Articolo
Enrico Bucci
Il gusto della materia viva

biologia chimica evoluzione

Attraverso l'umami, il quinto gusto, la lingua riconosce proteine e nucleotidi liberati dalla trasformazione degli alimenti. I recettori traducono questi segnali chimici in piacere: un codice evolutivo che indica una fonte sicura di nutrimento.

Il brodo che sobbolle, il pomodoro che cuoce lentamente, la crosta spessa di un formaggio stagionato. In tutti, un filo comune di sapore profondo, difficile da definire eppure immediatamente riconoscibile. È un gusto pieno, rotondo, che riempie la bocca e sembra unire odori, consistenze e memoria. Quando lo si avverte, la lingua riconosce un segnale preciso che parla di sostanza, di nutrimento, di succulenza. È il gusto dell’umami.

All’inizio del Novecento, un chimico giapponese, Kikunae Ikeda, analizzando l’alga kombu usata per il brodo dashi (dal tipico sapore umami), isolò una polvere bianca cristallina. Era glutammato di sodio, il sale dell’acido glutammico. L’acido glutammico è uno dei venti amminoacidi che costituiscono le proteine, cioè le lunghe catene di molecole che formano la struttura e le funzioni di tutti gli organismi viventi. Ogni proteina è fatta da una sequenza di amminoacidi diversi, uniti da legami chimici chiamati peptidici; quando queste catene si rompono, gli amminoacidi tornano liberi. È allora che l’acido glutammico diventa percepibile: la lingua lo riconosce come segnale di cibo proteico, di azoto organico disponibile.

Ikeda comprese che il glutammato era la causa di quella sensazione di pienezza e lo chiamò umami, “delizioso”. Il suo esperimento dimostrò che l’uomo possiede un quinto gusto fondamentale, distinto dai quattro classici – dolce, salato, amaro e acido – ciascuno dei quali è legato a una diversa esigenza evolutiva. Il dolce segnala zuccheri e dunque energia rapida, il salato segnala la presenza di sali minerali indispensabili, l’acido indica fermentazione o decomposizione incipiente, l’amaro allerta contro sostanze potenzialmente tossiche. L’umami, invece, segnala proteine e nucleotidi, la materia prima della crescita e della riparazione cellulare.

I recettori che lo identificano sono complessi proteici situati nelle cellule gustative della lingua. Si chiamano T1R1 e T1R3, e appartengono a una grande famiglia di recettori chiamata “accoppiati a proteine G”. Questi recettori funzionano come sensori chimici: quando una molecola compatibile, come l’acido glutammico, si lega a essi, la loro forma tridimensionale cambia leggermente, generando un segnale elettrico che viene trasmesso al cervello. Il cervello interpreta quel segnale come un gusto specifico. È un processo biofisico di riconoscimento, simile al funzionamento di un’interfaccia molecolare.

La percezione dell’umami non dipende soltanto dal glutammato. Altre molecole ne amplificano o modulano l’effetto, in particolare alcuni nucleotidi: l’inosinato (IMP, o inosina monofosfato) e il guanilato (GMP, o guanosina monofosfato). I nucleotidi sono i mattoni chimici del DNA e dell’RNA: ciascuno è formato da tre parti – una base azotata, uno zucchero e un gruppo fosfato – e serve come unità informativa per costruire le sequenze genetiche. Quando un organismo muore o subisce una lenta degradazione, come durante la stagionatura o la cottura, le catene del DNA e dell’RNA si frammentano, liberando nucleotidi liberi. È allora che l’inosinato e il guanilato diventano percepibili come amplificatori dell’umami.

Il meccanismo con cui queste molecole agiscono è sinergico: quando glutammato e nucleotidi si trovano insieme, la risposta del recettore aumenta in modo non lineare. Il T1R1/T1R3 riconosce il glutammato come segnale principale, ma la presenza di IMP o GMP ne stabilizza la conformazione attiva, aumentando l’intensità del segnale nervoso. È per questo che un brodo di carne o un dashi di alghe e pesce essiccato risultano così ricchi: l’interazione molecolare amplifica la sensazione di “pienezza” gustativa. Questa sinergia è uno degli esempi più eleganti di come l’evoluzione biologica e la cultura culinaria abbiano imparato a sfruttare gli stessi princìpi.

“L’uomo possiede un quinto gusto fondamentale, distinto dai quattro classici – dolce, salato, amaro e acido – ciascuno dei quali è legato a una diversa esigenza evolutiva”.

La selezione naturale ha scolpito nei vertebrati la capacità di riconoscere queste sostanze perché chi riusciva a distinguere con maggiore precisione le fonti di azoto organico aveva più probabilità di sopravvivere. L’azoto è un elemento essenziale delle proteine e degli acidi nucleici, e quindi di tutte le forme di vita. Tuttavia, in natura non è facilmente disponibile in forma assimilabile: le piante devono “fissarlo” dal suolo o dall’aria tramite processi microbici, mentre gli animali lo ottengono consumando altri organismi. Il gusto dell’umami segnala quindi un cibo ricco di materia organica pronta a essere assimilata, ma non ancora deteriorata. È un linguaggio chimico costruito dall’evoluzione trasformando in piacere il reperimento di nutrimento indispensabile.

La sensibilità all’umami è diffusa in molti animali. I pesci, gli anfibi e i mammiferi possiedono recettori simili ai nostri. Nei felini, che hanno perso i recettori per il gusto dolce, l’umami è particolarmente sviluppato, coerente con una dieta interamente carnivora. Negli erbivori, invece, la sensibilità è più bassa, poiché la ricerca del nutrimento si basa su altri indizi sensoriali, come l’odore delle foglie o la loro consistenza. Ciò dimostra che il gusto è una funzione ecologica, selezionata per ottimizzare le scelte alimentari.

