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Enrico Bucci
CRISPR, la bacchetta magica della biologia molecolare

Crispr, La Bacchetta Magica Della Biologia Molecolare Bucci Cover
biologia chimica tecnologia

Nata come sistema immunitario, oggi è una tecnologia che permette di riscrivere il DNA con precisione chirurgica, e le sue applicazioni trasformano medicina, agricoltura e ricerca.

Immaginiamo di prendere in mano il testo del DNA come fosse un libro e di correggerlo, non in astratto su una pagina, ma direttamente nelle cellule vive, lettera per lettera, scegliendo con precisione dove sostituire una base con un’altra. Questo, che per decenni è rimasto un sogno della biologia, significherebbe poter cancellare mutazioni che causano malattie ereditarie, introdurre resistenze in piante e animali, costruire modelli sperimentali fedeli per capire i meccanismi della vita. La domanda è stata sempre la stessa: esiste un modo semplice, preciso e universale per scrivere dentro il genoma? Per molto tempo la risposta è stata negativa, perché gli strumenti a disposizione erano complessi, costosi e limitati. Poi, osservando un meccanismo naturale inventato dai batteri per difendersi dai loro virus, si è capito che la soluzione c’era già: bastava imparare a usarla. Quell’invenzione dell’evoluzione, chiamata CRISPR, è diventata la chiave che ci consente di trasformare un sogno in una prassi. 

Ma partiamo dall’inizio.

Quando i biologi cominciarono a leggere con metodo il DNA dei batteri, trovarono una trama che non si aspettavano: file ordinate di corte sequenze di basi ripetute, ciascuna separata dalle altre da un inserto diverso di DNA. Era un disegno regolare dentro una struttura che di solito appare imprevedibile, quanto alla sequenza delle basi. La domanda venne naturale: perché nei genomi di tanti microrganismi si osservano sempre gli stessi frammenti di DNA, intervallati con pezzi variabili? A distanza di anni sappiamo che queste strane strutture nel genoma dei batteri sono nei fatti un diario delle infezioni subite, scritto direttamente nel linguaggio del DNA. E quel diario ha un nome, diventato familiare anche fuori dai laboratori: CRISPR.

Per capire perché quell’archivio funziona, conviene chiarire i termini di base. Chiameremo “sequenza” l’ordine preciso dei componenti elementari del DNA, le quattro basi azotate A, C, G, T, disposte lungo i due filamenti della doppia elica. Una sequenza non è un elenco astratto: la sua identità è data dalla posizione di ogni lettera e dall’abbinamento con il filamento complementare, perché, in DNA, A si appaia con T e C con G. In questo contesto si parla spesso di “palindromo”. Nel linguaggio comune, un palindromo è una parola o una frase che si legge allo stesso modo in avanti e indietro. Nel DNA una sequenza è detta palindromica quando, letta in una direzione su un filamento e nella stessa direzione sul filamento complementare, è identica. Questa identità crea punti di attracco per proteine che devono agganciarsi a entrambi i filamenti in modo controllato.

La storia di CRISPR comincia in modo dimesso, con una nota a margine. Alla fine degli anni Ottanta, analizzando il genoma di Escherichia coli, alcuni ricercatori segnalarono la presenza di brevi ripetizioni palindromiche raggruppate e separate da sequenze variabili. Erano lì, ma nessuno sapeva a cosa servissero. Negli anni Novanta, studiando microrganismi marini, Francisco Mojica e colleghi notarono che lo stesso schema ricorreva in molte specie e che i tasselli variabili di DNA separati dai palindromi, chiamati “spaziatori”, assomigliavano a pezzi di DNA provenienti da virus dei batteri, i fagi, o da plasmidi, piccole molecole circolari che portano geni mobili. A inizio Duemila furono ribattezzati con il nome che portano ancora oggi: Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats (CRISPR), cioè “brevi ripetizioni palindromiche raggruppate e regolarmente intervallate”. L’ipotesi si fece via via più concreta: quelle righe erano un archivio, ogni spaziatore era il ricordo di un’invasione genetica, conservato tra due ripetizioni identiche che fungevano da punteggiatura.

Un archivio però, da solo, non basta. Bisogna leggerlo e usarlo. Qui entra in gioco la parte proteica del sistema, un insieme di enzimi chiamati Cas (CRISPR-associated). Il loro lavoro si può dividere, per chiarezza, in tre fasi che la ricerca ha ricostruito una dopo l’altra.

