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Enrico Bucci
Da luce solare a linfa vitale

Da Luce Solare A Linfa Vitale Bucci Cover
biologia chimica Scienza

La clorofilla regala alle piante il loro meraviglioso colore verde ed è la protagonista della fotosintesi. Senza questa macchina molecolare, la vita sulla Terra come la conosciamo non esisterebbe.

Clorofilla: un nome che tutti conosciamo fin dai tempi della scuola. È il pigmento verde delle foglie, protagonista della fotosintesi – quel processo con cui le piante “mangiano” aria, acqua e luce per produrre zuccheri e ossigeno. Sappiamo insomma a cosa serve la clorofilla, ma forse non ci siamo mai resi conto di quanto sia incredibilmente meraviglioso il suo modo di funzionare. Dietro lo splendido colore verde delle piante si nasconde una macchina molecolare finissima, un dispositivo naturale che cattura l’energia del Sole e la trasforma nella linfa della vita sulla Terra.

E pensare che, prima ancora che esistessero le piante, la clorofilla (o qualcosa di simile) potrebbe essere comparsa per conto proprio. Le basi chimiche di questa molecola, infatti, possono formarsi anche senza l’aiuto degli esseri viventi. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anelli organici complessi detti porfirine, formati da 4 subunità più piccole dette pirroli (da cui il termine “tetrapirroli” adottato per descrivere le porfirine), i quali corrispondono alla struttura fondamentale della clorofilla, si sintetizzano a partire da semplici composti in condizioni simili a quelle della Terra primordiale, e per di più in parti diverse del nostro universo – come sappiamo dalla presenza di porfirine nelle meteoriti carbonacee. 

In altre parole, miliardi di anni fa poteva generarsi spontaneamente un pigmento capace di assorbire la luce di una stella, e si è generato in molti posti diversi. E la vita sul nostro pianeta, nel suo riutilizzare ogni cosa a disposizione, lo “reclutò” a suo vantaggio. 

All’inizio, i primi organismi usarono i pigmenti a base di porfirine e molti altri soprattutto per proteggersi dalle radiazioni ultraviolette; presto, però, si sviluppò un modo rudimentale per ricavare un po’ di energia dalla luce, senza ancora utilizzare la clorofilla. 

Ad esempio, in alcuni archeobatteri è presente la batteriorodopsina – una proteina che, grazie a un piccolo frammento di retinale (un derivato della vitamina A), cattura fotoni e cambia forma. Questo cambiamento conformazionale permette alla molecola di spostare ioni idrogeno (protoni) da un lato all’altro della membrana cellulare, creando una differenza di concentrazione: molti protoni da un lato della membrana, pochi dall’altro. È come pompare l’acqua in salita: con una differenza di “altezza” chimica di protoni tra interno ed esterno, si possono far fluire i protoni nuovamente nella cellula, dove ce ne sono pochi, e nel passaggio, come farebbe l’acqua che scorre verso valle attraversando un mulino, quei protoni attraversano una proteina detta ATP sintasi e forniscono l’energia necessaria per unire ADP e fosfato in ATP. In questo modo l’archeobatterio produce il proprio “carburante” energetico solo con luce e acqua. In questo meccanismo non c’è ancora fotosintesi, cioè sintesi di materia organica mediante la luce, ma già si ricava energia.

“Prima ancora che esistessero le piante, la clorofilla (o qualcosa di simile) potrebbe essere comparsa per conto proprio”.

Le prime forme di fotosintesi batterica risalgono a oltre tre miliardi di anni fa. Erano batteri primitivi che vivevano nelle acque e svilupparono un tipo di fotosintesi anossigenica – cioè che non liberava ossigeno. Per la prima volta, si utilizzavano pigmenti simili alla clorofilla (le batterioclorofille) per catturare la luce, ma invece di scindere l’acqua, si ossidavano composti come l’acido solfidrico (H₂S): così quei batteri ricavavano energia chimica per le loro cellule, senza però rilasciare O₂. Per centinaia di milioni di anni la fotosintesi andò avanti in questo modo, accrescendo debolmente la biosfera primordiale, ma senza cambiare l’atmosfera. 

