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Enrico Bucci
Il sangue della Terra

Il Sangue Della Terra Cover Bucci
arte biologia chimica

Nel rosso arde qualcosa di ancestrale. Dall'ocra delle pitture rupestri al ferro che ci scorre nelle vene, nella chimica di un colore rintracciamo l'evoluzione dell'animo umano.

Un pigmento color sangue unisce i nostri rituali più antichi al cuore della chimica che ci dà la vita. Non è un caso che la parola ematite porti in essa il segno del sangue. Viene dal greco αἷμα (haima, “sangue”) perché la polvere di questo minerale di ferro è rossa come il sangue disseccato. Se il minerale intatto appare scuro, quasi nero metallico, basta sfregarlo sulla pietra per ottenere una scia rossa vivida. È ferro ossidato: essenzialmente la stessa sostanza che, legata all’ossigeno, circola nei nostri corpi e tinge di rosso il sangue. 

L’emoglobina del nostro sangue e l’ematite condividono nel ferro il segreto del loro rosso, anche se in contesti chimici molto diversi. Nell’ematite (di formula Fe₂O₃) il ferro è legato all’ossigeno in un reticolo cristallino: gli elettroni del ferro impegnato in questi legami chimici particolari assorbono la luce verde e blu, restituendo il rosso che vediamo. Nell’emoglobina, invece, il ferro è al centro di un anello organico chiamato porfirina (la stessa struttura di cui abbiamo discusso a proposito della clorofilla), che lo tiene in una “tasca” di quattro atomi di azoto. Anche qui gli elettroni del ferro e quelli dell’anello porfirinico assorbono la luce a energie più alte (sempre nel verde-blu), e riflettono o trasmettono principalmente la componente rossa dello spettro. Il parallelo chimico sta quindi nelle transizioni elettroniche del ferro legato in queste due diverse configurazioni chimiche: in entrambi i casi, quando la luce colpisce il composto, alcuni elettroni del ferro assorbono fotoni di certi colori (il verde e il blu), passando a stati energetici più alti, mentre i fotoni rossi non trovano elettroni pronti ad assorbirli e vengono riflessi o trasmessi. È questa risposta del ferro alla luce che fa sì che ematite ed emoglobina nel sangue – pur essendo un minerale da un lato e una proteina complessa dall’altro – sfoggino lo stesso intenso colore rosso.

La similitudine del colore non sfuggì agli antichi, che indovinarono la relazione fra le due sostanze senza avere nessuna nozione precisa in merito, per pura similitudine cromatica. Ocra rossa è il nome che diamo a quella terra colorata ricca di ematite, usata come pigmento fin dalla preistoria. E persino nel linguaggio quotidiano resta traccia di questo legame simbolico: la parola “rubrica” (oggi sinonimo di sezione o titolo, come questa stessa rubrica di divulgazione) originariamente indicava l’ocra rossa con cui, in epoca romana, si tracciavano appunti e titoli in rosso. Il rosso era il segno dell’importanza e della vita, qualcosa di speciale da evidenziare; ed è rimasto tale, se pensiamo al colore dei cartelli stradali.

Fin dall’alba dell’umanità, quel colore intenso nelle pietre ha esercitato un fascino profondo. Possiamo immaginare un nostro antenato raccogliere una pietra scura e scoprirne, frantumandola, il cuore rosso polvere sotto la superficie. Deve essere sembrato di tenere tra le mani la sostanza stessa della vita, il sangue della terra. Non a caso, l’ocra rossa è probabilmente il primo pigmento con cui l’uomo ha dipinto il mondo: ne sono state trovate tracce in siti preistorici antichissimi. In Africa meridionale, ad esempio, blocchi di ocra incisi con motivi astratti datati a circa 75.000 anni fa testimoniano che già esisteva un senso estetico e simbolico: qualcuno graffiava linee geometriche nella pietra rossa, forse per comunicare un’idea, forse per puro piacere artistico. Ancora prima, popolazioni arcaiche raccoglievano e utilizzavano ocra: in alcuni siti africani se ne sono rinvenuti frammenti lavorati risalenti a oltre 200.000 anni fa, segni di un’abitudine consolidata, anche se non possiamo sapere con certezza come venisse impiegata. Ma è soprattutto attorno a 100.000 anni fa che l’ocra rossa compare in contesti che parlano chiaramente di simbolo.

