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Agnese Codignola
Tutti amano i pangolini a colazione

Tutti Amano I Pangolini A Colazione Uroboro Pangolini Web ©kang Chun Cheng
biologia natura politica Scienza

Ci sono animali che possono diffondere patogeni in ogni momento, eppure nel mondo continuano a essere contrabbandati e venduti. Ma solo se si tracciano le carni si possono monitorare i rischi sanitari.

L’inquadratura riprende solo le mani e una parte di una maglietta verde con la scritta pangolin. In primo piano c’è un pangolino. Di chi lo tiene in braccio non si conosce il nome né l’ubicazione esatta del suo luogo di lavoro, il che potrebbe sembrare strano visto che la foto è uscita nella rubrica Dove lavoro di Nature. Ma quel ragazzo potrebbe essere ucciso, se si venisse a sapere chi è, e lo stesso potrebbe capitare ai pangolini. Si sa solo che l’oasi protetta è in Zambia. La sua missione è semplice: curare gli esemplari feriti dai bracconieri e salvarne dall’estinzione quanti più possibile.

Fino a prima della pandemia molte persone, in occidente, non avevano mai neppure sentito nominare questi particolarissimi mammiferi, frutto di 80 milioni di anni di evoluzione, gli unici ricoperti di scaglie, protagonisti di varie medicine tradizionali e considerati squisitezze da numerose culture gastronomiche asiatiche e africane. Si ipotizzò che potessero essere loro la specie-serbatoio nella quale il coronavirus Sars-CoV 2, arrivando dai pipistrelli, si era stabilito, per poi mutare e diventare infettivo per l’uomo. Il passaggio sarebbe potuto avvenire nel wet market di Wuhan, dove di pangolini se ne vendevano a decine ogni giorno, vivi e morti.

Indagini successive hanno scagionato i pangolini. Ma poiché già allora tutte e otto le specie note figuravano stabilmente nella Red List dell’International Union for the Conservation of Nature (IUCN), che segnala gli animali a rischio estinzione, ci furono grandi proclami sul fatto che, a prescindere dallo spillover del coronavirus, i pangolini non sarebbero stati più venduti a scopi alimentari o farmaceutici. La Cina ne vietò ufficialmente il commercio per utilizzi alimentari nel 2020, permettendone solo uno, limitato, delle preziose scaglie a scopi medici. 

Purtroppo, passata la pandemia, molteplici indizi suggeriscono che, in realtà, poco o nulla sia cambiato. Tra questi i frequenti ritrovamenti di pangolini in Vietnam, lungo la frontiera con la Cina, dove operano santuari simili a quello dello Zambia. I rischi sono evidenti, e sono stati confermati in numerosi studi condotti a partire dall’epidemia di Sars-CoV1 sviluppatasi in Cina nel 2002, e poi da quella di MERS (Middle Est Respiratory Syndrome), la malattia simile al Covid 19 provocata dal coronavirus del Medio Oriente (MERS-CoV), identificato nel 2012 in Arabia Saudita: dei 246 esemplari confiscati tra il 2015 e il 2018 in quelle zone, sette erano stati infettati da un coronavirus, e non mostravano alcun sintomo. Se non fossero stati sequestrati sarebbero finiti in qualche mercato, dove avrebbero potuto trasferire i propri virus, in versione originale oppure mutata, a qualche altra specie. 

In generale, i coronavirus che albergano nei pangolini hanno un DNA che è identico al 92% a quello di Sars-CoV2, e comprendono spesso quello responsabile della MERS, forma più grave del Covid 19, con una mortalità attorno al 30% dei contagiati. Ogni giorno, in migliaia di wet market in tutto il mondo, i rischi di spillover sono molto elevati. Ma pangolini, come pipistrelli, civette delle palme, cani procione, serpenti, ratti e decine di altre specie che a un occidentale dicono poco come pietanza, per quattro miliardi di persone rappresentano una fonte essenziale di proteine, talvolta l’unica accessibile. Per questo il commercio, inesorabilmente, prosegue. 

Guarda caso, secondo un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità reso noto a fine giugno, frutto di cinque anni di lavoro, l’ipotesi più solida e convincente dello spillover di Sars-CoV2 è proprio il wet market di Wuhan e il suo commercio di carni non controllate (mentre quella dell’incidente di laboratorio è estremamente improbabile, anche se non può essere del tutto esclusa a causa della reticenza della Cina nel fornire informazioni e campioni).

Per comprendere l’importanza che può avere quella che viene generalmente chiamata bushmeat o wildmeat in sistemi alimentari come quello cinese, ma anche di molti paesi africani, basta leggere l’articolo di Nature Ecology & Evolution sulla Nigeria, principale hub per il commercio africano di pangolini (stando solo ai sequestri ufficiali, tra il 2010 e il 2021 sono stati uccisi circa 800.000 esemplari, per un totale di 190 quintali di carne). 