La svolta arrivò con i cianobatteri, autentici pionieri dell’energia tra gli esseri viventi. Essi riuscirono a sviluppare due fotosistemi in tandem e, grazie a questa innovazione, a fare una cosa fino ad allora impensabile: utilizzare l’acqua come sorgente di elettroni, liberando ossigeno molecolare come sottoprodotto. In pratica, un singolo microbo era diventato capace di spezzare molecole di H₂O sfruttando la luce del Sole – un’impresa chimica colossale, ma che gli garantiva una fonte praticamente inesauribile di materia prima. Nacque così la fotosintesi ossigenica, che descriveremo in qualche dettaglio più avanti. Da quel momento l’ossigeno cominciò ad accumularsi negli oceani e nell’aria e la Terra, letteralmente, si arrugginì (la famosa Grande Ossidazione, circa 2,4 miliardi di anni fa). La nostra atmosfera ricca di O₂ è, in ultima analisi, un regalo di quei minuscoli batteri verdi.

Ma la storia della clorofilla e della fotosintesi non finisce qui: più di un miliardo e mezzo di anni fa, uno di quei cianobatteri fotosintetici fu inglobato da una cellula più grande senza essere digerito, e instaurando invece un’endosimbiosi permanente. Era nato il cloroplasto, l’organello nelle cui membrane la clorofilla compie la fotosintesi in alghe e piante attuali. Tutte le piante verdi (così come le alghe e gli altri organismi fotosintetici eucarioti) discendono da quell’antica alleanza: la clorofilla che portano nelle foglie è la stessa, detta di tipo “a”, inventata dai lontani cianobatteri.

Oggi esistono vari tipi di clorofilla – a, b, c, d, perfino una f scoperta in anni recenti – ma la più importante e diffusa è ancora l’antichissima clorofilla a. È presente in tutti gli organismi fotosintetici conosciuti ed è l’unica capace di innescare direttamente le reazioni luminose della fotosintesi. Gli altri pigmenti – clorofille “accessorie” (come la b, c, d) e molecole diverse come carotenoidi e ficobiline – funzionano da antenne: assorbono luce a lunghezze d’onda che la clorofilla a da sola non sfrutta in modo ottimale, e trasferiscono poi quell’energia alla clorofilla a stessa.

Ma vediamo, dunque, come si fa a sfruttare una porfirina, un pigmento colorato che si genera in natura, ed in particolare la clorofilla a, per compiere la fotosintesi.

La molecola di clorofilla a ha una struttura affascinante. Come ogni porfirina, possiede una “testa” costituita da un anello tetrapirrolico (una struttura detta clorina, appartenente alla famiglia delle porfirine) e una lunga “coda” idrofoba fatta di atomi di carbonio (una catena denominata fitolo). Nell’anello, al centro, è legato con un legame speciale – si dice “coordinato” – un atomo di magnesio ionizzato: qui sta una delle chiavi del suo funzionamento. Il magnesio ionizzato Mg²⁺ infatti rende rigida la struttura dei quattro anelli della clorofilla, impedendo che l’energia solare assorbita venga dissipata troppo facilmente in vibrazioni termiche. La lunga coda fitolica, invece, serve a tenere la molecola nelle membrane cellulari – come un’àncora che mantiene la “testa” della clorofilla ben posizionata nei tilacoidi, i microscopici pannelli solari dentro le cellule vegetali.

“La clorofilla funziona come un nanodispositivo solare: un fotone la colpisce, un elettrone salta, e da quel minuscolo evento quantistico scaturisce una cascata di reazioni che alimenta un intero albero, una foresta, o un oceano di fitoplancton”.

La clorofilla a assorbe soprattutto luce rosso-arancio (intorno a 660 nm) e blu-violetta (circa 440 nm), mentre riflette la luce verde – e infatti appare verde brillante. Quando un fotone colpisce una molecola di clorofilla, quest’ultima “si accende”: un suo elettrone viene promosso a un livello energetico più alto (stato eccitato). Questa condizione dura però frazioni di secondo: l’energia dev’essere subito trasferita, altrimenti l’elettrone ricadrà emettendo fluorescenza o calore. Ed è qui che interviene la raffinata organizzazione del sistema fotosintetico.

