La superficie ghiacciata di un satellite lontano mostra segni che possiamo leggere come un esperimento naturale su alcune ipotesi classiche dell’origine della vita.
Encelado, una delle lune ghiacciate di Saturno, sembra respirare. Dal suo polo sud, attraverso lunghe fratture nella crosta che gli astronomi chiamano tiger stripes, fuoriescono getti spettacolari composti da vapore d’acqua e minuscoli granelli di ghiaccio. Sono colonne che si innalzano per centinaia di chilometri nello spazio e che ricordano l’atto di espirare, tanto che spesso vengono descritte come i “respiri” della luna.
Questi pennacchi rappresentano la prova che sotto la superficie ghiacciata si nasconde un oceano liquido globale. Le forze mareali esercitate da Saturno comprimono e rilasciano il nucleo di Encelado, producendo calore e aumentando la pressione dell’acqua intrappolata sotto la crosta. L’acqua, riscaldata e ricca di sali e composti chimici, trova sfogo attraverso le fratture e viene espulsa nello spazio. Una parte ricade sulla superficie, ma un’altra si disperde e va a formare l’anello E di Saturno.
È appena stato pubblicato su Nature Astronomy uno studio che riscrive ciò che sappiamo della chimica dei “respiri” di Encelado. Gli autori hanno rianalizzato i dati del fly-by E5 di Cassini, quando, nel 2008, la sonda attraversò i getti del polo sud impattando granuli di ghiaccio appena espulsi a 17,7 chilometri al secondo sul rivelatore del Cosmic Dust Analyzer (CDA). Il CDA è uno spettrometro di massa a tempo di volo: l’urto ad altissima velocità vaporizza il granulo, e gli atomi e le molecole ionizzate vengono accelerate in un tubo di volo e la loro massa/charge (m/z) si deduce dal tempo che impiegano a raggiungere il sensore. A quelle energie si “spogliano” i cluster d’acqua che normalmente coprono i segnali organici, e nella frammentazione compaiono picchi caratteristici che, confrontati con dati noti da laboratorio, permettono di riconoscere famiglie chimiche anche quando la molecola intera non è identificabile senza ambiguità. È così che, nei granuli più “freschi” – campionati subito dopo la loro espulsione da Encelado, prima che la radiazione spaziale e la chimica in volo li alterino – si sono viste firme coerenti con composti aromatici (anelli con elettroni delocalizzati, come nel benzene), frammenti alifatici (catene carboniose aperte), specie ossigenate compatibili con carbonili ed esteri, e segnali attribuibili a eteri e gruppi etile; e forse (qui qualche dubbio c’è ancora) anche indizi di composti contenenti azoto e ossigeno. Non un elenco di “molecole con nome e cognome”, dunque, ma famiglie diagnosticate dai frammenti: il dato utile è che l’oceano di Encelado non espira solo acqua e tracce generiche, ma un repertorio organico già diversificato per funzioni chimiche. È il dettaglio che sposta l’asticella: l’alfabeto a disposizione delle reazioni non è povero.
L’importanza di questa nuova “fotografia” della chimica di Encelado si capisce tornando al percorso delle scoperte. Quando Cassini, nel 2005, vide i pennacchi gelati espulsi dalla superficie di Encelado, nessuno pensava a un oceano globale sotto una crosta ghiacciata. L’Ion and Neutral Mass Spectrometer (INMS), tuttavia, identificò vapore d’acqua, anidride carbonica, metano, ammoniaca; e nel 2015, durante il tuffo più profondo nella nube, rilevò un surplus di idrogeno molecolare, H₂. Quest’ultimo è la firma di reazioni roccia-acqua nel nucleo di un corpo roccioso, in particolare della serpentinizzazione, in cui minerali silicati ricchi di ferro e magnesio reagiscono con l’acqua producendo idrossidi e rilasciando idrogeno. Dal punto di vista energetico, è un donatore di elettroni a basso potenziale: accoppiato ad accettori come la CO₂, rende possibili riduzioni del carbonio verso molecole organiche più complesse, cioè una sorta di metabolismo abiotico che si pensa sia alla base di quello che ha originato ciò che osserviamo oggi negli organismi viventi. È infatti lo stesso gradiente redox che sulla Terra alimenta ecosistemi interi in assenza di luce, presso i camini idrotermali sottomarini. È da allora che abbiamo capito come su Encelado non c’è solo acqua, ma un “motore chimico” acceso.
