Articolo
Sofia Belardinelli
L’unicità umana non è davvero tale, in natura

L'unicità Umana Non È Davvero Tale In Natura Belardinelli
animali biologia evoluzione natura Scienza

Due nuovi studi scientifici su megattere e bonobi assestano un altro colpo al teorema dell'eccezionalità della nostra specie, sempre più difficile da dimostrare.

Su cosa sia quel quid – quel tratto particolare – che ci rende umani, e cioè intrinsecamente diversi (leggi: superiori) rispetto agli altri esseri viventi, si interrogano da millenni i più brillanti filosofi e scienziati. Si è parlato di bipedismo, tecnologia, immaginazione, capacità di pensare al futuro; di autocoscienza ed empatia nei confronti dei nostri simili; si è parlato di linguaggio e di cultura. In tutti questi casi, in un dibattito che si è protratto per secoli, e che è stato particolarmente animato tra filosofi e scienziati nel ventesimo secolo, si è dibattuto su se sia possibile tracciare una linea di confine e, se sì, dove vada cercata.

Oggi questo impianto teorico fondato sulla separazione ontologica, sulla ricerca di tratti distintivi, sta in equilibrio con sempre maggiore fatica: più aumenta la conoscenza del mondo animale non umano, più appare difficile tracciare una linea di demarcazione precisa e non negoziabile tra “noi” e “loro” e che, di conseguenza, ci dica qualcosa su chi e cosa siamo noi umani.

Si tratta di un tema complesso, alla cui stratificazione hanno contribuito secoli di riflessione filosofica e un’enorme quantità di ricerche scientifiche: un corpus ampio e complesso, impossibile da sintetizzare qui. Mettiamo dunque da parte la filosofia e rivolgiamoci alla ricerca scientifica, che, approfondendo la comprensione del “funzionamento” di specie altrettanto sociali quanto la nostra, sta lentamente colmando il divario tra “umanità” e “animalità”. Negli ultimi mesi, un paio di studi scientifici comparsi su riviste di primo piano («Science» e «PNAS») hanno portato un contributo simile, sebbene partano da argomenti e metodologie differenti: entrambi, pur senza avanzare raffinate teorie filosofiche ma limitandosi a lasciar parlare i dati scientifici, assestano un colpo pesante al teorema dell’eccezionalismo umano.

1. Il canto delle megattere e le analogie con il linguaggio umano

Il primo dei due studi, pubblicato su «Science» e frutto di un’ampia collaborazione internazionale (Israele, Scozia, Nuova Caledonia, Australia, Stati Uniti e Nuova Zelanda), offre un’analisi della struttura del canto delle megattere (Megaptera Novaeangliae), un comportamento da tempo studiato e di cui è nota la natura culturale. Alla luce di questo, i ricercatori si sono chiesti quanto questa forma di trasmissione culturale si avvicini al linguaggio umano. I risultati sono sorprendenti (o forse no, se accettiamo l’idea che noi umani siamo animali e che con le altre specie condividiamo una lunga storia evolutiva): applicando un metodo di analisi statistica a decine di ore di canti di megattere registrati soprattutto nell’oceano Pacifico, gli studiosi hanno rilevato che questi canti sono organizzati in segmenti di diverse lunghezze che vengono assortiti e rimescolati in maniera tutt’altro che casuale.

La ricerca scientifica su questo affascinante esempio di trasmissione culturale concorda sul fatto che il canto delle megattere non sia assimilabile al linguaggio umano: si ritiene, infatti, che questi canti non veicolino informazioni specifiche (su dove sia il cibo, ad esempio) ma rappresentino comunque una forma di comunicazione usata dai maschi (gli unici che “cantano”) per attrarre le femmine o allontanare i nemici. Queste canzoni si trasmettono tra le diverse popolazioni diventando via via più complesse, con variazioni “dialettali” e aggiunte individuali. Per di più, è stato osservato che ogni manciata di anni si verifica una vera e propria rivoluzione culturale: di tanto in tanto, la popolazione che vive nel mare dell’Australia orientale rimpiazza totalmente il proprio repertorio, con nuove canzoni composte a partire da una varietà di elementi vocali mutuati da quelli delle megattere dell’Australia occidentale. Si tratta di un fenomeno che i ricercatori hanno ricollegato alla necessità di ridurre la complessità raggiunta, nel corso degli anni, dalle canzoni più diffuse, forse per la necessità di rendere l’apprendimento più facile e la comunicazione più efficace.