Nelle membrane tilacoidi, le clorofille non agiscono mai da sole, ma sono disposte in grandi complessi detti fotosistemi. Ciascun fotosistema contiene centinaia di pigmenti che lavorano in sinergia. Possiamo immaginarli come una gigantesca antenna: ogni molecola assorbe fotoni e passa l’energia di eccitazione a una molecola vicina, in una cascata continua finché l’energia viene convogliata su una coppia particolare di clorofille a situate nel centro di reazione del fotosistema. A questo punto il momento decisivo: la clorofilla del centro di reazione cede un elettrone a un accettore primario. In pratica la clorofilla si ossida (perde un elettrone) e l’elettrone viene passato a una catena di trasportatori nella membrana. 

In questo modo l’energia raccolta dalla luce non viene dispersa come calore o luce fluorescente, ma serve a trasferire un elettrone “eccitato” dalla clorofilla lungo una catena di molecole organizzate nella membrana del tilacoide. Ogni passaggio sposta l’elettrone da un trasportatore all’altro, rilasciando energia che viene usata per pompare protoni e creare un vero e proprio “accumulatorе” di carica chimica. Alla fine della catena, l’elettrone raggiunge la molecola NADP⁺, un trasportatore che, raccogliendo due elettroni e uno ione idruro (H⁻), si trasforma in NADPH: una forma “carica” di questa molecola, capace di fornire elettroni e protoni per le reazioni di sintesi organica. Parallelamente, il gradiente di protoni creato nella membrana guida la produzione di ATP: questi piccoli “pacchetti” di energia chimica (adenosina trifosfato) vengono generati quando i protoni riescono a rientrare nella struttura dell’enzima ATP sintasi e spingono la sintesi di ATP a partire da ADP e fosfato. NADPH e ATP insieme forniscono così l’energia e soprattutto gli elettroni (potere riducente) necessari per trasformare il carbonio della CO₂ atmosferica in zuccheri, chiudendo il ciclo della fotosintesi.

La clorofilla che inizialmente ha perso l’elettrone, però, ora è carica positivamente (un forte ossidante) e deve assolutamente recuperare un nuovo elettrone, altrimenti il flusso si interrompe. Nel Fotosistema II delle piante, questo elettrone viene fornito da una reazione straordinaria: la scissione dell’acqua. Un complesso enzimatico associato alla clorofilla (detto complesso di evoluzione dell’ossigeno) estrae elettroni dalle molecole d’acqua, separando ogni H₂O in ossigeno gassoso (O₂), protoni (H⁺) ed elettroni. Gli elettroni riducono la clorofilla ossidata, i protoni contribuiscono come sempre a creare un gradiente che verrà usato per produrre ulteriore ATP, e l’ossigeno viene rilasciato come scarto. Questo meccanismo – ripetuto infinite volte nelle foglie e nei cianobatteri – è all’origine di quasi tutto l’ossigeno presente nell’aria che respiriamo.

È davvero stupefacente pensare come una singola molecola possa orchestrare un processo così fondamentale. La clorofilla funziona come un nanodispositivo solare: un fotone la colpisce, un elettrone salta, e da quel minuscolo evento quantistico scaturisce una cascata di reazioni che alimenta un intero albero, una foresta, o un oceano di fitoplancton. Senza la clorofilla, la vita sulla Terra come la conosciamo non esisterebbe: niente piante verdi, niente ossigeno atmosferico, probabilmente niente animali complessi. Grazie a quella sua tinta smeraldo e alla sua meravigliosa chimica interna, la clorofilla ha trasformato il nostro pianeta da quasi deserto in un mondo rigoglioso e pulsante. In ogni foglia, in ogni alga, quella molecola orchestra un piccolo miracolo quotidiano, con meccanismi che uniscono fenomeni quantistici e processi evolutivi millenari. Riconoscerne la bellezza significa apprezzare non solo la meraviglia della natura, ma anche il potenziale di un sapere che, studiando la clorofilla, ci guida verso tecnologie sostenibili in cui la luce diventa fonte di energia pulita.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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