Quasi in parallelo arrivarono prove di idrotermalismo. Nel 2015 un’analisi di particelle anomale intercettate nel sistema di Saturno, di cui fa parte Encelado, mostrò nanoparticelle di silice pura, SiO, che si formano in fluidi acquosi caldi (circa 90–200 °C) in equilibrio con roccia e poi precipitano quando quei fluidi si raffreddano. Grazie ai vincoli di formazione di questo “tracciante”, anche se non si vede la sorgente, si osserva il “prodotto di cottura” che solo un processo idrotermale può generare. Queste particelle, trasportate verso l’alto e infine espulse, raccontano un riciclo attivo di acqua attraverso il nucleo roccioso e svelano il contatto prolungato tra acqua e minerali a temperature specifiche.
“I getti spettacolari che si innalzano da Encelado rappresentano la prova che sotto la sua superficie ghiacciata si nasconde un oceano liquido globale”.
Un altro tassello chiave è l’ambiente salino e alcalino dell’oceano di Encelado. Già nel 2009 l’analisi dei grani dell’anello E, generati da quella luna, mostrava sali di sodio e carbonati: indizi di un mare salato in equilibrio con rocce basiche, con pH elevato. Un pH alcalino (intorno a 10–11 nelle ricostruzioni geochimiche) aggiunge vincoli importantissimi alla chimica possibile nell’oceano di Encelado: controlla lo stato protonico delle molecole (e quindi quante cariche portano), la nucleofilicità di ossidrili e ammine, la direzione di molte reazioni. In un mezzo alcalino gli ioni carbonato tamponano l’acidità e spingono la CO₂ verso forme disciolte più reattive, così mobilizzando il carbonio, e le superfici minerali di silicati e ossidi mettono a disposizione siti catalitici. Soprattutto, la salinità e la forza ionica definiscono la conduttività elettrica e la compattezza dei doppi strati all’interfaccia solido-liquido, che sono fattori di controllo delle reazioni chimiche che possono avvenire sulle superfici minerali. Tutto questo costruisce un “ambiente di reazione” che, oltre a contenere molecole, le orienta verso certi percorsi anziché altri.
Poi, nel 2018, arrivarono i “pezzi grossi”: grani con materia organica macromolecolare refrattaria, cioè assemblaggi complessi che all’impatto con gli strumenti di Cassini resistono e lasciano spettri caratteristici. Non sono polimeri biologici, ma dimostrano che la materia organica può aggregarsi in strutture robuste e che l’oceano non è chimicamente “timido”, bensì produce una chimica del carbonio complicata e varia. L’interpretazione più parsimoniosa è che in profondità, dove acqua e roccia reagiscono, si formino e si rimescolino componenti che poi vengono trasportate verso l’alto, intrappolate in goccioline che gelano in granuli e risalgono nelle fratture. È un ciclo idraulico-chimico: reazione, trasporto, concentrazione, espulsione di molecole a base di carbonio.
Nel 2023 un altro risultato ha fatto rumore: spettri di massa ottenuti da Cassini hanno mostrato fosfati di sodio nei granuli del pennacchio. Fosforo sotto forma di ortofosfato – la stessa famiglia chimica che, negli organismi viventi sulla Terra, collega i nucleotidi negli acidi nucleici e forma il legame ad alta energia dell’ATP – presente con una disponibilità stimata almeno cento volte superiore a quella media dei nostri oceani. Per anni il fosforo era stato considerato un collo di bottiglia potenziale dell’astrobiologia in mondi oceanici; Encelado ha mostrato che il timore è infondato. Il fosforo e la sua forma solubile ci sono, in quantità che non limitano a priori una chimica del fosfato. In termini pratici, significa che reazioni di condensazione e attivazione del fosfato non sono escluse dall’inventario geochimico disponibile su un corpo roccioso diverso da quello che abitiamo.
