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Agnese Codignola
Il corpo elettrico

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L'elettroma è l’insieme dell’elettricità presente nelle cellule e nei tessuti del corpo umano: un intero universo quasi sconosciuto, tornato al centro di studi e ricerche che promettono di offrire una visione completamente diversa della vita, non solo umana. 

Nel gennaio del 2024, otto anni dopo l’incidente che l’aveva reso tetraplegico, il trentenne dell’Arizona Nolam Aurbaugh è stato sottoposto a un intervento chirurgico, durante il quale nel suo cervello è stato inserito un chip o, per meglio dire, una BCI, Brain Computer Interface. Messo a punto da Neuralink di Elon Musk (ma diverse altre aziende lavorano nel settore), il dispositivo capta le oscillazioni elettriche che si generano nel cervello quando Nolan pensa, e le trasferisce a un computer che, elaborando i segnali, svolge alcune rudimentali azioni al suo posto. Stando a quanto riferito dopo il primo anno, e – come per quasi tutto ciò che riguarda queste BCI – annunciato soltanto sui social media e non sottoposto al vaglio della comunità scientifica attraverso una pubblicazione peer review, Nolan riesce a muovere un cursore e a giocare ai videogiochi o a scacchi. La speranza è che, ottimizzazione dopo ottimizzazione, coloro che verranno dopo di lui riescano, per esempio, a muovere una sedia a rotelle, o una forchetta. Nolan, che si dice contento per quel poco di autonomia che ha riconquistato, si è impegnato a tenere la BIC almeno sei anni, dopo i quali nessuno sa, oggi, che cosa succederà. 

Poco più di un anno dopo, Ann, un’altra paziente, vittima di un ictus che nel 2005 le aveva tolto l’uso della parola, ha ricevuto una BIC che aveva lo scopo di restituirle la possibilità di esprimersi. Come hanno raccontato i bioingegneri delle Università di Berkeley e San Francisco su «Nature Neuroscience», il chip trasmette le variazioni elettriche, che si generano quando Ann pensa alle parole che vorrebbe dire, a un sistema di intelligenza artificiale. Questo le converte nella sua voce, acquisita da registrazioni precedenti l’ictus, quasi in tempo reale, con un ritardo di pochi millisecondi. Il risultato è uno streaming dei pensieri di Ann. O, per meglio dire, sono frasi che ricordano le prime versioni degli assistenti vocali, assai rudimentali, ma che comunque rappresentano un indubbio progresso. Anche in questo caso non si sa molto sul futuro della donna, ma i ricercatori che lavorano da anni al progetto continueranno a farlo, tagli di Trump permettendo. C’è infatti ancora molto da fare, per Ann come per Nolan, perché in realtà nessuno sa davvero fino in fondo come si formi un pensiero dal punto di vista elettrochimico. E nessuno può prevedere come procederà l’integrazione tra chip e cervello. Da questo punto di vista, secondo alcuni esperti la BIC è un azzardo, su persone che non hanno alternative, dalle conseguenze misteriose e dai risvolti etici pesanti, perché i pensieri vengono di fatto trasferiti ad altri soggetti, spesso aziende.

La questione non riguarda solo il cervello. Perché nessuno, oggi, conosce nei dettagli l’elettroma, cioè dell’insieme dell’elettricità presente in tutte le cellule e tessuti del corpo umano, un’entità che lavora in rete, oltreché a livello di singola unità. L’elettroma è infatti un universo intero, scoperto da più di due secoli, ma presto relegato negli scantinati della scienza a causa dell’impossibilità tecnica di studiarlo davvero. Oggi, però, è tornato al centro di molte ricerche, e promette di offrire una visione completamente diversa della vita, non solo umana. 

A raccontare la storia e lo stato dell’arte di qualcosa che è simile, per caratteristiche e ripercussioni, al genoma e al microbioma, è Sally Adee, giornalista che all’elettricità degli esseri viventi ha dedicato un libro frutto di dieci anni di ricerche, Noi siamo elettrici, diventato un piccolo caso editoriale nel mondo anglosassone, e ora tradotto per in Italia da Il Saggiatore. 

È una storia che, alle origini, è molto italiana, perché ha come protagonisti, in una tenzone che dice molto su certi antagonismi che ineluttabilmente nascono tra grandi menti scientifiche, Alessandro Volta e Luigi Galvani. 