Una volta catturati, il 98% delle loro carni, che in Africa costa 3-4 volte di più delle scaglie, viene destinato al consumo. Sono infatti considerate una prelibatezza, e per di più dotata di virtù terapeutiche come quella di proteggere la gravidanza.

Tra il 2021 e il 2023 un gruppo di ricercatori dell’università di Cambridge ha cercato di capire meglio il fenomeno, accompagnando ottocento tra cacciatori di frodo e commercianti in tre zone note per gli scambi, nella regione della Cross River Forest, nella quale si stima vengano uccisi circa 21.000 pangolini all’anno. L’assortimento di bracconieri e biologi non deve stupire, perché solo recandosi nei luoghi dove si svolge la caccia si può avere un quadro completo e realistico della situazione, e i ricercatori ne sono consapevoli. Inoltre perché si cerca di rispettare la cultura locale e di lavorare con chi spesso non ha alternative per giungere a forme di approvvigionamento diverse, o fornire modelli differenti di sostentamento economico, o anche solo alimentare.

I ricercatori britannici, grazie alle missioni sul campo, ha scoperto che il 97% degli esemplari viene catturato in modo definito opportunistico, cioè durante generiche battute di caccia: compito banale, visto che i pangolini, quando si sentono minacciati, si bloccano e si arrotolano, e quasi sempre cacciarli significa raccoglierli. Una volta catturati, il 98% delle loro carni, che in Africa costa 3-4 volte di più delle scaglie, viene destinato al consumo. Sono infatti considerate una prelibatezza, e per di più dotata di virtù terapeutiche come quella di proteggere la gravidanza.

Del resto, i cacciatori, sottoposti a un questionario in cui si proponevano cento tipi di carne dalle più stravaganti (per gli occidentali) a quelle più ovvie come il pollo, hanno confermato che le persone amano i pangolini a colazione: le tre specie presenti in zona hanno ricevuto valutazioni altissime, che le hanno proiettate in cima alla top 100. Difficile pensare di scalfire un simile radicamento culturale. Oltretutto, la situazione in Camerun e in Gabon sarebbe del tutto simile a quella della Nigeria.

I pangolini, però, sono solo una delle decine di specie contrabbandate che, maneggiate senza alcun tipo di precauzione, possono diffondere patogeni. Lo ha testimoniato di recente anche la giornalista Jane Qiu, su Nature, in un articolo che illustra alcuni studi simili a quelli di Cambridge realizzati in varie parti del mondo (citato da Telmo Pievani, peraltro, nella newsletter “Una balena mi disse” del 29 giugno). Per esempio, Qiu ha raccontato la storia di Jusuf Kalengkongan, un biologo comportamentale indonesiano, che ha trascorso diversi mesi tra i cacciatori di pipistrelli nella parte meridionale dell’isola, descrivendo alcuni comportamenti tradizionali pericolosissimi, dal punto di vista degli spillover, come maneggiare le carni crude e trasportarle per giorni senza alcun tipo di protezione.

I cacciatori si ammalano spesso di febbri misteriose, di solito dopo essere stati graffiati o morsi dai pipistrelli, ma non si curano mai negli ospedali, rendendo impossibile identificare il patogeno. E anche le prede si ammalano, ma di solito i cacciatori le mangiano lo stesso, oppure tentano di venderle, magari in un mercato lontano da casa. Nessuno si rivolge mai alle autorità sanitarie, per timore delle possibili conseguenze legali. Si perdono così occasioni preziose di tracciamento, sequenziamento e identificazione degli ospiti che sarebbe molto meglio cogliere, perché dei pipistrelli sappiamo ancora pochissimo. 

Secondo uno studio pubblicato su PLoS Pathogens a giugno, l’analisi di 142 esemplari di dieci specie della frutta, condotta per quattro anni nello Yunnan, in Cina, ha portato i ricercatori a descrivere 22 virus, venti dei quali mai visti prima, e pericolosamente simili agli henipavirus Hendra e Nipah, due patogeni mortali per l’uomo. Tuttavia, convincere chi li caccia a rivolgersi alle autorità almeno in caso di fenomeni sospetti o malattie è una sfida.

Lo si vede benissimo in Africa occidentale, dove tra il 2014 e il 2016 il commercio di carni selvatiche è stato severamente vietato per cercare di contenere la diffusione di Ebola, sulle cui origini non ci sono ancora certezze, nonostante i molti spillover studiati. Anche lì, dopo anni, la diffidenza è ancora predominante, e allontana chi vive di carne di animali selvatici dai ricercatori e dai medici. Per questo, sostengono diversi esperti, è proprio dalla fiducia che bisogna partire, se si vogliono trovare soluzioni efficaci e applicabili, senza pensare di obbligare intere popolazioni a cambiare radicalmente abitudini alimentari. Lo sottolinea anche un rapporto che adotta il punto di vista di chi, appunto, quelle carni le consuma per sopravvivere. 