La prima è l’“acquisizione”: quando un batterio sopravvive a un’aggressione virale, una coppia di proteine, tra cui Cas1 e Cas2, ritaglia un frammento del genoma invasore e lo inserisce come nuovo spaziatore all’estremità della serie CRISPR. In questo modo l’archivio cresce, e l’ultima infezione rimane registrata per prima.

La seconda è l’“espressione”: il tratto di DNA CRISPR viene trascritto in RNA, cioè copiato in un filamento che conserva l’informazione del DNA ma è fatto per essere usato. Da questo lungo RNA si ottengono piccoli frammenti maturi, ciascuno corrispondente a uno spaziatore.

La terza è l’“interferenza”: i piccoli frammenti maturi, detti guide, si associano a uno degli enzimi Cas, i quali tagliano il DNA, rendendolo in grado di legare e tagliare il DNA virale corrispondente alla sequenza CRISPR memore della passata esposizione allo stesso virus. Se un genoma intruso, per esempio quello di un fago, contiene una sequenza uguale a quella memorizzata nello spaziatore, l’enzima taglia e l’infezione si spegne prima di decollare.

“Esiste un modo semplice, preciso e universale per scrivere dentro il genoma? Per molto tempo la risposta è stata negativa, poi, osservando un meccanismo naturale inventato dai batteri per difendersi dai loro virus, si è capito che la soluzione c’era già”.

Questa è l’idea generale. In natura, però, CRISPR non è uno solo: ne esistono diversi “tipi” e “sistemi” che usano architetture proteiche differenti. Quello che ha segnato la tecnologia moderna è il tipo che impiega Cas9, una proteina che ha in sé la capacità di riconoscere il punto giusto e di praticare un taglio netto in entrambi i filamenti del DNA. Cas9 non agisce da sola. In alcune specie lavora con due piccoli RNA complementari, uno derivato dallo spaziatore (crRNA) e un secondo, detto tracrRNA, che fa agente strutturante; in laboratorio queste due componenti si combinano in un unico RNA guida, più facile da maneggiare. C’è un altro dettaglio fondamentale: Cas9 non taglia ovunque, ma soltanto vicino a un breve segnale chiamato PAM, “protospacer adjacent motif”. Un PAM è una minuscola sequenza caratteristica del DNA estraneo – per la varietà di Cas9 più usata nei laboratori basta un “NGG”, cioè qualsiasi base seguita da due G – che serve all’enzima per distinguere il bersaglio dall’archivio CRISPR presente nel genoma batterico. Senza un PAM valido, Cas9 non si attiva: è un accorgimento che la natura ha messo per evitare che il sistema si rivolga contro la cellula che lo ospita, cioè contro il DNA nel quale è conservata la memoria genetica del virus bersaglio.

Fino a questo punto restiamo nell’ambito della difesa microbica. Il passaggio dalla biologia alla tecnologia avvenne quando, in un esperimento decisivo, si dimostrò che cambiare il contenuto dello spaziatore cambiava anche il bersaglio del taglio, conferendo resistenza contro fagi specifici. Era la prova che CRISPR non era un ornamento genetico, ma un sistema immunitario a tutti gli effetti, basato su memoria e riconoscimento. Da lì in avanti si trattò di capire se lo stesso meccanismo potesse essere “riprogrammato” per puntare a un tratto qualsiasi di DNA, anche in organismi che non hanno CRISPR.

Una volta identificate le componenti minime – una proteina Cas9 e un RNA guida sintetico – la riprogrammazione divenne possibile. Se fornisci a Cas9 un RNA guida che contiene, al suo interno, venti basi complementari a un punto preciso del genoma bersaglio che ti interessa, e se quel punto è affiancato da un PAM compatibile, l’enzima si posiziona lì e taglia. A taglio avvenuto, entra in gioco la fisiologia della cellula. Una rottura a doppio filamento è un danno grave, che le cellule riparano con due strategie. La prima, la giunzione non omologa delle estremità (NHEJ), è veloce e spesso imprecisa: ricuce le due estremità ma può aggiungere o togliere qualche base, introducendo piccole mutazioni che spostano la cornice di lettura o inattivano il gene. La seconda, la riparazione per ricombinazione omologa (HDR), usa uno stampo: se fornisci insieme a Cas9 una breve sequenza di DNA per funzionare da stampo contenente le modifiche desiderate e con regioni ai lati uguali a quelle del bersaglio, la cellula può copiare da quello stampo e inserire la modifica. Da una parte, dunque, si ottiene un interruttore per spegnere geni in modo affidabile, dall’altra si apre la strada alla correzione puntuale del DNA.