“In Africa meridionale, ad esempio, blocchi di ocra incisi con motivi astratti datati a circa 75.000 anni fa testimoniano che già esisteva un senso estetico e simbolico: qualcuno graffiava linee geometriche nella pietra rossa, forse per comunicare un’idea, forse per puro piacere artistico”.

In una grotta del Levante, oggi Israele, archeologi hanno portato alla luce quella che potrebbe essere una delle più antiche sepolture rituali del mondo. Oggi la chiamiamo Tinshemet Cave: un antro buio popolato da pipistrelli, nascosto tra le colline pietrose vicino all’odierna Shoham. Qui, circa 100 millenni or sono, un gruppo di umani pose deliberatamente i propri morti a riposare. I corpi – cinque individui in tutto – furono deposti in piccole fosse scavate nel suolo della caverna e adagiati in posizione fetale, rannicchiati come a imitare il sonno o un ritorno al grembo materno. Questa posa raccolta è nota agli archeologi come posizione di seppellimento intenzionale, un tratto di rispetto e cura. Ma accanto a quelle ossa antiche c’era dell’altro: oggetti insoliti, apparentemente lasciati come corredo funerario. Piccoli ciottoli di basalto levigato, ossa di animali, e soprattutto centinaia di frammenti di ocra rossa e arancione.

Quei pezzi di ocra, sparsi intorno ai resti umani, non avevano alcuna funzione pratica nella vita quotidiana: non servivano a tagliare, a cacciare, ad accendere il fuoco. Erano pezzi di pietra colorata, alcuni portati lì da decine se non centinaia di chilometri di distanza. Qualcuno aveva viaggiato, o scambiato, per procurarsi quella terra rossa da deporre accanto ai defunti. Possiamo quasi vedere la scena: una comunità radunata nella penombra tremolante delle torce, il fumo dei fuochi rituali che si mescola all’odore acre della caverna. Un corpo senza vita viene adagiato nella terra. Forse un familiare, un compagno di caccia, un bambino. Attorno a lui vengono posti piccoli oggetti cari o simbolici: un osso animale, forse parte di un pasto condiviso o offerto per il viaggio nell’aldilà; un ciottolo di fiume levigato, senza utilità ma bello a vedersi, raccolto chissà dove; e poi una mano sparge polvere rossa sul corpo, sulle mani intrecciate, sul volto ormai immobile. Un pugno di terra color sangue a coprire il sonno eterno.

Quel gesto, ripetuto e fissato nel suolo di Tinshemet, è per noi un messaggio in bottiglia dal Paleolitico. Indica che quelle persone concepivano la morte in modo diverso da qualsiasi animale: attribuivano significati, forse credevano in qualcosa oltre la vita tangibile, avevano una spiritualità. L’ocra rossa, in questo contesto, diventa simbolo. Forse rappresentava il sangue stesso – il sangue versato, o la vita che si voleva restituire simbolicamente al corpo inerme. In molte culture, anche millenni dopo, il rosso sarà il colore della rigenerazione e della rinascita: pensiamo alle uova dipinte di rosso come simbolo di vita o ai riti agrari in cui si sparge vino o sangue sulla terra. È affascinante pensare che tutto possa essere iniziato così lontano nel tempo, con un pugno di ocra su un corpo. Un gesto semplice. Un rituale primordiale che accende la scintilla del pensiero simbolico.