In almeno una sessantina di paesi, la wildmeat rappresenta ancora oggi il 20% delle proteine animali assunte, perché non esistono alternative accessibili. Questo consumo è la causa del collasso di diverse specie, e del rischio di estinzione di altre come i pangolini.

Innanzitutto, scrivono, bisogna partire dalle cifre: il commercio globale di carni selvatiche assicura un miliardo di dollari di guadagno all’anno in Africa, tra gli otto e gli undici nel Sud Est asiatico. In Cina i miliardi sono 74, ma arrivano soprattutto da allevamenti di specie che altrove si cacciano: una rappresentazione plastica delle potenzialità di un approccio diverso, come vedremo. 

Continuando con qualche numero, in media un cacciatore africano consuma 38 chili di wildmeat all’anno, un agricoltore 16. Nella stessa Africa, però, il consumo di carni da allevamento tradizionale è di 16,7 kg pro-capite: in altre parole, i due tipi di fonti proteiche si equivalgono, all’incirca. In almeno una sessantina di paesi, la wildmeat rappresenta ancora oggi il 20% delle proteine animali assunte, perché non esistono alternative accessibili. Questo consumo è la causa del collasso di diverse specie, e del rischio di estinzione di altre come i pangolini.

Tuttavia, da altri punti di vista, è anche – paradossalmente – positivo, perché assicura un fondamentale differenziamento delle fonti proteiche: le specie allevate in modo industriale nel mondo non sono più di una ventina, quelle cacciate e consumate nella sola Africa sono più di 500, e nel Sud Est asiatico circa 300. Se si cessasse di consumare la wildmeat, si dovrebbe produrre carne da allevamento per ulteriori quattro miliardi di persone, con conseguenze inimmaginabili (secondo alcune stime, ci vorrebbero non meno di 124.000 ulteriori chilometri quadrati da destinare all’agricoltura intensiva). Il problema non sono dunque le specie in quanto tali, ma le modalità con le quali arrivano nei mercati e sulle tavole. 

Per questo il provvedimento più importante è trovare e proporre fonti alternative di proteine animali, quando non si riesce a introdurre quelle vegetali, e poi far uscire dall’illegalità il commercio di wildmeat, aiutando i piccoli allevatori e rivenditori a seguire alcune regole. Anche perché i divieti non servono, come dimostra quello emanato nel 2022 in Nigeria per cercare di contenere l’epidemia di mpox, il vaiolo delle scimmie la cui trasmissione passa anche dalle carni infette. Non solo non è stato recepito, ma ha alimentato il commercio sommerso, che oggi corre anche sul web, e infatti le epidemie di mpox continuano a dilagare in tutta l’Africa Centro-Occidentale.

Per quanto riguarda le fonti di proteine, alcune delle specie cacciate, tra cui numerosi tipi di roditori come i capibara (Hydrochoerus hydrochaeris), la tilapia del Nilo (Oreochromis niloticus), il pesce gatto africano (Clarias gariepinus), diverse specie di serpenti e poi conigli e maialini selvatici, per citare solo alcuni esempi, possono essere allevate con impatti ambientali contenuti, perfino a livello familiare: è anche così che in Cina si arriva a 74 miliardi. Ed è quindi ai piccoli allevamenti che bisogna puntare. Sostenere economicamente i bracconieri affinché abbandonino la caccia di frodo e vi si dedichino, del resto, sembra funzionare anche in paesi diversi dalla Cina, come si vede nelle realtà che stanno iniziando a farlo.

Una di queste, descritta nel rapporto, è quella della provincia vietnamita di Dong Thap, dove la caccia alla wildmeat era una tradizione antica. Lì nel 2021, nell’ambito di un progetto pilota, è stata finanziata la creazione di piccoli allevamenti di civette delle palme, coccodrilli, tartarughe e serpenti, tra gli altri, e ne è stato organizzato il commercio legale, con risultati già evidenti. Al contempo gli esperti (24 quelli coinvolti a Dong Thap) hanno potuto tenere sotto controllo le infezioni acute e quelle silenti, monitorare il territorio e le pratiche agricole, le specie protette e la commercializzazione di quelle permesse.

L’anello debole, anche qui, sono i tracciamenti, i controlli, il rispetto delle norme igienico-sanitarie, che diventano carta straccia pur di far arrivare carne a buon mercato nei mercati più ricchi e famelici. 

E poi ci sono paesi in cui non si mangiano pangolini né serpenti, ma si tollerano pratiche illegali che spesso hanno conseguenze catastrofiche, a cominciare dall’economia. L’anello debole, anche qui, sono i tracciamenti, i controlli, il rispetto delle norme igienico-sanitarie, che diventano carta straccia pur di far arrivare carne a buon mercato nei mercati più ricchi e famelici. 