“Tutto ciò che è vivo genera ed emette elettricità, dai funghi alle piante, dai batteri alla pelle, e le correnti regolano funzioni cruciali come il differenziamento degli embrioni, o il funzionamento del cuore. Ed è per questo che l’elettroma potrebbe diventare una nuova stele di Rosetta per decrittare il funzionamento della vita”.

Volta, fisico di formazione, aveva scoperto come immagazzinare l’elettricità e pensava, a ragione, che questo gli avrebbe garantito gloria eterna. Ma, per lo stesso motivo, dopo un iniziale entusiasmo per le scoperte di Galvani – che per primo aveva dimostrato l’esistenza di correnti elettriche nelle rane – divenne il suo più acerrimo nemico: quell’ostetrico bolognese rischiava di oscurarlo. Volta passò buona parte della sua vita a cercare di confutare i risultati degli esperimenti sulle correnti biologiche. Ma questi continuavano a mostrare, senza possibilità di errore, che all’interno delle migliaia di rane sezionate, appese, resuscitate, folgorate da Galvani esisteva un’elettricità propria, e che quell’energia invisibile, che Galvani chiamava “soffio vitale” era collegata al movimento, e a molte altre funzioni. 

Alla fine fu Volta ad averla vinta. In realtà, oltre a risentire degli sconvolgimenti politici dell’epoca (giurò fedeltà a Napoleone, come d’obbligo per gli accademici, Galvani si rifiutò), lo scontro tra i due fu amplificato anche dalla separazione tra chimica e fisica da una parte, e biologia dall’altra. I due geni parlavano già lingue diverse, e appartenevano a mondi che si sarebbero incontrati sempre di meno, nei secoli successivi, fino a diventare monadi in fuga verso universi paralleli, dando il via a quell’iperspecializzazione che ancora oggi penalizza molti ambiti scientifici, soprattutto in campo biomedico. 

E poi Galvani non avrebbe mai potuto andare oltre le povere rane, perché le tecnologie di fine Settecento non permettevano in alcun modo di misurare quella debolissima corrente che animava gli esseri viventi. E, non essendo nelle condizioni di misurare il fenomeno, non poteva che continuare a proporne una sua manifestazione empirica: troppo poco.

A demolire il suo enorme lavoro fu però il suo erede e nipote, Giovanni Aldini. Nel tentativo trovarne le prove, Aldini iniziò a compiere esperimenti di Galvanismo, come li chiamò lui stesso, sempre più macabri e bizzarri, molti dei quali su mammiferi vivi e morti, alla presenza di un pubblico sempre più perplesso. Il risultato fu che, involontariamente, diede il via a quello che Adee chiama elettrociarlatanesimo ascientifico, una moda sensazionalistica, portata avanti da una folta schiera di personaggi discutibili, che proposero effetti sempre più bizzarri, e “terapie elettriche” sempre più assurde. Lampi, bagliori, vapori e scosse finirono per ricacciare la medicina elettrica tra la paccottiglia della superstizione, lasciandocela per quasi due secoli, nonostante l’interesse di personalità assolute quali Alexander von Humboldt, che invece aveva intuito l’importanza di quel soffio. Anche perché, nel frattempo, lo spazio lasciato vuoto era stato occupato dalla biologia, che stava regalando grandi soddisfazioni a chi voleva capire i processi fondamentali della vita.

Probabilmente la rappresentazione migliore di quel momento è Frankenstein di Mary Shelley, del 1818, nel quale la soluzione che consente di dare vita alla Creatura è proprio l’elettricità. È grazie alla scossa che, come avrebbe detto Gene Wilder nella versione cinematografica parodistica del 1974, si può fare!

1. E venne il calamaro

Molto tempo dopo, fu lo studio di un altro animale a cambiare la situazione: il calamaro, che possiede due assoni (fibre nervose che trasmettono lo stimolo) enormi. A studiarli furono soprattutto Alan Hodgkin e Andrew Huxley, che dimostrarono un fatto fondamentale: tra l’interno e l’esterno delle cellule nervose c’era una differenza di potenziali elettrici di 70 millivolt, mutevole a seconda della situazione, a suggerire che fossero proprio le oscillazioni elettriche a governare l’attività nervosa. 

