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Enrico Bucci
Strutture per piegare la luce

Strutture Per Piegare La Luce Cover Bucci
biologia chimica natura Scienza

È solo la sostanza della materia a dare vita ai colori, oppure la forma gioca un ruolo sorprendente e determinante? Un viaggio variopinto tra farfalle, pavoni, coleotteri e colibrì visti al microscopio.

In cosa risiede il colore? La risposta più immediata è: in un pigmento, cioè in una molecola che assorbe parte delle componenti della luce bianca solare, riflettendone altre (il colore che percepiamo). E in molti casi è proprio così: il rosso vivo di un petalo di papavero, il verde di una foglia, il giallo intenso della curcuma derivano da pigmenti, cioè da molecole che assorbono selettivamente alcune lunghezze d’onda della luce visibile e ne riflettono altre. Il colore, in questi casi, è una proprietà chimica: dipende dalla disposizione degli elettroni nella molecola e dal modo in cui essi reagiscono all’energia trasportata dai fotoni. Cambiando struttura molecolare, cambia il colore.

Ma esistono colori che non derivano dalle proprietà di nessun pigmento. Colori che nascono invece da una struttura tridimensionale della materia che la luce colpisce. Colori, cioè, che derivano non dalla chimica materia, ma dalla sua forma. Li troviamo per esempio sulle ali di certe farfalle, come quelle del genere Morpho, che mostrano un blu metallico intensissimo e mutevole, impossibile da attribuire a un pigmento. Questo tipo di colore non sbiadisce col tempo, non si dissolve in solvente, e non può essere riprodotto semplicemente cercando la molecola con le proprietà chimiche “giuste”. 

Per capire da dove provenga, bisogna osservare come è fatta fisicamente la superficie dell’ala. Le ali delle farfalle non sono lisce, ma coperte da minuscole scaglie sovrapposte, simili a tegole, ciascuna larga pochi decimi di millimetro. Se si osserva una scaglia al microscopio elettronico, si scopre che la sua struttura non è compatta e liscia, ma presenta dei dettagli ben definiti su scala molto piccola: una serie di lamelle longitudinali, sottili e regolarmente distanziate, costruite con un materiale chiamato chitina.

La chitina è un polimero biologico formato da lunghe catene di zuccheri modificati, precisamente N-acetilglucosamina, un derivato del glucosio. La struttura regolare e la presenza di gruppi ammidici le conferiscono rigidità e resistenza meccanica, rendendola ideale per costruire strutture di sostegno e protezione. La chitina è insolubile in acqua e negli agenti organici più comuni, ha proprietà antibatteriche e una notevole stabilità chimica, caratteristiche che la rendono estremamente utile negli organismi che la producono. È il principale componente dell’esoscheletro degli insetti, delle pareti cellulari dei funghi, delle mandibole dei crostacei, delle scaglie delle ali delle farfalle e persino dei becchi di alcuni molluschi cefalopodi. 

“Esistono colori che non derivano dalle proprietà di nessun pigmento. Colori che nascono invece da una struttura tridimensionale della materia che la luce colpisce. Colori, cioè, che derivano non dalla chimica materia, ma dalla sua forma”.

La chitina, soprattutto, può essere disposta in strutture con lavorazioni intricatissime su scale molto piccole. Questo è possibile perché le sue catene polimeriche, costituite da unità ripetute con gruppi funzionali regolari, tendono ad auto-organizzarsi in reticoli ordinati. Inoltre, la forte coesione tra le catene, dovuta alla presenza di numerosi legami a idrogeno, garantisce una stabilità meccanica e conformazionale elevata anche quando il materiale viene strutturato a livello submicrometrico. Queste caratteristiche la rendono uno dei pochi biopolimeri naturali che possono essere utilizzati per costruire materiali con dettagli definiti fino alla scala dei nanometri. Questa proprietà, unita alle già menzionate rigidità meccanica e resistenza agli attacchi microbici, rende la chitina estremamente vantaggiosa per la costruzione di ogni sorta di apparato biologico cui si richieda robustezza e scolpitura di dettaglio.