Un’analisi statistica aggiornata dei dati dell’INMS raccolti nello stesso intervallo temporale ha suggerito la presenza di acido cianidrico, HCN, nel gas del pennacchio, insieme a idrocarburi minori (etano, propene, acetilene). HCN, per chi si occupa di prebiotica, accende molte luci: è al centro di reti di sintesi che portano ad amminoacidi (ad esempio via Strecker), basi azotate e precursori nucleotidici in una varietà di condizioni; può reagire con aldeidi e ammoniaca, polimerizzare in catene azotate, generare nitrili reattivi. L’assegnazione dell’HCN nei dati INMS resta più discussa di altre specie maggioritarie, perché è un composto minoritario e più ambiguo da distinguere in spettrometria a bassa risoluzione; tuttavia, la combinazione di modelli e confronti incrementa la plausibilità. Nel contesto dei nuovi segnali ottenuti da Cassini (frammenti aromatici, esteri/eteri, carbonili), la presenza di un nitrile così reattivo sarebbe coerente con un “pool” organico in cui azoto e ossigeno sono effettivamente in circolo.
Il quadro che ne esce, se lo si legge con lo sguardo della chimica, è questo: in un oceano salato e alcalino, in contatto con un nucleo roccioso che produce idrogeno molecolare H₂, circolano famiglie organiche con funzioni ossigenate e, forse, azotate; sono presenti fosfati disciolti; esistono superfici minerali (silice, ossidi, solfuri) che possono svolgere ruoli catalitici e adsorbenti. È un insieme di vincoli il cui superamento ovviamente non garantisce la vita, ma definisce una “chimica attiva” con ingredienti e condizioni minime perché le reazioni non si fermino al primo passo. In chimica prebiotica, infatti, il problema non è mai solo produrre molecole, bensì farlo con continuità, in un ambiente che fornisca gradiente energetico, ricicli le specie, le concentri localmente e offra superfici o microambienti dove la cinetica sia sostenibile. Encelado, rispetto a un oceano sterile, offre proprio questo: energia (H₂ e idrotermale), basi (pH alto), sali (Na⁺, carbonati, fosfati), superfici (silice), e un meccanismo fisico di concentrazione naturale – la formazione dei granuli – che intrappola soluti in fasi solide o semi-solide, li porta in zone di pressione e temperatura diverse, li separa o li arricchisce selettivamente.
Accanto alle molecole e alle condizioni identificate, è rilevante il modo in cui le abbiamo misurate, perché da questo dipende l’affidabilità di ogni affermazione. Gli strumenti a bordo di Cassini hanno lavorato in due modalità complementari. Il CDA, investito dai granuli, produce spettri di frammenti: è un’analitica “dura”, distruttiva, ma capace di rivelare la presenza di famiglie funzionali grazie alle regole con cui i legami si rompono all’impatto. L’INMS, invece, ha campionato gas e vapori: fornisce segnali di specie volatili (acqua, CO₂, CH₄, NH₃, H₂) e, con maggiore difficoltà, delle minoritarie. La novità del lavoro su Nature Astronomy sta tutta nell’aver concentrato l’attenzione su granuli “freschi” – quelli raccolti subito oltre le fratture – nei quali la firma organica non è stata cancellata da mesi o anni di irraggiamento nell’anello E. Inoltre, gli autori hanno analizzato spettri di singoli granuli, non medie: in campioni così eterogenei, le medie diluiscono la rarità e appiattiscono la varietà; il singolo granulo, invece, può conservarla. È una lezione metodologica oltre che planetologica: per capire un oceano alieno, talvolta bisogna “ascoltare” ogni fiocco di neve separatamente.
“Sappiamo ormai con sicurezza, e con un livello di dettaglio sempre crescente, che gli ipotetici ambienti chimici prebiotici che i modelli indicano essere stati conduttivi per la vita nel nostro pianeta non sono un’eccezione”.