Questa nuova ricerca mostra che la struttura dei canti delle megattere segue regole molto simili a quelle che si applicano alla formazione dei linguaggi umani. In entrambi i casi, ciò garantirebbe la facilità di apprendimento di queste forme di comunicazione. Come spiegano in un articolo di commento alla ricerca comparso su «Science» i biologi Andrew Whiten e Mason Youngblood, «così come le vocalizzazioni umane sono strutturate in una sequenza gerarchica di fonemi, parole, frasi e narrazioni, anche i canti delle megattere presentano un’analoga struttura gerarchica, in cui singole “unità” sonore vengono assemblate per formare “frasi” stereotipate, che sono a loro volta ripetute per dare forma a “temi” organizzati in elaborati canti che durano fino a trenta minuti».

Più aumenta la conoscenza del mondo animale non umano, più appare difficile tracciare una linea di demarcazione precisa e non negoziabile tra “noi” e “loro”.

Per capire in che modo vengano appresi questi flussi comunicativi di suoni, i ricercatori si sono ispirati alle “strategie” di apprendimento messe in atto dai cuccioli umani che imparano a parlare: anche loro devono imparare a riconoscere gli elementi costitutivi di una lingua (fonemi e parole) in un flusso continuo di suoni. Per farlo, usano degli stimoli auditivi (pause o cambiamenti di volume, per esempio) che indicano la distinzione tra un segmento e l’altro. Con un algoritmo che formalizza queste strategie, i ricercatori hanno provato a segmentare i canti delle balene: ne sono emersi dei pattern di impiego dei vari segmenti che seguono le stesse leggi individuate nella formazione del linguaggio umano.

Una è la legge di Zipf (teorizzata da un linguista americano negli anni Trenta del secolo scorso), che mostra come le parole più diffuse in una lingua si presentino statisticamente più spesso delle altre secondo una proporzione precisa: la parola più diffusa si ripete il doppio delle volte rispetto alla seconda, tre volte rispetto alla terza, e così via. Questo significa che imparando le parole più diffuse di una lingua si può seguire un dialogo senza troppa difficoltà. Ebbene, il pattern descritto dalla legge di Zipf si riscontra sia nei linguaggi umani (tutti quelli conosciuti, che sono migliaia), sia nei canti delle megattere. E c’è anche un’altra legge – anch’essa teorizzata dal linguista George Zipf – che afferma che le unità più brevi in un linguaggio sono le più diffuse, e si applica ad entrambe queste forme di comunicazione.

Sarebbe azzardato dedurre da queste somiglianze che il linguaggio umano e le forme di comunicazione delle megattere (ma anche di altri animali che producono canti complessi, come molte specie di uccelli) siano simili, o addirittura sovrapponibili: come abbiamo detto, gli esperti ritengono che questi canti non veicolino un significato simbolico specifico. Eppure, questi risultati potrebbero dirci qualcosa su di noi, e sulla rappresentazione che abbiamo del nostro posto nella natura. Lo sottolineano gli autori a conclusione del loro articolo: «Questi risultati evocano l’affascinante possibilità di trovare una struttura statistica simile ovunque vi sia trasmissione culturale di un comportamento sequenziale complesso, e suggeriscono che per comprendere l’evoluzione del linguaggio possa essere utile concentrarsi non solo sui primati più vicini a noi, ma anche su casi di evoluzione convergente presenti altrove in natura. A tal fine, possiamo considerare non solo le funzionalità immediate del linguaggio, come la trasmissione di informazioni semantiche, ma anche il modo in cui il linguaggio viene appreso e trasmesso culturalmente tra generazioni. Il nostro linguaggio, considerato un tempo il segno distintivo dell’unicità umana, potrebbe avere alcuni caratteri fondamentali condivisi da varie specie».