Ma, da sola, la chitina è un materiale trasparente, di colore biancastro. Non ha proprietà coloranti. È l’organizzazione geometrica della chitina, non la sua composizione chimica, a determinare l’effetto visivo.

Come possono quindi le ali chitinose delle farfalle del genere Morpho possedere quella meravigliosa colorazione?

Il punto sta proprio nella lavorazione tridimensionale, su scala nanometrica, della chitina.

Quando la luce colpisce le lamelle della scaglia, incontra una struttura regolare il cui passo – cioè la distanza tra due elementi consecutivi – è dell’ordine delle centinaia di nanometri, paragonabile alla lunghezza d’onda della luce visibile. In questa condizione, la luce non si limita a “rimbalzare” sulla superficie, ma penetra tra le lamelle e viene riflessa da più strati regolarmente distanziati, ciascuno dei quali agisce come una superficie parzialmente riflettente. Ogni riflessione genera un’onda luminosa, e quando queste onde emergono e si sovrappongono, le differenze di percorso che la luce ha compiuto all’interno della struttura (per colpire gli strati le creste di chitina rialzate, e per colpire i solchi e le cavità più interne nella scaglia) determinano il modo in cui si combinano: alcune onde arrivano in fase tra loro, cioè le loro creste e i loro ventri coincidono nel tempo e nello spazio e si sommano (rafforzandosi), altre arrivano sfasate e si cancellano. Questo fenomeno, noto come interferenza, dipende in modo critico dalla distanza fra i piani riflettenti e dalla lunghezza d’onda della luce: così, solo alcune lunghezze d’onda vengono selettivamente rafforzate, mentre le altre vengono attenuate o eliminate. È proprio questa selezione fisica delle lunghezze d’onda riflesse che produce l’effetto di colore visibile.

Il risultato è che, a seconda dell’angolo con cui si guarda la superficie e dell’angolo con cui la luce la colpisce, il sistema seleziona solo certe lunghezze d’onda da riflettere. Ed è proprio la predominanza di quelle lunghezze d’onda che determina il colore percepito dall’occhio. Non si tratta quindi di un colore “contenuto” nella chimica della materia, ma prodotto dal modo in cui la sua struttura riflette con modalità diverse le diverse componenti della luce solare.

“Da sola, la chitina è un materiale trasparente, di colore biancastro. Non ha proprietà coloranti. Come possono quindi le ali chitinose delle farfalle del genere Morpho possedere quella meravigliosa colorazione?”

Questo tipo di colorazione prende il nome di colorazione strutturale. Non si tratta di una colorazione ottenuta attraverso pigmenti, ma di un effetto puramente fisico che emerge dal modo in cui la luce interagisce con una superficie la cui struttura è ordinata su scala comparabile a quella della lunghezza d’onda della luce visibile. In questi casi, il colore è determinato dalla posizione, dalla periodicità e dalla forma delle microstrutture che compongono la superficie.

Pensateci bene: la forma di una struttura ne determina il colore. I dettagli intricati, della giusta lunghezza e disposti in architetture regolari, piegano la luce generando quell’effetto di iridescenza che vediamo non solo nelle ali delle farfalle Morpho, ma anche nei gusci metallici di alcuni scarabei (come quelli del genere Chrysina), nelle piume del pavone, nelle squame iridescenti dei pesci, e persino sulla superficie di alcune conchiglie marine. In tutti questi casi, il colore non dipende da pigmenti, ma dall’interazione tra la luce e strutture regolari su scala submicroscopica.

Possiamo a questo punto chiederci se esistano caratteristiche evolutivamente vantaggiose conferite dall’uso del colore strutturale.

