Articolo
Enrico Bucci
Il messaggio plurimillenario del DNA antico

Il Messaggio Plurimillenario Del Dna Antico
biologia chimica evoluzione

La paleogenomica unisce discipline distantissime e ci mostra la sorprendente e meravigliosa capacità della vita di resistere alla degradazione, nonostante la sua fragilità.

Il DNA antico è oggi uno degli strumenti più potenti per interrogare il passato.

Con esso possiamo leggere la storia biologica non dalle ossa o dai fossili, ma dalle molecole stesse. Ogni frammento, anche il più corto, conserva un residuo di informazione, un ordine chimico che attraversa il tempo con una tenacia sorprendente. Nei laboratori di paleogenomica, minuscole quantità di polvere o di sedimento diventano archivi di biodiversità, capaci di raccontare chi abitava un luogo, quali specie convivevano e come sono cambiate nel tempo.

Che il DNA potesse sopravvivere per decine di millenni era un’ipotesi azzardata. La molecola è fragile: l’acqua ne rompe i legami, l’ossigeno la ossida, le citosine si deaminano trasformandosi in uracili. Ogni reazione chimica lascia il segno, e nel giro di pochi millenni il genoma si riduce a una miriade di frammenti di poche decine di basi. Per anni si è pensato che simili resti fossero inutilizzabili, troppo rovinati per dire qualcosa. Poi, a partire dagli anni Duemila, la tecnologia ha ribaltato la prospettiva.

Le nuove piattaforme di sequenziamento massivo hanno permesso di leggere milioni di frammenti in parallelo, e le librerie a singolo filamento di recuperarli anche quando erano minuscoli. A quel punto, l’informatica ha fatto il resto: i pattern di danno – mutazioni caratteristiche come le transizioni C→T e G→A alle estremità dei filamenti – sono diventati marcatori di autenticità. Così il degrado, da ostacolo, è diventato strumento di riconoscimento.

Il primo grande risultato è arrivato nel 2010, quando il gruppo di Svante Pääbo, che per questo ha ricevuto il Nobel, pubblicò il genoma di Neanderthal ottenuto da ossa trovate nella grotta di Vindija, in Croazia. I dati mostravano che gli esseri umani moderni non africani portano ancora una piccola percentuale di DNA neandertaliano, prova di antichi incroci. Negli anni seguenti altri genomi hanno arricchito il quadro: a Bacho Kiro, in Bulgaria, sono stati trovati individui vissuti circa 45.000 anni fa, con segmenti neandertaliani lunghi, segno di incroci recentissimi. Nel 2023 e 2024 nuovi studi sui reperti di Ranis, in Germania, e di Zlatý kůň, in Repubblica Ceca, hanno confermato che i primi sapiens europei si incrociarono più volte con popolazioni di Neanderthal locali.

Il metodo è lo stesso anche per i resti animali o ambientali. Nel 2022 un gruppo dell’Università di Copenaghen ha isolato DNA vecchio oltre due milioni di anni da sedimenti prelevati sulla penisola di Peary Land, in Groenlandia. I frammenti, lunghi appena 25 basi, hanno permesso di ricostruire un ecosistema pleistocenico fatto di betulle, pioppi, mastodonti e lemming. È il record attuale di antichità per un genoma, reso possibile dal fatto che le molecole erano rimaste inglobate nelle argille minerali che le avevano protette dalla degradazione.

La chimica di questi protocolli è tanto semplice quanto rigorosa: sciogliere lentamente la matrice ossea, liberare le molecole, catturarle sulla silice, lavarle da contaminazioni e amplificarle. Ogni passaggio richiede attenzione assoluta. Una cellula moderna o una goccia d’acqua non sterile possono alterare l’intero risultato. Quando infine il genoma viene ricostruito, non si ottiene una sequenza continua, ma un mosaico probabilistico: milioni di frammenti che, sovrapposti, restituiscono regioni leggibili con un certo grado di errore stimato.