Ma come veniva generata e modificata la corrente? Nel corpo non c’erano una pila di Volta, né un generatore, dunque? Con una scoperta che valse loro il Nobel nel 1963, dimostrarono che ciò che accadeva nell’organismo era qualcosa di elettrochimico, assicurato da cariche positive e negative trasportate dentro e fuori le cellule nervose attraverso ioni di calcio, sodio, magnesio, o potassio, tutti elementi carichi elettricamente, e sempre presenti nei fluidi corporei. Alternandosi tra le due parti della cellula, gli ioni carichi modificano la corrente e generano potenziali elettrici detti d’azione. Il flusso di ioni tra interno ed esterno, a sua volta, è controllato da veri e propri buchi nelle membrane delle cellule, proteine chiamate canali ionici, che funzionano come porte girevoli, permettendo agli ioni di entrare o uscire, e chiudendosi immediatamente dopo, con un meccanismo on-off. In questo modo permettono la formazione di cariche elettriche diverse tra esterno e interno e, quindi, quella dei potenziali d’azione.

Negli anni si scoprì che tutto ciò che è vivo genera ed emette elettricità, dai funghi alle piante, dai batteri alla pelle, e che le correnti regolano funzioni cruciali come il differenziamento degli embrioni, o il funzionamento del cuore. Ed è per questo che l’elettroma potrebbe diventare una nuova stele di Rosetta per decrittare il funzionamento della vita: tutto ciò che abbiamo scoperto finora può essere letto e interpretato anche come variazione di corrente. Per esempio, grazie a questa idea, alla fine dell’Ottocento si capì che il cuore si contraeva grazie a stimoli elettrici, e la conferma si ebbe quando, poco tempo dopo, fu registrato il primo elettrocardiogramma. Oggi la terapia di quasi tutte le patologie cardiache si basa anche su farmaci che interferiscono in vario modo con le correnti ioniche. E sui pacemaker, che intervengono sulle correnti riequilibrandole con piccole scosse.

2. Il cervello: una centrale elettrica

Nel 2020 uscì Yoga di Emmanuel Carrère, romanzo autobiografico con licenze varie nel quale, però, su una cosa non c’era finzione: la sua diagnosi, e la terapia prescrittagli. Lo scrittore francese soffriva infatti di sindrome bipolare di tipo II. E, dopo essere risultato resistente a tutte le cure disponibili, era stato sottoposto ad alcune sedute di ECT, o terapia elettroconvulsivante. Il racconto suscitò scalpore, perché portò alla luce una realtà quasi sconosciuta al folto pubblico dei lettori di Carrère, ma ben nota agli psichiatri, e cioè che, nonostante lo stigma associato agli abusi del Novecento, quello che un tempo era chiamato elettroshock oggi viene ancora praticato, anche se raramente, e può essere di aiuto. Le condizioni dei protocolli moderni, molto diverse da quelle degli esordi, sono controllate, le stimolazioni durano pochi minuti e sono erogate in anestesia generale, per evitare che il paziente subisca danni (dovuti soprattutto a movimenti involontari). Grazie a questo, e con i giusti dosaggi, la somministrazione di piccole correnti può essere efficace, almeno per alcuni pazienti (Carrère racconta di non averne tratto grandi benefici) con, per esempio, alcuni tipi di psicosi, schizofrenia o bipolarismo. 

Lo ha confermato anche una delle prime analisi condotta su grandi numeri (circa 5000 trattamenti somministrati tra il 2009 e il 2019), resa nota nel 2024. Gli psichiatri dell’Ospedale di Glasgow hanno elaborato i numeri del database chiamato Scottish Electroconvulsive Therapy (ECT) Accreditation Network (SEAN), e concluso che l’ECT moderna è sicura, e talvolta efficace.

Alla sua forma attuale, tuttavia, l’ECT è arrivata dopo un percorso molto lungo e spesso drammatico, iniziato nel 1929, quando si riuscì a registrare il primo elettroencefalogramma (EEG), e a dimostrare così che anche il cervello umano funzionava grazie alle correnti, e che era possibile misurare ciò che vi accadeva. 

Da quel momento tuttavia gli psichiatri, anziché addentrarsi nel funzionamento elettrico delle singole cellule nervose, per decenni si concentrarono sulle potenzialità della somministrazione di corrente dall’esterno. Si convinsero della possibilità di curare un’infinità di disturbi psichiatrici –o presunti tali – attraverso scosse riequilibranti, magari un po’ grossolane, ma forse rivoluzionarie, per malattie per le quali, all’epoca, c’erano ben poche alternative. Tra i molti, uno straordinario racconto della psichiatria di quegli anni è in Hidden Valley Road, di Robert Kolker, la storia di una famiglia americana nella quale sei dei 12 figli (il primo dei quali nato nel 1945) erano gravi malati psichiatrici, che furono tutti sottoposti a ogni possibile terapia fino all’ECT, con esiti a dir poco disastrosi. 

