L'universo è carico di potenzialità nascoste. Tutto potrebbe essere diverso da com'è, ogni istante custodisce miriadi di storie a un passo dalla realtà: nasce uno spazio per avventurarci insieme in queste terre inesplorate.
La sua camminata ondeggiante e casuale sembra quella di un cowboy appena smontato da cavallo. Veste camicioni di flanella a quadrettoni e calzoni larghi tenuti su da cinture di cuoio che fanno molto New Mexico. I suoi capelli bianchi, gli occhi sottilmente ironici, la voce calma e profonda: è un cowboy gentile con le persone e spietato con le idee. Ama i duelli concettuali, i disaccordi ben argomentati al termine dei quali si va tutti insieme a bere qualcosa. Nella sua lunga carriera, cominciata a Oxford, ha cavalcato tra San Francisco, Chicago, Calgary, Tampere, Vermont, Pennsylvania.
Stuart Kauffman il fuoco ce l’ha nella mente, non nelle pistole. Biochimico di vaglia, ha insegnato agli evoluzionisti che la selezione naturale deve fare i conti con una serie di vincoli interni degli organismi e di processi di auto-organizzazione lontani dall’equilibrio, cioè ai margini del caos. A tutti i livelli la vita è una rete complessa di connessioni dove, più dei nodi, conta il numero delle relazioni. Tali sistemi, per esempio le reti di regolazione genica o gli ecosistemi, convergono verso configurazioni stabili, gli attrattori, oppure attraversano drammatiche transizioni di fase al termine delle quali una nuova configurazione emerge. Una dinamica simile si riscontra nell’evoluzione del sistema climatico globale. Stiamo giocando con qualcosa di molto più potente di noi.
Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, Kauffman fu uno dei protagonisti del Santa Fe Institute, tempio delle ibridazioni interdisciplinari e delle scienze dei sistemi complessi in New Mexico, popolato da hippies, scrittori, visionari, innovatori, cibernetici, oltre che da un grappolo di futuri Premi Nobel (e più di recente frequentato in pianta stabile anche da Cormac McCarthy). In quel meticciato filosofico di fine Novecento tutto sembrava possibile: scoprire la quarta legge della termodinamica per i sistemi aperti non in equilibrio; tracciare una teoria unificata dell’universo; decifrare le leggi senza tempo della “biologia universale”. Grandi domande per spiriti inquieti, tra i quali c’era sempre lui, «Stu» Kauffman.
1. A un passo dalla realtà
Quarant’anni fa, questo geniale biologo teorico coniò un’espressione affascinante: il possibile adiacente, cioè l’insieme delle strutture e delle combinazioni che ancora non esistono in natura, ma a cui si accede attraverso un singolo cambiamento evolutivo sulle forme esistenti. Ciò vale per gli esseri viventi, ma anche per le idee e le tecnologie. Kauffman è sempre stato innamorato dell’idea di un enorme “spazio delle forme” che riesca a contenere tutto il possibile, da confrontare poi con il reale. Nei primi anni Novanta aveva immaginato uno “spazio di azione catalitica” che includesse tutti gli enzimi potenziali, una cassetta universale di proteine in grado di promuovere qualsiasi reazione chimica, un’immensa biblioteca da esplorare attraverso una “chimica casuale”. Questa intuizione ispirò la biotecnologa Frances Arnold nell’invenzione dell’evoluzione direzionata degli enzimi, meritatissimo Premio Nobel per la Chimica del 2018.
“Quarant’anni fa, Stuart Kauffman coniò un’espressione affascinante: il possibile adiacente, cioè l’insieme delle strutture e delle combinazioni che ancora non esistono in natura, ma a cui si accede attraverso un singolo cambiamento evolutivo sulle forme esistenti”.