A riprova dell’efficacia del sistema, pochi mesi furono sufficienti perché diversi gruppi di ricerca mostrassero di poter orchestrare il taglio del DNA in cellule animali e vegetali. È in quel momento che CRISPR uscì dalla nicchia della microbiologia e divenne uno strumento generale per tutta la biologia. La semplificazione fu decisiva: non servivano più proteine progettate ad hoc come le nucleasi a dita di zinco o le TALEN, bastava un’unica proteina e un RNA guida facile da cambiare. La barriera d’ingresso si abbassò, la velocità degli esperimenti aumentò e interi programmi di ricerca si riconfigurarono su questa base.

Intorno al nucleo di Cas9 si è costruita, negli anni successivi, una famiglia di strumenti pensati per migliorare precisione e versatilità. Alcuni problemi emersero presto e vennero affrontati uno per uno. Gli “effetti off-target”, cioè tagli in siti simili ma non identici al bersaglio, derivano dal fatto che l’enzima tollera piccoli disallineamenti: ridurli ha richiesto varianti di Cas9 con fedeltà aumentata, guide più corte e condizioni di reazione controllate. La dipendenza dal PAM limita i punti accessibili del genoma: per aggirarla si sono selezionate o ingegnerizzate versioni di Cas9 con PAM alternativi, e si sono adottate proteine di altri sistemi, come Cas12a (in origine chiamata Cpf1), che riconosce segnali diversi e produce tagli sfalsati, utili in alcune applicazioni. La possibilità di intervenire non solo sul DNA ma anche sull’RNA è arrivata con Cas13, un enzima che, guidato da un RNA, taglia altri RNA: uno strumento che consente, per esempio, di spegnere temporaneamente messaggi senza toccare il genoma.

A un certo punto è maturata un’idea semplice e potente: se l’effetto indesiderato principale è la rottura della doppia elica, si può evitare di romperla? Così sono nati i “base editor”, costruiti fondendo una versione attenuata di Cas9 – una “nickasi” che incide un solo filamento e non entrambi – con un enzima in grado di convertire una base in un’altra. Un esempio tipico è l’uso di una deaminasi che trasforma la citosina (C) in uracile, poi letto e fissato come timina (T) dalla cellula: è come riscrivere una lettera della sequenza genetica senza mai spezzare il DNA in due. Varianti successive permettono la conversione A→G, coprendo la grande maggioranza delle mutazioni puntiformi umane. La precisione qui non dipende più da un riparo impreciso del danno, ma da una chimica mirata, limitata a una “finestra” di poche basi sotto la guida di Cas9.

Un passo ulteriore è il “prime editing”, che usa ancora una nickasi, ma la fonde a una piccola trascrittasi inversa, un enzima che sa scrivere DNA copiando un RNA. La guida, in questo caso, è più lunga e contiene non solo la sequenza che porta Cas9 sul punto giusto, ma anche un tratto che funge da stampo per la riscrittura: la cellula viene convinta a sostituire il pezzo esistente con quello proposto, senza rotture a doppio filamento e senza bisogno di fornire un intero DNA donatore separato. In pratica si programmano sostituzioni, cancellazioni o inserzioni di poche basi con un controllo che sfugge ai metodi basati su tagli netti.

Tutta questa ingegneria molecolare ha senso solo se si riesce a portare le componenti là dove servono. Anche qui conviene essere concreti sui termini. “Consegna” significa far entrare nelle cellule bersaglio, in un organismo vivente o in una coltura, sia la proteina Cas sia l’RNA guida, o i loro geni perché la cellula li produca. Esistono due strade principali. La prima è “ex vivo”: si prelevano per esempio cellule di un paziente con difetti genetici da correggere, si modificano in laboratorio e si reintroducono, come si fa, per esempio, con alcune cellule del sangue. La seconda è “in vivo”: si somministrano direttamente al paziente vettori che trasportano le istruzioni, come virus inattivati e riprogrammati per non replicarsi, o nanoparticelle lipidiche capaci di incapsulare l’RNA. La scelta non è indifferente: i virus hanno limiti di capienza e un profilo immunitario da considerare; le nanoparticelle sono neutre sul piano immunologico, ma devono superare barriere fisiche per raggiungere tessuti specifici. Sono problemi di chimica, fisica e fisiologia tanto quanto di biologia molecolare.

