Breve storia del neurotrasmettitore che lega le origini della vita, l’evoluzione del sistema nervoso e il funzionamento quotidiano della nostra mente.
Tra le molecole che animano la nostra mente, poche hanno avuto la stessa fama della dopamina. È stata ribattezzata in mille modi: “molecola del piacere”, “neurotrasmettitore della ricompensa”, “sostanza della motivazione”. Ma nessuna etichetta è davvero adeguata. La dopamina è più simile a un filo invisibile che tiene insieme processi diversissimi: ci permette di camminare con fluidità, di provare soddisfazione quando otteniamo qualcosa, di rimanere motivati di fronte a un compito difficile, persino di costruire la memoria di ciò che ci ha sorpreso. Senza dopamina, la vita psichica e corporea non scorrerebbe: lo si vede in modo drammatico nei pazienti con malattia di Parkinson, in cui la morte progressiva dei neuroni dopaminergici della substantia nigra – una piccola regione del mesencefalo, così chiamata per la sua colorazione scura dovuta alla neuromelanina – rende i gesti lenti e incerti, come se il corpo fosse rimasto senza carburante.
Il viaggio della dopamina comincia però molto prima dell’uomo. Nei protozoi e in alcuni batteri compaiono già composti catecolaminici, molecole affini alla dopamina che hanno come base un anello catecolico, cioè un esagono di atomi di carbonio simile al benzene con due gruppi –OH adiacenti, e una catena amminica, ovvero una coda con azoto che le rende solubili e reattive. In questi organismi unicellulari esse regolano funzioni vitali come l’adesione al substrato o la risposta a stimoli ambientali, forme rudimentali di comunicazione chimica che prefigurano i futuri linguaggi neuronali. Negli invertebrati pluricellulari la dopamina ha un ruolo in comportamenti basilari. Nelle lumache di mare come l’Aplysia per esempio rinforza l’associazione tra il contatto con il cibo e l’attivazione dei muscoli della radula, la lingua dentellata con cui l’animale raschia il substrato. Nei crostacei la sua concentrazione modula la probabilità di aggressione, e il blocco dei recettori dopaminergici, quelle proteine di membrana che agiscono come serrature per la molecola, riduce drasticamente i comportamenti competitivi. Negli insetti, come il moscerino della frutta Drosophila, regola i cicli di sonno e veglia: animali privi di recettori dopaminergici restano letargici, incapaci di mantenere la veglia, mentre la stimolazione dei neuroni dopaminergici induce attività motoria intensa. In tutti questi casi, la dopamina funziona come modulatore: non crea un comportamento da sola ma ne amplifica o ne smorza l’intensità, adattando la risposta al contesto.
Nei primi vertebrati la funzione si precisa ulteriormente. Le lamprede, antichi pesci privi di mascelle che conservano caratteristiche arcaiche della nostra stessa linea evolutiva, usano la dopamina per modulare i circuiti locomotori spinali, segno che la regolazione del movimento da parte di questa molecola è antica quanto la spina dorsale. Con i vertebrati superiori, fasci di neuroni dopaminergici che originano dalla substantia nigra e dall’area tegmentale ventrale, una regione del mesencefalo, proiettano allo striato, parte dei gangli della base, integrando i comandi motori della corteccia e coordinando l’avvio e la fluidità del movimento. Qui i meccanismi diventano più raffinati grazie alla presenza di cinque recettori principali: D1, D2, D3, D4 e D5. I recettori D1 e D5, appartenenti alla famiglia “D1-like”, tendono ad aumentare l’attività del neurone che li esprime, mentre i recettori D2, D3 e D4, della famiglia “D2-like”, la riducono. Questo sistema di interruttori contrapposti permette un controllo finissimo: nello striato, la dopamina facilita la cosiddetta via diretta, attraverso i recettori D1, che avvia il movimento e al tempo stesso frena la via indiretta, attraverso i recettori D2, che lo sopprime. È dall’equilibrio tra queste due vie che nasce la fluidità del gesto, e quando i neuroni dopaminergici degenerano, come accade nel Parkinson, l’equilibrio si spezza e sopraggiungono rigidità e lentezza.