Il possibile adiacente descrive l’insieme degli stati potenziali di una biosfera che distano un solo passo dal reale e illustra la produzione incessante di nuove diversità di cui solo la vita è capace. L’innovazione infatti raramente nasce dall’affinamento selettivo – da zero, di strutture inedite – e assai più spesso dal riutilizzo creativo di strutture già esistenti, con o senza funzione, come effetti collaterali che si inoltrano di un passo nel futuro. Il possibile adiacente è il bricolage evolutivo di cui scriveva il Premio Nobel per la Medicina del 1965 François Jacob, ovvero il fatto che ad ogni momento della storia evolutiva le strutture esistenti, nate in connessione a una funzione, contengono un potenziale di riuso e di cooptazione funzionale (nell’evoluzione si chiama exaptation). L’esistente, insomma, è un accidente congelato: non è il fine del processo, ma un punto di potenziale propagazione di effetti non intenzionali.
La funzione di una parte di un organismo è un sottoinsieme delle sue potenzialità, delle sue conseguenze, dei suoi effetti eventuali. Siamo grumi di possibilità. Studi recenti hanno confermato che geni del tutto nuovi, importanti per esempio per lo sviluppo del cervello umano, sono emersi nell’evoluzione riutilizzando sequenze che prima non codificavano per alcuna proteina. Li hanno chiamati “geni dalla spazzatura”. L’evoluzione è un’incessante esplorazione del possibile adiacente, come, forse, anche il nostro pensiero creativo.
2. Un’imprevedibilità creativa
Funzioni ed effetti dunque si propagano esponenzialmente. Vale per la vita, che per due miliardi di anni è rimasta allo stadio unicellulare e poi è esplosa in un fuoco d’artificio multicellulare. Vale per le successive grandi transizioni della storia naturale, ognuna delle quali è stata resa possibile da inedite aggregazioni, simbiosi e cooperazioni. Vale per quelle tecnologie che, in un modo inizialmente imprevedibile, stravolgono il paesaggio delle nostre esistenze e generano cascate di nuove applicazioni potenziali (basti pensare al web). Vale purtroppo anche per la Grande Accelerazione a base di combustibili fossili dell’Antropocene negli ultimi ottant’anni, foriera di arditi avanzamenti ma gravida di costi ambientali.
Forse l’Antropocene non è estraneo al ribollire dell’evoluzione: è una propagazione di possibilità andata fuori controllo. Per Kauffman non sarebbe possibile definire in anticipo tutte le possibili conseguenze di tratti di organismi o di idee o di tecnologie in grado di diventare altro, essere selezionati e fare il loro ingresso nella biosfera o nella tecnosfera. Tutto è effetto collaterale, ingegnoso riutilizzo. Noi inventiamo strumenti e poi usiamo quegli strumenti per costruire altri strumenti.
Sulla base di valutazioni combinatorie, l’insieme di tutti gli effetti potenziali dipendenti dal contesto non è definibile a priori: è così tanto grande (come la Biblioteca di Borges) da non poter essere processato da alcun sistema computazionale nell’universo. Dunque, l’emergenza di una struttura riadattata rappresenta un’esplorazione nello spazio delle funzioni possibili che non è estrapolabile o derivabile algoritmicamente dalla configurazione precedente. L’unica procedura per computarle sarebbe quella di un algoritmo lungo quanto l’intera sequenza delle possibilità attualizzate. Ma un algoritmo di questo tipo, inutile per i suoi scopi, non sarebbe altro che una descrizione completa del sistema e della sua storia. Una mappa grande quanto il territorio, vana e soffocante. Da stracciare in mille pezzi, come immaginava Borges.
3. La tragedia dell’unicità
Adesso pensiamo alla realtà del 2025. L’universo, le biosfere e le tecnosfere in esso contenute (improbabile che la nostra sia l’unica, considerando il numero di possibilità là fuori) esplorano senza sosta il loro possibile adiacente, in una storia mai ripetitiva che porta ad aumentare il numero di tipi di evento che possono accadere nella generazione successiva. Immaginiamo le possibilità intrinseche che avevano i nostri antenati armati di un chopper e alla quantità di innovazioni che osservavano nel corso di una singola esistenza: pochissime. Ora pensate al numero di innovazioni e di possibilità che si sono sprigionate nella vita di una persona nata, mettiamo, nel 1945: tantissime.