Un caso esemplare degli ultimi anni è quello della vastissima area che va da Panama agli Stati Uniti, dove è tornata la mosca assassina o carnivora del Nuovo Mondo (Cochliomyia hominivorax), eradicata da anni. Le sue larve si insinuano nelle più piccole abrasioni e si nutrono di sangue e carne, per poi cadere a terra e diventare mosche le cui femmine, nelle loro tre settimane di vita, depongono circa tremila uova, e altrettante larve pronte a colpire. 

Gli Stati Uniti erano stati dichiarati liberi dalla mosca assassina nel 1966, ma nel 2023 le larve sono tornate prima a Panama, con un picco di infezioni ai confini con il Costa Rica. Poi, nell’ottobre del 2024, in Messico e in Guatemala, paesi che avevano dichiarato l’eradicazione rispettivamente nel 1991 e nel 1992. E da lì sono arrivate negli Stati Uniti. Per questo ora è partita una grande operazione di produzione di miliardi di maschi di mosche resi sterili con le radiazioni, che saranno letteralmente paracadutati con lo scopo di farli accoppiare con le femmine e far nascere uova non fecondate. Negli anni Cinquanta questa strategia è stata vincente, e si spera che possa esserlo di nuovo. 

Ma ciò che è interessante è la causa del ritorno delle larve mangiacarne: secondo gli osservatori, la colpa è del commercio illegale di bovini e altri animali tra il Centro e il Sud America, denunciato già nel 2022 in un’inchiesta del sito investigativo Insight Crime e da organizzazioni come World Organization for Animal health. In effetti, queste mosche volano al massimo per una decina di chilometri, mentre i focolai sono esplosi in pochi mesi lungo una linea lunga centinaia di chilometri, che ricalca fedelmente quella delle strade percorse dai camion che attraversano diversi paesi, in nessuno dei quali gli animali malati vengono adeguatamente individuati e fermati.

Anche a quelle latitudini, però, quel commercio sostiene migliaia di allevatori e trasportatori, e pensare di stroncarlo a suon di divieti, come hanno fatto gli Stati Uniti nei mesi scorsi (salvo poi ritirare il bando alla carne messicana poche settimane fa) è quantomeno ingenuo. L’approccio proposto nel rapporto della FAO potrebbe portare anche qui a risultati tangibili, se ci fosse quella volontà di collaborazione che in questo momento sembra in via di estinzione come i pangolini, ma senza la quale nessun provvedimento su questo genere di problemi potrà mai funzionare davvero.

Qualche mese fa ho parlato con David Quammen, autore del profetico (per chi non seguiva ciò che da anni segnalavano gli esperti, del tutto inascoltati) Spillover, a proposito del rischio più grave, secondo tutti gli osservatori, associato al cibo, quello dell’aviaria. Il virus continua a dilagare e nei mesi scorsi, per la prima volta, ha infettato bovini da latte negli Stati Uniti, con ingenti danni economici, e contromisure per il momento assai timide.

Sul perché si sia fatto così poco sui wet market e in generale sul commercio illegale di carne, Quammen è stato icastico: “Politica e denaro”, mi ha detto. E sul mancato sostegno alla piena realizzazione di reti di vigilanza globale è stato altrettanto drastico, e nuovamente profetico, visto che in quel momento Donald Trump non aveva ancora vinto le elezioni. “Alcuni politici sostengono che si dovrebbe interrompere la sorveglianza degli animali selvatici (rispetto ai virus che possono ospitare), perché sarebbero proprio queste pratiche ad aver condotto alla pandemia. Non c’è alcuna prova di ciò. Ma tanto basta per ostacolare la ricerca e la prevenzione”, mi ha detto. “Nessun progetto di questo tipo potrà avere successo finché non avremo una migliore comprensione e apprezzamento della scienza da parte del pubblico, e un opportunismo meno pernicioso da parte dei leader politici. Se si vive in una democrazia, si può votare per questo”.

Com’è andato il voto nella sua, di democrazia, è noto. Purtroppo, i miasmi dell’approccio antiscientifico sono arrivati anche da questa parte dell’Atlantico, trovando terreno fertile in provvedimenti discutibili e di solito non basati sulla scienza, ma su opinioni. Il crollo dei finanziamenti statunitensi ha bloccato numerosi progetti, e gli studi sono al palo in tutto il mondo. Fino al prossimo spillover.

L’immagine in copertina è della fotografa Kang-Chun Cheng

Agnese Codignola

Agnese Codignola è scrittrice e giornalista scientifica con un passato da ricercatrice. Il suo ultimo libro è Alzheimer S.p.A. Storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è (Bollati Boringhieri, 2024).

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