Una delle più ovvie è la durata. I pigmenti biologici possono ossidarsi, fotodegradarsi, dissolversi in solventi o alterarsi con il pH. La colorazione strutturale, al contrario, è stabile fintanto che la struttura fisica viene mantenuta. Un’ala di farfalla può riflettere luce intensamente anche decenni dopo la morte dell’insetto, senza perdere nulla in intensità o saturazione, proprio perché il colore non dipende da una molecola, ma da distanze e allineamenti tra micro-rilievi. Questo fa sì che il segnale visivo sia persistente nel tempo e nello spazio, un vantaggio notevole in ambienti esposti alla luce o in strutture che devono mantenere una funzione in condizioni che degraderebbero facilmente i pigmenti usuali.

Un secondo vantaggio è la purezza cromatica. Molti pigmenti naturali assorbono porzioni ampie dello spettro solare e riflettono combinazioni di frequenze: ne risultano colori tendenti al grigio, opachi, desaturati. I colori strutturali, invece, derivano da interferenze e riflessioni selettive, e possono riflettere in modo quasi esclusivo una singola banda dello spettro visibile. È per questo che molte delle tonalità blu o verde metallizzato più intense osservabili in natura sono colori strutturali – come appunto nelle ali delle farfalle Morpho, nei coleotteri del genere Chrysina, nelle piume dei colibrì.

“Nella materia vivente, la forma non è un’espressione secondaria della sostanza, ma una modalità autonoma di selezione, adattamento e significato”.

Un terzo aspetto, che l’evoluzione ha spesso sfruttato, è la variazione angolare del colore: l’iridescenza. Poiché l’interferenza dipende dall’angolo d’incidenza della luce e da quello di osservazione, il colore strutturale cambia al minimo movimento dell’organismo o del punto di vista. Questo può essere usato in chiave comunicativa (per attirare un potenziale partner solo se posizionato nel punto giusto), ma anche difensiva. Una farfalla in volo che mostra riflessi mutevoli può confondere un predatore: il bersaglio sembra muoversi più rapidamente o in modo incoerente, rendendo difficile calcolare una traiettoria d’attacco. È un’interferenza, questa volta, non solo ottica, ma cognitiva. Alcuni uccelli, come il colibrì dal collo fiammeggiante (Selasphorus), mostrano regioni colorate che diventano visibili solo quando il capo è inclinato in modo preciso. In questi casi, la funzione comunicativa è legata direttamente alla geometria ottica: solo un osservatore ben posizionato riceve il segnale completo, tutti gli altri no.

In altri casi, la colorazione strutturale è stata sfruttata in modo ancora diverso. Alcuni insetti, come i cetonini e certi curculionidi, possiedono esoscheletri iridescenti che riflettono anche l’ultravioletto, proteggendo i tessuti sottostanti da danni da radiazione o interferendo con la percezione visiva di predatori sensibili all’UV. Altri, come certi pesci pelagici o scarabei tropicali, usano strutture multilamellari per riflettere selettivamente l’infrarosso, contribuendo alla termoregolazione passiva in ambienti caldi o esposti al sole. Sono superfici riflettenti selettive, costruite senza specchi né rivestimenti, solo con lo spessore e la periodicità della chitina o della guanina cristallizzata.

Infine, la colorazione strutturale offre un controllo localizzato e modulabile del colore: cambiando leggermente le distanze tra le lamelle, la forma delle strutture o l’orientamento delle fibre, è possibile cambiare le proprietà del colore strutturale risultante, con i vantaggi che possiamo facilmente immaginare in termini di risposta flessibile all’ambiente e comunicazione. 

La colorazione strutturale mostra che l’apparenza visibile non dipende necessariamente dalla materia di cui qualcosa è fatto, ma da come quella materia è organizzata. Un polimero trasparente, privo di qualsiasi proprietà cromatica, può generare un colore stabile, selettivo, funzionale, semplicemente per la precisione con cui è disposto nello spazio. In questo, la biologia non si limita a sfruttare le leggi della fisica: le incorpora nei propri vincoli costruttivi. E ci ricorda che, nella materia vivente, la forma non è un’espressione secondaria della sostanza, ma una modalità autonoma di selezione, adattamento e significato.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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