L’universo ribolle incessantemente, scriveva Eraclito, e Kauffman se ne fa interprete scientifico. Se è così, allora, nell’immenso morfospazio ribollente di tutte le combinazioni possibili – siano esse animali, proteine, geni, idee, tecnologie – ci sono per forza anche gli innumerevoli percorsi che la nostra vita avrebbe potuto prendere e non ha preso. Se nella Biblioteca di Babele ci sono tutti i libri possibili a partire da un alfabeto di 25 caratteri, allora nei suoi esagoni e scaffali non ci sono soltanto tutte le variazioni di una sola lettera di Moby Dick o del De rerum natura. Gli scaffali dell’immensa biblioteca contengono anche tutte le versioni alternative di quelle storie: c’è il capitano Achab che riesce a catturare quella maledetta balena bianca e Ulisse che non naufraga oltre le Colonne d’Ercole e scopre l’America.
Ma allora dobbiamo dedurne che nella Biblioteca di Babele ci siano anche le storie delle nostre vite, fedeli cronache delle sequenze di eventi che si sono inanellate nelle nostre esistenze. Non solo le storie scritte delle vite vissute dai circa 107 miliardi di esseri umani esistiti finora, ma anche di tutte le vite alternative possibili di ognuno di noi. In particolare, come per le versioni di Moby Dick, ci saranno anche le storie di tutte le vite che differiscono di un solo dettaglio dalla nostra: un incontro mancato; una decisione diversa; una moltitudine di altri appuntamenti con il destino.
Le vite possibili e non realizzate, come elementi della Biblioteca, hanno la stessa dignità delle vite reali. Se ne stanno nel possibile adiacente. Semplicemente, non sono esistite finora, ma avrebbero benissimo potuto esistere in passato, a un solo passo dal reale, e potranno esistere in futuro, incarnate magari da altri (se non saremo così idioti da auto-estinguerci). Il fatto che i libri e le vite reali siano così pochi rispetto a tutti quelli possibili ci fa capire quanto siamo stati fortunati nella lotteria di sorteggio arbitrario del DNA, delle proteine, delle forme animali e delle nostre esistenze come primati bipedi di grossa taglia. Siamo capitati nel posto giusto del morfospazio al momento giusto.
Italo Calvino, in un bellissimo dialogo del 1978 con Daniele Del Giudice, espresse questo concetto in modo limpido e struggente. La letteratura contempla la molteplicità, dice Calvino, e immagina sistemi di moltiplicazione dei possibili (come leggiamo in molti suoi romanzi) per esorcizzare la “tragicità dell’unicità”, ovvero il fatto che la nostra vita è una sola, che ogni avvenimento è unico a discapito di miliardi di altri, svaniti per sempre. Il narratore (ma anche uno scienziato come Kauffman) è colui che vuole sottrarsi a questo destino.
Vivere la propria unica vita significa perdere miliardi di altre vite possibili, ciascuna delle quali avrebbe potuto sgorgare da una minima divergenza, deviazione o biforcazione nel tessuto della realtà. Ciascun istante della nostra esistenza è un accidente congelato circondato da una vastissima bolla di storie potenziali. Ogni scelta che facciamo ci introduce in una sola di quelle storie, uccidendo per sempre tutte le altre. Quella singola decisione implica uno sterminio di universi potenziali.
4. Lucy e i molti mondi
Potremmo tuttavia ribaltare la tragedia dell’unicità in un’appassionante esplorazione del possibile. Calvino la definisce giustamente tragedia perché è rivolta al passato: la biforcazione appena imboccata ci induce a volgere lo sguardo all’indietro e a vedere tutto il possibile che non si realizzerà mai più, come l’angelo della storia di Walter Benjamin, ispirato al dipinto Angelus Novus di Paul Klee. Dove noi leggiamo una catena di eventi, scrive Benjamin, l’angelo della storia vede “un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi”. Così procede verso il futuro, in retromarcia, volgendogli le spalle, ipnotizzato dal cumulo di rovine che la storia gli presenta, una continua tempesta chiamata progresso.