Gli archeologi che hanno studiato Tinshemet parlano di una “innovazione rivoluzionaria” per la nostra specie: i primi indizi di un comportamento nuovo, che va al di là della sopravvivenza quotidiana. Sepolto sotto strati di cenere e calcare (il caso ha voluto che i frequenti fuochi nella grotta, forse anch’essi parte del rito, creassero ceneri che hanno aiutato a conservare intatto tutto fino a noi), questo sito ha restituito oltre 500 frammenti di ocra di varie dimensioni attorno ai resti umani, segno che quell’atto non fu sporadico né casuale. Non era un singolo individuo eccentrico: era una pratica collettiva, ripetuta nel tempo. E Tinshemet non è un caso isolato. Negli anni ’30 del Novecento, in altre grotte israeliane come Skhul e Qafzeh, furono trovati scheletri di Homo sapiens risalenti anch’essi a circa 100.000 anni fa, associati a ocra rossa e oggetti particolari. Quelle scoperte pionieristiche sollevarono domande e dubbi – all’epoca l’archeologia non aveva metodi raffinati come oggi, e qualcuno ipotizzò persino che l’ocra potesse essere un fenomeno naturale. Ma oggi, con Tinshemet studiata sistematicamente, il quadro si fa chiaro: quei pigmenti rossi nelle sepolture paleolitiche non sono incidenti, ma parte di un quadro culturale diffuso.

Quello che rende Tinshemet ancora più intrigante è il contesto umano in cui tutto questo avveniva. 100.000 anni fa, il Levante era un crocevia di popoli. Era la terra in cui gli Homo sapiens (provenienti dall’Africa) incontravano i Neanderthal (provenienti dall’Europa). Le due specie umane convivevano in quelle regioni, forse condividendo territori, risorse e – come oggi cominciamo a capire – idee e pratiche. Gli esperti ancora discutono a quale gruppo appartengano esattamente i resti di Tinshemet: potrebbero essere Homo sapiens arcaici, potrebbero essere Neanderthal, oppure una popolazione ibrida. La verità è che attorno a quel periodo le differenze tra i gruppi sfumano: sappiamo che ci furono incroci genetici (molti di noi oggi portano nel DNA un’eredità neanderthaliana) e, con ogni probabilità, ci furono anche scambi culturali. Tinshemet ce ne dà prova tangibile. Gli utensili di pietra trovati nella grotta presentano caratteristiche “ibride”: tecniche di scheggiatura che richiamano sia manufatti tipici dei sapiens sia dei Neanderthal. I resti animali mostrano abitudini di caccia condivise. E quelle sepolture con ocra e oggetti rituali suggeriscono che entrambe le umanità, fianco a fianco, partecipavano a un medesimo modo di concepire la morte e forse il sacro. È come se in quel luogo e in quell’epoca fosse nata una sorta di melting pot culturale preistorico: due umani diversi che imparano l’uno dall’altro, che magari competono ma anche si ispirano a vicenda, sviluppando parallelamente costumi simili. L’uso dell’ocra rossa nei riti funebri potrebbe essere stato uno di questi costumi condivisi – un linguaggio simbolico universale comprensibile a tutti gli uomini, al di là delle differenze fisiche.

“Il rosso è la vita che arde, la presenza del sacro nel materiale”.

Pensare ai Neanderthal spesso evocava, fino a pochi decenni fa, immagini di creature brutali e senza arte. Ma scoperte come questa ridisegnano completamente quel pregiudizio. Già sappiamo che i Neanderthal sapevano accendere il fuoco, lavorare la pietra con abilità e probabilmente decorare il proprio corpo (sono stati trovati pigmenti e perforazioni su conchiglie che suggeriscono l’uso di pendenti e forse pitture corporali). Ora li immaginiamo, insieme ai nostri antenati diretti, impegnati in qualcosa di ancor più profondamente umano: dare senso alla morte attraverso un rituale. Se davvero, come pare, anche i Neanderthal cospargevano di ocra i loro defunti, significa che anche loro guardavano il colore del sangue e vi attribuivano un significato che trascendeva la realtà immediata. Significa che il pensiero simbolico – considerato a lungo un’esclusiva dell’uomo moderno – ardeva già in altre forme umane. Forse ce lo siamo scambiati, questo fuoco interiore, quando le due specie si incontrarono; forse era un potenziale latente in entrambi, che si è acceso quando le condizioni giuste (ambientali, sociali, cognitive) si sono presentate. In ogni caso, l’ocra rossa di Tinshemet è la testimonianza che tutte le genti di quel tempo, in quei luoghi, erano ormai ben più che semplici sopravvissuti: erano portatori di cultura, di rituali e simboli.