Un destino simile fu quello di Janet Frame, la grande scrittrice neozelandese che, per una diagnosi errata di schizofrenia, fu sottoposta a oltre 200 sedute di ECT, come raccontò poi in Un angelo alla mia tavola e nel romanzo Volti nell’acqua

Adee racconta di altri casi entrati nei testi di storia della psichiatria come quello di B19, il paziente che chiese di essere sottoposto a ECT per correggere la propria omosessualità, che lo stava portando al suicidio. L’esito fu la distruzione della carriera di Robert Heath, psichiatra della Tulane University di New Orleans che aveva tentato di aiutarlo, anche in quel caso con risultati drammatici. 

3. Elettrodi come capelli, ma dentro il cranio

Poi, nel 1997, dopo anni di studi sulla degenerazione tipica della malattia di Parkinson, e quindi uscendo dalla psichiatria ed entrando in un ambito meno gravato da pregiudizi e incertezze, quello della neurologia, accadde qualcosa che diede inizio di una nuova era. Venne approvata la prima Deep Brain Stimulation o DBS, una terapia basata sul posizionamento di elettrodi piccolissimi (dal diametro di uno-due millimetri) nelle zone più profonde del cervello. Lo scopo di quegli aghi era stimolare l’attività delle cellule che stavano morendo a causa della degenerazione, e permettere quindi al paziente di preservare più a lungo il controllo motorio. Nel 2003 arrivò la stessa cura per altri disturbi dei movimenti di origine centrale, seguita, nel 2009, da quella per le forme di depressione resistente ai farmaci e per i disturbi ossessivo-compulsivi. Oggi si stima che siano circa 250.000 le persone che, nel mondo, hanno elettrodi nel cervello. Pazienti la cui vita è cambiata radicalmente, grazie alle correnti prodotte da un piccolo generatore sottocutaneo e trasmesse dagli elettrodi interni al momento opportuno. 

La DBS ha dunque mostrato, decisamente meglio dell’ECT, che sfruttare a scopi terapeutici le mini-correnti delle cellule nervose è possibile, in modo non molto diverso da quello che avviene con un pacemaker cardiaco. A patto di sapere esattamente che cosa si sta facendo, e perché.

Lo stesso hanno fatto le numerose neuroprotesi sempre più sofisticate sperimentate negli ultimi anni, che in alcuni casi hanno restituito una parte di mobilità ai paraplegici. In quel caso, la parte lesionata del nervo spinale viene sostituita da interfacce che attivano esoscheletri e protesi robotiche partendo direttamente dal comando del cervello. Uno dei gruppi più avanti, in questo ambito, è Neurorestore, guidato da Silvestro Micera, docente di bioelettronica del Politecnico di Losanna e dell’Istituto Superiore Sant’Anna di Pisa, grazie al quale tre persone paraplegiche hanno riacquistato una parziale mobilità, e che da anni produce risultati sorprendenti.

La stimolazione esterna, nel frattempo, ha imboccato anche altre strade come quella, sperimentata dalla stessa Adee, di metodi per migliorare le performance cognitive: una versione moderna di Galvanismo per alcuni, un Brain doping per altri, anche se per i ricercatori più convinti potrebbe essere di aiuto in situazioni patologiche come quelle di coloro che soffrono di deficit cognitivi legati a una malattia neurodegenerativa. 

Secondo Adee, almeno per ora, anche se la stimolazione conferisce una certa lucidità, si tratta più che altro di un gigantesco business, per di più dai risvolti pericolosi, perché spostare costantemente l’asticella delle prestazioni cognitive più in alto significa anche relegare sempre più la normalità in uno stato di insufficienza: significa perseguire un Brain doping, appunto. Una deriva che è urgente fermare.