C’è poi la scala del fenomeno, che oggi conosciamo meglio: osservazioni nell’infrarosso hanno mostrato che il pennacchio d’acqua può estendersi per migliaia di chilometri, rifornendo di vapore lo spazio attorno a Saturno. Non aggiunge specie nuove, ma certifica la stabilità su scala di anni del “respiro” dell’oceano: un vantaggio pratico notevole, perché consente campionamenti ripetuti e confrontabili nel tempo e nello spazio. È come se Encelado avesse un polmone geologico che, a ogni ciclo mareale, porta all’esterno un po’ della sua chimica interna.
Tutto questo non significa che siamo arrivati alla prova della vita extraterrestre. Per passare da “chimica attiva” a “chimica del vivente” servono firme che la geochimica fatica a imitare. Ispirandosi a ciò che si è osservato sulla Terra, vi sono diverse proposte, ma Cassini non ha a bordo gli strumenti necessari a confermarle.
Intanto, si può leggere Encelado come un esperimento naturale su alcune ipotesi classiche dell’origine della vita. Se l’abiogenesi può avvenire in ambienti idrotermali alcalini con H₂ e CO₂, superfici minerali catalitiche e cicli di concentrazione, allora l’oceano di Encelado è un banco di prova privilegiato. La presenza di composti aromatici e ossigenati nei granuli freschi indica che si generano (o si preservano) strutture stabili ma reattive; l’abbondanza di fosfati solubili suggerisce che la chimica del legame fosfato non è proibita a priori; l’H₂ racconta di riduzioni possibili; l’HCN, se confermato, spalanca le vie dei nitrili e degli amminoacidi. Tutto converge verso un concetto semplice: esiste un “pool” organico variegato, alimentato da energia interna e modulato da superfici minerali, che subisce cicli fisici in grado di concentrare e separare. È molto? È poco? È esattamente il tipo di precondizione che, sulla Terra, i modelli più accreditati richiedono per far evolvere reti chimiche più complesse.
Naturalmente, bisogna fare attenzione a ciò che i pennacchi non sono: in particolare, non sono una sonda calata nell’oceano. Il campione che misuriamo è filtrato da vari passaggi – equilibrio gas-liquido nei condotti, degassamento, congelamento, accelerazione nel vuoto – ognuno dei quali seleziona e fraziona. È per questo che i granuli “freschi” sono così preziosi: più il campione è giovane, meno è stato rimaneggiato. Ed è per questo che analizzare singoli granuli ha senso: la chimica dell’oceano può essere disomogenea su micron e millimetri, con goccioline arricchite di una certa specie che, in un’analisi mediata, sparirebbero.
Le prossime mosse sono già immaginate: missioni che combinino una fase in orbita, per mappare e quantificare la variabilità dei getti, e un atterraggio morbido vicino alle fratture, per raccogliere neve fresca e analizzarla con suite di strumenti pensate per firme molecolari deboli e ambigue. Spettri a risoluzione molto più alta, ionizzazioni meno distruttive, colonne chirali, microfluidica capace di concentrare e separare, rivelatori isotopici sensibili a frazionamenti minuti. In parallelo, altri mondi oceanici – Europa, Ganimede, forse Tritone – serviranno da termine di confronto: capiremo se la combinazione “H₂ + pH alto + fosforo disponibile + organici diversificati” è una felice eccezione o una categoria ripetuta nel Sistema solare esterno.
A meno di colpi di fortuna, siamo ben lontani dall’avere la certezza della presenza attuale o passata di vita al di fuori della Terra; ma sappiamo ormai con sicurezza, e con un livello di dettaglio sempre crescente, che gli ipotetici ambienti chimici prebiotici che i modelli indicano essere stati conduttivi per la vita nel nostro pianeta non sono un’eccezione e sono riscontrati in una grande varietà di ambienti in angoli disparati del nostro universo, a partire dal Sistema solare, ove possiamo guardare in modo più diretto e con maggior dettaglio.
Le condizioni necessarie per lo sviluppo della vita sono quindi state uniche di un certo periodo della storia del nostro pianeta? No: ormai, ne abbiamo la prova.