Da quel lontanissimo Paleolitico medio, il filo rosso dell’ocra non ha più smesso di accompagnarci. Lo ritroviamo migliaia di anni dopo nelle pitture rupestri sparse per il mondo – pensiamo ai magnifici animali di Lascaux o Altamira, danzanti sulle pareti in ocra e carbone, o alle impronte di mani in negativo lasciate soffiando pigmento rosso sulle pareti delle caverne. Lo ritroviamo nelle tombe dei nostri antenati Cro-Magnon del Paleolitico superiore, dove gli scheletri sono spesso cosparsi di ocra come a creare un’aura colorata attorno al corpo (un celebre esempio è la sepoltura del “Vecchio di Cro-Magnon” in Francia, risalente a circa 28.000 anni fa, trovata con abbondante ocra rossa). Secoli e millenni più tardi, nelle prime civiltà neolitiche, l’ocra continuerà ad essere impiegata in cerimonie e manifestazioni artistiche: veniva mescolata all’argilla per dipingere le pareti delle capanne, stesa sul corpo dei defunti o dei partecipanti a riti di passaggio, persino usata come primitivo cosmetico per adornare il volto e il corpo nelle occasioni speciali. Ci sono tracce di ocra rossa sulle statue antropomorfe neolitiche e perfino nelle tombe dei faraoni in Egitto (l’ocra per truccare guance e labbra, un tocco di vitalità sul volto della mummia). Ogni epoca ha reinterpretato quel simbolo a modo suo, ma il nucleo resta lo stesso: il rosso è la vita che arde, la presenza del sacro nel materiale.

È straordinario come un semplice ossido di ferro metta in dialogo discipline e dimensioni così diverse dell’esperienza umana. Da un lato è chimica e geologia: è il minerale che nasce dalla lenta ruggine della Terra, dal metallo che reagisce con l’aria. Dall’altro è biologia: è cugino del pigmento che scorre in noi, dell’emoglobina che colora il sangue e ci tiene in vita trasportando l’ossigeno. E poi diventa cultura: colore, arte, linguaggio, rito. L’ocra rossa rappresenta uno dei primi ponti tra il mondo naturale e il mondo interiore dell’uomo. Possiamo quasi dire che in quella polvere colorata la scienza e il simbolo iniziano il loro dialogo: la scienza oggi ci permette di datare, analizzare e capire quei frammenti di ocra nelle grotte; il simbolo, invece, è ciò che quei frammenti rappresentavano per i nostri antenati – e che ancora riusciamo ad intuire, empaticamente, attraverso i millenni. L’evoluzione umana non è stata solo un fatto di anatomia o di tecnologia: è stata anche un’evoluzione mentale e spirituale, fatta di momenti chiave in cui abbiamo cominciato a vedere il mondo con occhi nuovi. Uno di quei momenti è stato certamente quando abbiamo iniziato a usare un colore per significare qualcosa al di là del colore stesso. Quando la polvere rossa di un minerale è diventata sangue finto, segno di amore e di morte, promessa di rinascita.

L’ocra rossa è quindi davvero una “molecola di bellezza” in senso pieno. Non solo per la sua tonalità calda e intensa, capace di abbellire un volto o una parete rupestre, ma per la bellezza concettuale di ciò che incarna: il punto in cui scienza, simbolo, cultura ed evoluzione si incontrano. Ogni granello d’ocra trovato accanto a un antico scheletro ci parla della nascita del pensiero simbolico; ogni traccia di pigmento rosso su una roccia ci sussurra la storia di un artista senza nome che cercava di lasciare un segno di sé. È il rosso dell’ocra che collega il nostro passato più remoto al presente, ricordandoci che, fin dall’inizio, siamo creature capaci di vedere oltre l’immediato, di attribuire significati profondi ai materiali più semplici. Così come il ferro ossidato lega la terra e il sangue, l’ocra rossa lega la nostra umanità biologica alla nostra umanità culturale: è polvere di minerale ed è al tempo stesso polvere di sogni e memorie, sparsa sulle pietre e sulle ossa per dichiarare che in quel rosso acceso arde qualcosa che non muore, la scintilla eterna dell’animo umano.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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