Nel cervello umano, il segnale proveniente dai recettori T1R1/T1R3 si integra con altre vie sensoriali, in particolare con il gusto salato e con l’olfatto retronasale, cioè l’insieme di odori che risalgono dal cavo orale alle cavità nasali durante la masticazione. Il risultato è la sensazione complessa di “ricchezza” o “corpo” del sapore. Questa integrazione avviene nella corteccia insulare e in aree limbiche del cervello, dove gusto, olfatto e memoria interagiscono. L’attivazione simultanea di queste regioni produce una risposta affettiva positiva: il piacere del mangiare. Da un punto di vista evolutivo, il piacere è una forma di apprendimento biologico, un meccanismo di rinforzo che spinge a ripetere comportamenti utili alla sopravvivenza.

Molte culture hanno scoperto empiricamente come suscitare l’umami molto prima di comprenderne la chimica. Il dashi giapponese combina l’alga kombu, ricca di glutammato, con le scaglie di tonnetto essiccato (katsuobushi), ricche di inosinato. Il brodo di pesce mediterraneo (magari con il pomodoro), o la salsa di pomodoro cotta lentamente, seguono lo stesso principio: la lunga esposizione al calore rompe le proteine e libera amminoacidi e nucleotidi. Anche il parmigiano reggiano, dopo anni di stagionatura, accumula enormi quantità di glutammato libero – fino a dieci grammi per etto – motivo per cui una minima quantità basta a trasformare il sapore di un piatto. Ogni tradizione culinaria, in epoche e luoghi diversi, ha trovato una via chimica per arrivare allo stesso risultato sensoriale.

Il gusto dell’umami si colloca sulla soglia fra il vivo e il trasformato. È il sapore delle proteine che si liberano dai loro legami, dei tessuti che si disgregano prima di marcire. In termini biochimici, ciò significa che le grandi macromolecole si frammentano in unità più piccole, ancora integre e commestibili. 

Non a caso, l’umami è legato a processi lenti come la fermentazione, la stagionatura e la cottura prolungata. La fermentazione è un processo biologico in cui i microrganismi trasformano le molecole organiche del cibo – zuccheri o proteine – in sostanze più semplici, liberando energia. Durante questa trasformazione si liberano anche glutammato e nucleotidi. La stagionatura, invece, è un lento processo enzimatico e chimico che rompe le proteine senza decomporre completamente la materia, mantenendola stabile e sicura. Il risultato è sempre lo stesso: la liberazione di amminoacidi e nucleotidi che il gusto interpreta come segnale di valore nutrizionale.

“Ogni volta che gustiamo un alimento ricco di glutammato o di nucleotidi, riconosciamo inconsciamente la materia di cui siamo fatti”.

L’evoluzione ha definito con precisione la finestra in cui il cibo è percepito come appetibile. Quando la decomposizione avanza oltre un certo limite, gli amminoacidi si trasformano in ammine biogene e ammoniaca, sostanze dal carattere alcalino e dall’odore pungente. Il cervello interpreta questi composti come pericolosi, associandoli a tossine e batteri patogeni. L’umami, al contrario, rappresenta il punto di equilibrio: un cibo già trasformato, ma ancora sicuro. È il confine sensoriale fra ciò che nutre e ciò che può uccidere.

Il glutammato, oltre che nel gusto, svolge un ruolo centrale nel sistema nervoso. È il principale neurotrasmettitore eccitatorio del cervello, cioè la molecola con cui i neuroni si scambiano segnali elettrici. Quando un impulso nervoso raggiunge la terminazione di un neurone, viene liberato glutammato, che si lega ai recettori della cellula successiva, permettendo la trasmissione del segnale. Senza di esso non potremmo pensare, imparare o ricordare. La stessa molecola che rende saporito un brodo partecipa ai processi che producono la coscienza. È un esempio perfetto di una metafora molto sfruttata, quella della continuità chimica fra nutrimento e pensiero.

Ogni volta che gustiamo un alimento ricco di glutammato o di nucleotidi, riconosciamo inconsciamente la materia di cui siamo fatti. Il piacere che ne deriva non è soltanto gustativo, ma cognitivo. Mangiare, in questo senso, significa riconoscere l’altro come parte della propria stessa sostanza.

La cultura umana ha trasformato questa necessità biologica in arte. Controllando la fermentazione, la cottura e la maturazione, l’uomo ha imparato a gestire la trasformazione della materia organica per generare sapore, identità e memoria. Ciò che l’evoluzione aveva stabilito come segnale di proteine disponibili è diventato linguaggio culturale, simbolo di comfort e di pienezza. Ma la base resta la stessa: un sistema sensoriale raffinato che traduce in piacere il riconoscimento chimico della vita.

Quando un brodo ristretto o una salsa densa sembrano avere “profondità”, avviene qualcosa di preciso: le molecole di glutammato e di inosinato attivano i recettori gustativi, l’olfatto retronasale aggiunge l’informazione volatile degli aromi, e il cervello integra tutto in un’unica percezione coerente. La sensazione di completezza è dunque una costruzione neurobiologica che segnala l’equilibrio fra stimoli chimici e necessità fisiologiche. È così che la vita ci educa, con i suoi codici molecolari, a trovare bello o buono ciò che ci sostiene.

L’umami è la traccia più chiara del legame fra la chimica e la percezione. Nella lingua, nel cervello e nelle molecole si intreccia la memoria evolutiva di milioni di anni di selezione: il piacere come forma di conoscenza istintiva stampata nei nostri geni, il gusto come modo di riconoscere nella materia ciò che è utile al nostro sostentamento.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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