2. I bonobo lo sanno, se non lo sai

Che una facoltà a lungo ritenuta unicamente umana esista anche altrove nel mondo naturale lo conferma un altro studio, comparso sulla rivista «PNAS», che si concentra su una specie che, a differenza delle megattere, è una nostra vicinissima parente evolutiva: i bonobo (Pan paniscus). Il firmatario senior della ricerca è l’antropologo statunitense Chris Krupenye, il quale, nel 2016, aveva contribuito a dimostrare per la prima volta che la “teoria della mente” – la capacità di intuire che anche altri individui hanno una mente e di immaginare quali siano i loro pensieri, obiettivi e desideri – non è una prerogativa umana, ma un tratto condiviso anche dalle scimmie antropomorfe. Con un esperimento i cui risultati sono stati presentati nel 2025 su «PNAS», Krupenye e il ricercatore Luke Townrow hanno dimostrato che i bonobo hanno una teoria della mente molto sofisticata, dal momento che si sono mostrati capaci di comprendere se un essere umano fosse in una condizione di conoscenza o ignoranza rispetto a un determinato fatto.

Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno sviluppato un esperimento in cui si chiedeva a un bonobo di guidare un umano a ritrovare un boccone di cibo nascosto, che sarebbe diventato la ricompensa della scimmia per lo sforzo collaborativo. Il bonobo in questione osservava un secondo essere umano che, in alcuni casi di fronte allo sguardo del primo ricercatore e in altri casi tenendo quest’ultimo all’oscuro della posizione del premio, nascondeva il cibo sotto uno dei tre bicchieri disposti su un tavolo. A quel punto la predizione era che il bonobo sarebbe intervenuto per aiutare l’umano tutte le volte in cui quest’ultimo non avesse potuto vedere dove il cibo era stato posizionato. Questa predizione è stata confermata: quando l’umano sapeva dove fosse il cibo, il bonobo si limitava ad aspettare che questo venisse scoperto e a lui consegnato; quando l’umano era “ignorante”, il bonobo si prodigava per condividere con lui la propria conoscenza.

Questo comportamento non conferma solo che i bonobo (come le altre scimmie antropomorfe) hanno una teoria della mente, ma ne descrive nel dettaglio l’elevato livello di sofisticazione: i tre bonobo coinvolti nell’esperimento si sono dimostrati in grado di inferire gli stati mentali dell’altro (conoscenza o ignoranza rispetto alla posizione del cibo), e anche di usare quest’abilità per comunicare e coordinarsi con altri individui. Inoltre, i tre sono stati in grado di tenere a mente e coordinare due opposte rappresentazioni del mondo: una, coincidente con la realtà fattuale, che permetteva loro di ricordare dove il cibo fosse nascosto, e un’altra, non corrispondente alla realtà, che coincideva con lo stato d’ignoranza del partner sperimentale umano.

3. Rompere gli schemi delle differenze

Quelli descritti sono solo un campione esemplificativo di un amplissimo insieme di ricerche che stanno dimostrando, un’evidenza dietro l’altra, come quei caratteri che ritenevamo indicativi della nostra unicità nella natura – e che quindi hanno sostenuto molte delle prospettive filosofiche che teorizzano un’insuperabile dicotomia tra noi umani e gli altri esseri viventi, che sarebbero meno complessi e dunque inferiori a noi – siano in realtà comuni al mondo naturale.

Queste scoperte stanno facendo crollare il muro ideologico della nostra superiorità, che soprattutto noi occidentali abbiamo eretto, nel corso di centinaia (forse migliaia) di anni, per giustificare la nostra depredazione del mondo naturale. Essa non ha mai avuto una giustificazione morale, e ora non ne ha più neanche una “naturale”.

Sofia Belardinelli

Sofia Belardinelli è dottoressa di ricerca in etica ambientale all’università “Federico II” di Napoli. È Contributing Author e Research Fellow per il settimo Global Environment Outlook dell’UNEP. Attualmente, è ricercatrice post-dottorale per il National Biodiversity Future Centre all’università di Padova. È giornalista scientifica e collabora con diverse testate, tra cui Il Bo Live, Micromega, Il Corriere della Sera e Il Tascabile. Si occupa di temi quali crisi ambientale, biodiversità e giustizia ambientale, ma anche di questioni sociali e di attualità.

Contenuti Correlati