A questo punto la domanda si impone: perché proprio la dopamina è stata conservata per centinaia di milioni di anni e ha assunto ruoli così diversi? La spiegazione risiede nella sua chimica e nella sua economia. È una molecola semplice da sintetizzare, perché deriva dalla tirosina, un amminoacido abbondante in natura, e bastano pochi passaggi enzimatici per produrla. È chimicamente versatile, perché può ossidarsi e ridursi facilmente, scambiando elettroni e quindi interagendo con molte proteine diverse, il che la rende un segnale rapido e flessibile. È stabile quanto basta per viaggiare nello spazio extracellulare, ma reattiva al punto giusto per trasmettere informazioni. Inoltre, la sua parentela stretta con altre catecolamine come noradrenalina e adrenalina ha permesso alla selezione naturale di ricombinare un toolkit molecolare già disponibile, differenziando nuove funzioni senza doverle inventare da capo. Lo stesso vale per i recettori: la distinzione tra recettori eccitatori D1-like e recettori inibitori D2-like è comparsa molto presto ed è rimasta intatta in nematodi, insetti, pesci e mammiferi. Ciò che è cambiato, attraverso le epoche, è stata la stratificazione dei ruoli: la dopamina nata come modulatore di alimentazione e movimento ha potuto essere riutilizzata per guidare funzioni cognitive più complesse – dalla motivazione all’apprendimento, dalla memoria alla flessibilità comportamentale – senza mai perdere il suo nucleo originario di segnale che adatta il comportamento al contesto.
“Senza dopamina, la vita psichica e corporea non scorrerebbe: lo si vede in modo drammatico nei pazienti con malattia di Parkinson, in cui la morte progressiva dei neuroni dopaminergici rende i gesti lenti e incerti, come se il corpo fosse rimasto senza carburante”.
Quando, ad esempio, sentiamo la spinta a inseguire un obiettivo, come terminare un lavoro o raggiungere una meta sportiva, ciò che proviamo come motivazione ha alla base un rilascio di dopamina nel nucleo accumbens, una regione profonda del cervello che attribuisce valore agli stimoli. Qui la dopamina segnala che lo sforzo è “importante” e degno di essere perseguito. Proprio questo meccanismo diventa vulnerabile nel gioco d’azzardo: la dopamina scaricata di fronte a vincite inaspettate rinforza il comportamento anche quando la probabilità di vincere è minima. È stato dimostrato che nei giocatori patologici le stesse scariche dopaminergiche che normalmente segnalano un successo imprevisto si attivano anche di fronte a quasi-vincite o a sequenze casuali, spingendo a ripetere la scommessa. Lo stesso circuito è dirottato dalle droghe: cocaina e anfetamine, per esempio, impediscono la ricaptazione della dopamina dalle sinapsi, inondando i circuiti mesolimbici e generando sensazioni di euforia artificiale. Oppioidi e nicotina stimolano indirettamente i neuroni dopaminergici, creando ugualmente dipendenza. Ma non serve una sostanza per piegare questo sistema: i social lo hanno fatto su scala globale. Studi di neuroimaging hanno mostrato che notifiche, like e messaggi inaspettati attivano le stesse aree dopaminergiche che si accendono di fronte a una vincita al gioco. L’imprevedibilità della ricompensa – una nuova notifica che non sappiamo quando arriverà, né se sarà positiva o negativa – è ciò che mantiene l’utente connesso, proprio come nel gioco d’azzardo. La dopamina non distingue tra slot machine e feed di Instagram: risponde allo schema fondamentale della sorpresa, incentivando la ripetizione del comportamento.
Se invece pensiamo alla forza di un ricordo legato a un’emozione, come una scena che resta impressa perché ci ha spaventato o ci ha reso felici, anche in questo caso c’è lo zampino della dopamina. Nell’amigdala, la piccola struttura a forma di mandorla che valuta la rilevanza emotiva, la dopamina amplifica il segnale di salienza e consolida la memoria dell’evento. Nell’ippocampo, che trasforma le esperienze in ricordi duraturi, la dopamina indica quali eventi meritano di essere registrati. Esperimenti con manipolazioni farmacologiche e optogenetiche hanno mostrato che, quando si stimolano i neuroni dopaminergici durante un’esperienza, i ricordi associati diventano più stabili e difficili da cancellare.
Un altro ambito di competenza della dopamina è l’attenzione: la capacità di mantenere lo sguardo e la mente fissi su un compito nonostante le distrazioni. Essa dipende dall’azione della dopamina nella corteccia prefrontale, la sede del ragionamento e della pianificazione. Qui i recettori D1 modulano la memoria di lavoro, quella che ci permette di tenere in mente poche informazioni per il tempo necessario a risolvere un problema. Troppa poca dopamina significa distrazione, troppa dopamina produce disorganizzazione: il sistema funziona dentro una finestra ottimale. Studi con farmaci che potenziano o riducono l’attività dopaminergica hanno mostrato che modificando questo equilibrio si altera direttamente la capacità di attenzione e la coerenza del pensiero.