Sospesi sulla cresta dell’onda della Grande Accelerazione, dopo decine di generazioni che hanno consegnato alla successiva una dote positiva, adesso guardiamo anche noi indietro, paralizzati nello sguardo proprio come l’angelo della storia. Mai come oggi l’idea di progresso è messa in discussione. La crisi ambientale, il riscaldamento climatico antropico in accelerazione, le miopie sovraniste, le scorciatoie populiste democraticamente trionfanti, il declino delle istituzioni sovranazionali, il falso realismo di chi vede solo il profitto a breve termine ci stanno infilando dentro una trappola evolutiva. Sappiamo che consegneremo alle prossime generazioni un mondo più instabile e difficile, il che è ingiusto.
Per uscire dalla trappola, bisogna cercarne l’anello che non tiene, la giuntura difettosa, la sbarra malferma. Il possibile adiacente potrebbe aiutarci a cambiare prospettiva e renderci consapevoli del presente come bolla generatrice di possibilità. Se ha ragione Kauffman, nonostante il motivato pessimismo che ci inducono questi tempi grami, nessun essere umano è mai vissuto in un tempo più ricco di possibilità del nostro. C’è un vastissimo adiacente possibile, a un solo passo da noi, tutto da esplorare, attualizzare ed espandere a sua volta.
“Mai come oggi l’idea di progresso è messa in discussione. Sappiamo che consegneremo alle prossime generazioni un mondo più instabile e difficile, il che è ingiusto”.
Vale per le nostre vite individuali, ma anche per il mondo in cui viviamo. In effetti, abbiamo l’impressione di vivere oggi ai margini del caos. E dunque, direbbe Kauffman, in un’epoca gravida al contempo di pericoli e di opportunità di trasformazione. Per dirla con il compianto fisico teorico Per Bak, forse siamo nel mezzo di una “criticità autorganizzata”, come sul pendio di un cono di sabbia: cade un granello e non succede nulla, il sistema si mantiene apparentemente stabile; ne cade un altro e tutto resta com’è; poi in mezzo alla serie di granelli ne arriva uno – e non sapremo mai perché non quello prima o quello dopo – che scatena una valanga. L’energia potenziale si è scaricata e il sistema torna stabile, fino alla prossima riconfigurazione. Il risultato è una storia punteggiata e irreversibile.
Del resto, lontani dal caos c’è l’equilibrio, che nell’evoluzione significa morte. All’opposto, in mezzo al caos non cresce nulla, perché non emerge alcun ordine. I sistemi più creativi e innovativi, ci insegna Kauffman, stanno in un delicato intermezzo, ai margini del caos. Lucy sui mondi nasce per esplorare il possibile adiacente che si nasconde in tutto ciò che diamo per scontato, che indebitamente reputiamo necessario, ineluttabile, inscalfibile. Vietato imboccare strade già percorse. L’incertezza è pericolosa, ma c’è una potenzialità in ogni granello.
5. Nell’oggi c’è il possibile di domani
Ci focalizzeremo sui fenomeni che consideriamo normali e che normali non sono affatto, essendo piuttosto costruzioni intenzionali. Proveremo a esplorare il possibile adiacente moltiplicando i punti di vista, facendo dei “molti mondi” la nostra ipotesi. In un pianeta globalizzato da reti satellitari e informative, appannaggio di un oligopolio di tecnofeudatari miliardari in preda a deliri narcisistici, ci chiederemo per esempio qual è il punto di vista del Sud Globale, dei popoli nativi, di chi ancora oggi si vede rubare terre e risorse. Quell’adiacente possibile che rimuoviamo dal nostro sguardo e che bolliamo come “tradizione” o “primitivo” è oggi scientificamente preparato e grintoso. Ascoltarlo e leggerlo ci aiuta ad arricchire e sprovincializzare le menti. Ci sono molti modi di essere umani (anche in passato: Lucy, l’australopitecina, era uno dei tanti) e di essere moderni.