Il campo applicativo è diventato vasto. Nel giro di pochi anni CRISPR ha permesso di costruire modelli cellulari e animali con mutazioni precise, accelerando lo studio dei meccanismi di malattia; ha reso più rapide le ricerche su larga scala delle funzioni dei vari geni, in cui si spegne sistematicamente un gene per volta per osservare quali funzioni si alterano; ha dato strumenti per creare piante più resistenti, più adatte a condizioni climatiche difficili o più efficienti nell’uso di nutrienti, consentendo di ottenere coltivazioni a minor impatto ambientale e maggiore resa. In medicina, i programmi più avanzati lavorano dove la via ex vivo è praticabile, come per alcune malattie del sangue o del sistema immunitario, perché lì modificare cellule del paziente e reinfonderle evita parte delle complessità della consegna. In parallelo, l’attenzione verso la sicurezza è cresciuta: si è imparato a misurare gli off-target con tecniche sensibili, a minimizzare gli errori, a valutare con rigore i rischi di inserzioni casuali quando si usa la riparazione per ricombinazione.

“La potenza della tecnica non toglie nulla al dovere di misurare e controllare ogni variabile, perché sbagliare può comportare errori che possono, anche se non necessariamente, portare a conseguenze disastrose per la salute, e comunque a spreco di tempo e risorse nelle aree di applicazione diverse dalla medicina”.

Fin qui è tecnologia. Ma CRISPR rimane, prima di tutto, un capitolo dell’evoluzione che racconta una lunga guerra molecolare tra fagi e batteri. Ogni volta che un batterio cattura un nuovo spaziatore, aumenta le sue probabilità di riconoscere il nemico in futuro; ogni volta che un fago muta la sequenza del suo bersaglio o elimina un PAM, può sfuggire al riconoscimento. Da questa corsa agli armamenti sono nate anche “contro-armi” sottili: proteine virali anti-CRISPR che bloccano Cas9 o altre Cas, spengono il sistema o lo ingannano. Il risultato non è un vincitore definitivo, ma un equilibrio dinamico che produce innovazione genetica su entrambi i fronti. È un esempio concreto di come la pressione selettiva generi soluzioni raffinate, molto prima che noi ne capiamo il funzionamento.

Un altro aspetto evolutivo è la distribuzione del sistema: CRISPR è comune negli archea e in molti batteri, ma non universale. In certi ambienti, l’investimento in un archivio immunitario genetico paga; in altri, dove i virus sono diversi o le dinamiche ecologiche cambiano, può essere più vantaggioso puntare su altre difese. L’idea che la memoria immunitaria possa essere scritta nella stessa materia che definisce l’identità dell’organismo – il DNA – si colloca così accanto alla memoria adattativa dei vertebrati, fatta di anticorpi e linfociti. Due strategie distinte, stesso principio di fondo: ricordare e riconoscere.

Sul piano culturale, CRISPR ha introdotto nel linguaggio comune parole che un tempo erano riservate agli specialisti. “Guida”, “bersaglio”, “editing”, “base”, “prime”: termini che non indicano più solo fenomeni naturali, ma gesti progettati. Questo passaggio ha alimentato entusiasmi e timori. È importante distinguere con sobrietà. Il fatto di poter spegnere un gene in una coltura cellulare non autorizza scorciatoie nella cura delle persone; la possibilità teorica di modificare la linea germinale non implica che sia opportuno farlo. La potenza di CRISPR rende più stringente il lavoro di validazione sperimentale, la valutazione degli effetti collaterali, la discussione pubblica sui confini dell’uso. In questo senso non c’è nulla di eccezionale: ogni nuova tecnica medica chiede lo stesso rigore, solo che qui il gesto elementare – cambiare una lettera – ha un valore simbolico forte.

Tornando alle definizioni, conviene fissarne altre due, usate spesso con naturalezza ma non sempre spiegate. Il “tratto di DNA bersaglio” è la porzione esatta, lunga in genere venti basi, a cui l’RNA guida si appaia per complementarità. L’“appaiamento” è il processo fisico per cui basi complementari formano legami idrogeno e stabilizzano l’interazione; se le basi non combaciano, l’energia dell’interazione diminuisce e Cas9 resta più incerta. Il “margine di tolleranza” è il numero e la posizione degli errori che l’enzima accetta prima di rinunciare: ridurlo è il cuore delle varianti ad alta fedeltà. Il “donatore” per HDR è una breve molecola di DNA progettata con cura: ai lati contiene tratti identici al genoma del paziente, al centro la correzione desiderata, in modo che gli enzimi di riparo la riconoscano come stampo legittimo. Nella pratica, puntare alla HDR in cellule che si dividono poco è difficile, e per questo i base editor e il prime editing sono diventati così preziosi.