Oltre al cervello, ci sono altri due ambiti nei quali le ricerche stanno avanzando velocemente: il primo dei quali è quello del differenziamento degli embrioni e nello sviluppo dei tessuti, perché moltissimo, nel feto, dipende dall’elettricità. Una conoscenza approfondita dell’elettroma potrebbe imprimere una formidabile accelerazione alla medicina rigenerativa, dai trapianti alle cellule staminali per il recupero, per esempio, di un cuore colpito da infarto. E lo stesso vale per la cute, soprattutto per riparare i danni delle ustioni. Inoltre, spesso si sottovaluta che è proprio l’elettroma a governare la simmetria del corpo, con conseguenze ancora tutte da capire. 

“Ancora oggi, i ricercatori lamentano il fatto che i colleghi delle più varie discipline, in molti casi, non credano affatto alla bioelettricità, e alcuni non ne vogliano neppure sentire parlare, nonostante, come per Volta, i fenomeni bioelettrici siano sotto i loro occhi ogni giorno”.

C’è poi un altro network che funziona a elettricità, che negli ultimi anni ha conquistato grande popolarità: il microbiota. Batteri, virus, funghi, e archei agiscono diversamente se le correnti dentro e attorno a loro cambiano, e stiamo iniziando solo ora a capirlo, e a pensare a come sfruttare questi fenomeni.

Inoltre, anche per patologie come il cancro la situazione potrebbe cambiare, perché le cellule malate sono diverse da quelle normali anche dal punto di vista elettrico, e si sta verificando se sia possibile una cura agendo basata su interruttori elettrici. 

Non stupisce, quindi, che diversi laboratori nel mondo stiano studiando farmaci elettrochimici. Non ce ne sono ancora di approvati, a parte quelli tradizionali, che agiscono sui canali ionici, ma forse ce ne saranno.

Nel frattempo, le conoscenze acquisite stanno trovando applicazioni molto interessanti nella robotica, tornando nei paraggi delle rane di Galvani. Gli Xenobot sono dispositivi ottenuti per ibridazione da cellule di rana Xenopus laevis con chip originariamente metallici ma oggi sempre più spesso biocompatibili. Lo scopo è miniaturizzare i robot fino a renderli shuttle che, come nel film del 1966 Viaggio allucinante, trasportino informazioni e molecole all’interno del corpo, o dovunque un minirobot biologico possa fare meglio di uno classico. Se il film (e il successivo libro di Isac Asimov) fosse uscito oggi, probabilmente il sottomarino sarebbe alimentato da correnti endogene, ricavate direttamente dalle cellule, e avrebbe avuto una schermatura per resistere a differenze di potenziale tra i tessuti. Qualcosa di simile fa anche la calamarotronica che, partendo dagli stessi cefalopodi di Hodgkin e Huxley, cerca di sfruttarne le strutture e le proprietà sia a fini di studio che a scopo terapeutici. 

Lo studio dell’elettroma sta aprendo la strada verso discipline del tutto nuove, e anche per questo è affascinante.

Nella conclusione, Adee torna indirettamente a Volta e Galvani, alla biforcazione delle discipline. E all’inadeguatezza, ancora attuale, degli strumenti usati per studiare entità minuscole che scompaiono velocissimamente dopo la morte, che tuttora condiziona le ricerche. E poi alla derisione, allo stigma. Ancora oggi, i ricercatori lamentano il fatto che i colleghi delle più varie discipline, in molti casi, non credano affatto alla bioelettricità, e alcuni non ne vogliano neppure sentire parlare, nonostante, come per Volta, i fenomeni bioelettrici siano sotto i loro occhi ogni giorno. Di conseguenza, trovare i fondi e farsi accettare le pubblicazioni è più difficile, a prescindere dalla solidità dei risultati. 

Per questo bisogna tornare a Humboldt, l’ultimo filosofo naturale. Come dice uno dei massimi eroi di tutta la faccenda, Michael Levin del Wyss Institute di Harvard, la natura non è divisa in dipartimenti. Quindi, per portare avanti queste ricerche bisogna crearne di nuovi, interdisciplinari, che uniscano fisica, matematica, biologia, medicina, ingegneria, scienza dei materiali e altro ancora, oltre alla filosofia. Lo si sta facendo, per esempio al Massachussetts Institute of Technology di Boston e altrove, ma la strada è ancora molto lunga. E va percorsa controcorrente.

Agnese Codignola

Agnese Codignola è scrittrice e giornalista scientifica con un passato da ricercatrice. Il suo ultimo libro è Alzheimer S.p.A. Storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è (Bollati Boringhieri, 2024).

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