avanti da esseri umani, venga davvero superata dalle macchine. Più in generale, mi chiedo se le nostre narrazioni tecnologiche incentrate sull’IA non stiano trascurando qualcosa. Se non stiano semplicemente ripetendo la vecchia storia secondo cui nulla, nemmeno la materia più grezza, può sfuggire al linguaggio della rappresentazione.

Laura Tripaldi

Laura Tripaldi è ricercatrice presso il Center for AI & Culture della New York University di Shanghai. All’intersezione tra filosofia, scienza, e pensiero speculativo, la sua ricerca si concentra sulla materialità delle tecnologie emergenti. Ha un dottorato di ricerca in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali ed è autrice di numerose pubblicazioni italiane ed internazionali. Tra queste, i libri Menti parallele (effequ, 2020, tradotto in Inglese e Spagnolo) e Gender Tech (Laterza, 2022).

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