A completare il quadro, esiste un uso di CRISPR che non taglia e non riscrive, ma regola. Se si disattivano i siti catalitici di Cas9, si ottiene una proteina “morta” (dCas9) che si posiziona comunque sul DNA guidata dall’RNA, ma non incide. Fusa ad attivatori o repressori della trascrizione, dCas9 può potenziare o attenuare l’espressione di un gene in modo mirato, senza modificare la sequenza. Fusa a marcatori fluorescenti, può illuminare regioni del genoma in cellule viventi, mostrando in tempo reale come si muovono e si organizzano. È un promemoria importante: la stessa logica di indirizzamento può servire a scopi diversi, dal bisturi alla torcia, secondo l’accessorio molecolare che vi si aggancia.

La filigrana storica di questa vicenda merita un cenno, perché dice molto di come nasce una tecnologia. Si parte da osservazioni di dettaglio – ripetizioni e spaziatori in genomi batterici – accumulate per anni senza un uso immediato. Si prosegue con ipotesi coraggiose sulla funzione – memoria immunitaria – corroborate da confronti bioinformatici tra sequenze. Si arriva a un esperimento chiave in un microrganismo industriale, in cui cambiare spaziatori cambia resistenze. Poi tocca al lavoro di ricostruzione in provetta: si isolano componenti minime, si mostrano tagli programmabili con un RNA guida sintetico, si semplifica la biologia naturale in un sistema a due pezzi. Infine, si generalizza: cellule umane, piante, animali. In mezzo ci sono scelte tecniche che fanno la differenza – la scoperta e l’uso del PAM, il passaggio da due RNA a uno, l’ingegneria delle varianti – e un dialogo continuo tra microbiologia, chimica delle proteine, ingegneria genetica.

Non c’è stato un colpo di genio isolato, ma una catena. Microbiologi che hanno descritto per primi il fenomeno e proposto che gli spaziatori derivassero da DNA estraneo; genetisti e bioinformatici che hanno riconosciuto negli spaziatori la firma di fagi e plasmidi; biologi molecolari che hanno ricostruito il sistema in vitro e mostrato che con una singola guida si poteva orientare Cas9 a piacere; gruppi di ingegneria genetica che hanno tradotto la scoperta in protocolli robusti per cellule e organismi. In parallelo altri ricercatori hanno allargato la famiglia: Cas12a con tagli sfalsati e un PAM ricco in T, utile in regioni del genoma inaccessibili a Cas9; Cas13 diretto all’RNA, che ha inaugurato anche piattaforme diagnostiche capaci di rilevare sequenze con sensibilità alta senza amplificazioni complesse.

Se oggi il termine CRISPR evoca terapie, agricoltura di precisione e diagnostica rapida è perché, di fronte a un sistema costruito dall’evoluzione per un compito, la biologia moderna ha saputo isolare la regola generale: un indirizzo molecolare (l’RNA guida), una serratura (il PAM), una lama (l’endonucleasi). Da qui anche il perché di tante cautele. Ogni passaggio introduce variabili: la specificità dell’appaiamento, la scelta del PAM, la struttura del sito bersaglio, il tipo di cellula, il profilo immunitario del vettore, la via di riparo che prevale. La potenza della tecnica non toglie nulla al dovere di misurare e controllare ogni variabile, perché  sbagliare può comportare una base scambiata, una delezione inaspettata, un riarrangiamento cromosomico raro, ma possibile se si moltiplicano i tagli: errori che possono, anche se non necessariamente, portare a conseguenze disastrose per la salute, e comunque a spreco di tempo e risorse nelle aree di applicazione diverse dalla medicina.

Se ci chiediamo cosa resta, al netto dell’entusiasmo e della prudenza, la risposta è semplice: CRISPR ha reso concreto, quotidiano, un gesto che prima era eccezionale. Poter spegnere un gene in un giorno e leggere il risultato dopo una settimana ha cambiato il ritmo della ricerca di base; poter disegnare correzioni con margini di errore misurabili ha spinto verso clinica e agricoltura progetti che sembravano remoti; poter dirigere proteine su punti definiti del DNA ha dato al genoma non solo la statura di archivio, ma anche di spazio su cui intervenire con strumenti di regolazione. Tutto questo nasce da ripetizioni palindromiche regolarmente intervallate – da una punteggiatura – che la vita ha inciso nei suoi testi più antichi per ricordare gli assalti subiti. Noi abbiamo imparato a leggerla e, sempre meglio, a usarla.

Questa volta, la bellezza è quella non solo di una molecola, ma di un percorso, quello della conoscenza umana, che inestricabilmente lega curiosità anche per dettagli apparentemente irrilevanti e specialistici, conoscenza di base e sviluppo tecnologico, per poi arrivare a cure, agricoltura sostenibile e applicazioni utili a tutti.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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