E poi ci chiederemo se tutto ciò che consideriamo inalterabile in quanto “naturale” (le leggi del mercato, il neoliberismo predatorio, il farsi la guerra, il patriarcato, le differenze di genere, le diseguaglianze) sia davvero naturale, e non invece una seducente costruzione culturale finalizzata al dominio dei pochi sui molti. Liberandoci da quelle gabbie, potremmo scoprire che l’irriducibile unicità di ogni individuo è un punto di ramificazione di adiacenti possibili, tutti da esplorare ed espandere, e che forse esistono altri modelli di sviluppo, di consumo, di trasporto, di alimentazione, di gestione dei beni comuni. Smaschereremo analiticamente il presunto e oggi imperante “realismo” dei cinici e dei poveri di fantasia, che squalificano in quanto ingenua, illusa, velleitaria e buonista qualsiasi visione alternativa alla loro ideologia dominante. Prenderemo le fake news, le dissezioneremo e non ci limiteremo a smentirle: le smonteremo nei loro trucchi e artifici retorici, fornendo un antidoto per riconoscerle.
Oppure ancora ci chiederemo qual è l’adiacente possibile di un approccio multi-specie alla drammatica crisi ambientale in corso. Non per antropomorfizzare piante e animali attribuendo loro improprie categorie umane, ma per decentrare il nostro punto di osservazione, e vederci come nodo minoritario di un’“unica grande rete”, come scriveva Charles Darwin, cugini di ogni altra creatura sulla Terra, esperimento di vita e di intelligenza in mezzo ad altri. L’adiacente possibile della biodiversità ci insegna che non siamo indispensabili, che avremmo potuto benissimo non comparire sotto i cieli dell’evoluzione e che esistono innumerevoli modi di stare al mondo.
In Lucy sui mondi proveremo a esplorare tutti questi potenziali latenti, che una volta liberati scardinano le essenze, le categorie dogmatiche, gli stereotipi impliciti. Ci siamo dati come stella polare (anzi, croce del sud) un approccio empirico, razionale e argomentato, partendo dai dati condivisi, dal consenso scientifico, dall’autorevolezza e dalla competenza. Navigheremo tra i mondi plurali innanzitutto mescolando i linguaggi e i saperi, intrecciando le arti, le discipline scientifiche, i canali di comunicazione. La nuova Lucy sarà un esperimento di narrazione del contemporaneo, sul campo, grazie alle voci di una bellissima squadra di autrici e autori da tutti gli angoli dell’adiacente possibile.
Lucy sui mondi sarà piena di ironia, l’ironia di chi sa di non sapere e dunque non smette mai di farsi domande e di giocare con nuove combinazioni di idee (il massimo, poi, è quando ci si accorge che non sapevamo di non sapere). Così ci chiederemo anche se le generazioni più giovani, native di un mondo ereditato da noi, vedono le stesse potenzialità che notiamo noi, e non invece molte altre, per noi persino inimmaginabili, considerando il carattere serendipitoso dell’evoluzione culturale e delle scoperte scientifiche e tecnologiche che si propagano nel possibile adiacente.
L’obiettivo multigenerazionale privilegiato di Lucy sui mondi sarà infatti la comunità plurale della scuola italiana. Collegheremo le nostre esplorazioni ai percorsi formativi, di ogni ordine e grado, che docenti e discenti condividono nelle aule. Metteremo a disposizione strumenti, materiali, percorsi interdisciplinari, aggiornamenti scientifici, lezioni e corsi, serie di podcast e di video da utilizzare in classe, ma soprattutto esercizi di metodo e di condivisione appassionata del sapere, per mettere sempre un po’ in discussione i propri e altrui presupposti.
Come scriveva in uno dei suoi splendidi “metaloghi” l’antropologo Gregory Bateson: “Una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: «I padri sanno sempre più cose dei figli?», e il padre rispose: «Sì, certo». Poi il ragazzino chiese: «Papà, chi ha inventato la macchina a vapore?», e il padre: «James Watt». E allora il figlio ribatté: «Ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt?»”. Ecco, il succo della questione sta nel provare a rispondere a questa domanda.