Questi effetti dipendono da due modalità di segnalazione complementari. La “segnalazione tonica” è un livello di base relativamente stabile di dopamina che imposta la sensibilità dei circuiti, determinando lo stato generale di motivazione e vigilanza. La “segnalazione fasica” è invece fatta di impulsi rapidi e brevi scariche, che segnalano le novità e soprattutto gli errori di previsione, cioè la differenza tra ciò che ci aspettavamo e ciò che è accaduto. È questa modalità fasica che addestra il cervello, rendendo la dopamina il motore dell’apprendimento per rinforzo.
Non meno affascinante è la distribuzione periferica della dopamina. Se di solito la immaginiamo confinata nei circuiti cerebrali della motivazione e del movimento, la realtà è che una parte enorme della dopamina del nostro corpo si trova altrove, nel tratto gastrointestinale. Nell’intestino umano, infatti, le cellule enterocromaffini – piccole sentinelle endocrine disperse tra le cellule che rivestono la mucosa – non si limitano a produrre serotonina, ma sintetizzano anche dopamina in quantità rilevanti. Per anni si è pensato che questa fosse una stranezza senza conseguenze: la dopamina intestinale, incapace di attraversare la barriera ematoencefalica, sarebbe rimasta confinata nella periferia.
“La dopamina, molecola primordiale nata per regolare funzioni basilari come l’alimentazione e il movimento, proprio per la sua antichità e versatilità, è il ponte ideale per il dialogo con i microbi”.
Oggi sappiamo che non è così. È emerso un dialogo inatteso tra intestino e cervello, in cui la dopamina è protagonista. A renderlo possibile è anche il microbiota, quell’immenso consorzio di microrganismi che popola il nostro apparato digerente. Alcuni batteri, come Escherichia coli o Enterococcus faecalis, sono capaci di sintetizzare dopamina direttamente, utilizzando vie biosintetiche parallele a quelle delle nostre cellule. Altri batteri non la producono, ma ne modulano il metabolismo influenzando gli enzimi che la degradano o la trasformano. È un fatto sorprendente: minuscoli microbi, distanti da noi per centinaia di milioni di anni di evoluzione, parlano lo stesso linguaggio chimico dei nostri neuroni. E non è un linguaggio qualunque, ma quello della dopamina, la molecola che regola motivazione, movimento, apprendimento e memoria.
Come avviene la comunicazione? Nell’intestino la dopamina rilasciata dai batteri o dalle cellule enterocromaffini incontra i recettori dopaminergici espressi dai neuroni del sistema nervoso enterico, una fitta rete di cellule nervose che avvolge l’intestino e ne regola i riflessi autonomi. Centinaia di milioni di neuroni che comunicano con il cervello principale attraverso il nervo vago, il grande fascio parasimpatico che collega stomaco, intestino e cuore al tronco encefalico. È lungo questa via che i segnali dopaminergici periferici possono modulare l’attività centrale. Nel topo, alterare la composizione del microbiota cambia i livelli di dopamina nello striato, la stessa regione che controlla il movimento e la motivazione, e modifica i comportamenti di ricerca della ricompensa. In modelli di Parkinson, manipolare i batteri intestinali attenua i deficit motori, un indizio fortissimo che questo asse non è un dettaglio marginale, ma un possibile bersaglio terapeutico.
La dopamina, molecola primordiale nata per regolare funzioni basilari come l’alimentazione e il movimento, proprio per la sua antichità e versatilità, è il ponte ideale per il dialogo con i microbi. Se un segnale è conservato dall’evoluzione per centinaia di milioni di anni, è probabile che anche organismi molto distanti lo utilizzino: così la dopamina diventa lingua franca tra cellule umane e comunità microbiche che ospitiamo. Una lingua che permette scambi non solo metabolici, ma anche comportamentali: ansia, appetito, vulnerabilità a malattie neurodegenerative sembrano essere modulati, almeno in parte, da questa rete dopaminergica che lega intestino e cervello.
Non è difficile immaginare le implicazioni. Se la dopamina intestinale può modulare la motivazione e i circuiti della ricompensa, allora la composizione del microbiota può influenzare il nostro umore, la propensione a cercare gratificazioni, persino la resilienza a stress e malattie psichiatriche. Studi recenti suggeriscono connessioni tra microbiota e ansia, tra microbi intestinali e comportamento sociale, e la dopamina appare sempre più come un mediatore centrale di questi effetti. Quello che si pensava confinato ai circuiti cerebrali interni si rivela parte di un’architettura più ampia, che comprende miliardi di alleati invisibili dentro di noi.
Che la dopamina — nata come segnale cellulare primitivo — oggi leghi il nostro cervello ai miliardi di microbi che abitano l’intestino è l’ultimo colpo di scena che restituisce la misura della sua straordinaria versatilità. Una molecola piccola, elegante, con un anello catecolico e una catena amminica, capace di raccontare una storia che unisce le origini della vita, l’evoluzione del sistema nervoso e il funzionamento della nostra mente quotidiana.