Dove prima si parlava di culture, ora si possono riconoscere popolazioni; dove l’archeologia interpretava le forme, la genetica misura le frequenze alleliche. Le analisi dei genomi neolitici europei hanno mostrato un brusco ricambio demografico con l’arrivo dei popoli della steppa, portatori della cultura Yamnaya, che hanno contribuito a rimodellare non solo i geni, ma anche le lingue e le tecniche agricole. È una storia scritta nei numeri, non negli oggetti, e che riporta la biologia dentro la storia umana.

Lo stesso approccio ha chiarito come le innovazioni culturali abbiano modificato la nostra evoluzione. Il gene LCT, che consente la digestione del lattosio in età adulta, si è diffuso in Europa solo dopo l’avvio dell’allevamento, circa quattromila anni fa, e la selezione positiva si può seguire lungo serie temporali di resti scheletrici. Varianti del gene TYRP1, legate alla pigmentazione chiara, aumentano invece con la latitudine e si rafforzano nel corso dell’età del bronzo. La genetica, così, traduce in dati quantitativi ciò che l’archeologia aveva intuito come cambiamento di stile di vita.

Oggi la ricerca si spinge ancora oltre. Tecniche di “spatial metagenomics” permettono di associare i frammenti di DNA alla posizione esatta che occupavano nei sedimenti, distinguendo le tracce di un singolo individuo da quelle di un intero ambiente. È un modo nuovo di interrogare la materia, a metà tra la biologia, la geologia e la storia, in cui ogni molecola diventa una testimonianza.

Ogni nuova sequenza di DNA antico aggiunge un frammento alla storia di una parentela che non avevamo mai sospettato fosse così intricata. Quando si parla di Neanderthal, non si parla più di un popolo estinto: ma di una componente che vive dentro di noi. L’1-2% del loro genoma, ereditato dagli incroci avvenuti fuori dall’Africa circa 60.000 anni fa, è ancora presente in tutte le popolazioni non africane. Questo piccolo contributo genetico, apparentemente marginale, ha lasciato tracce misurabili: alcune varianti influenzano la risposta immunitaria, altre regolano la cheratina e la struttura della pelle, altre ancora modulano la suscettibilità a malattie come il diabete di tipo 2 o la depressione.

In un certo senso, il DNA antico ha reso la nostra specie meno isolata nel tempo.

Per decenni abbiamo pensato ai Neanderthal come a un esperimento fallito dell’evoluzione. La genetica ha mostrato che furono invece parte di una rete di popolazioni in scambio continuo, più simile a un arcipelago che a un albero genealogico. In questo sistema, le frontiere biologiche erano mobili. I Neanderthal, diffusi dall’Europa all’Asia centrale, incontrarono più volte i sapiens in arrivo dall’Africa. Ogni incontro lasciò una traccia genetica, diluita nel tempo ma mai scomparsa.

La precisione del metodo ha permesso di calcolare quanto tempo intercorse tra questi incroci e la morte degli individui analizzati. I resti di Bacho Kiro, datati a 45.000 anni fa, contengono segmenti neandertaliani lunghi decine di megabasi: un segnale così esteso indica che l’antenato neandertaliano si trovava solo cinque o sei generazioni più indietro. In altre parole, quegli uomini avevano bisnonni o trisavoli Neanderthal. I reperti di Zlatý kůň, in Repubblica Ceca, rappresentano una popolazione ancora più antica, geneticamente distinta da tutte le linee umane successive, e dimostrano che i primi sapiens europei non appartenevano a un’unica ondata migratoria, ma a più arrivi, alcuni dei quali non lasciarono discendenti diretti.

“Le tecniche di “spatial metagenomics” costituiscono un modo nuovo di interrogare la materia, a metà tra la biologia, la geologia e la storia, in cui ogni molecola diventa una testimonianza”.

Le relazioni diventano ancora più complesse quando si sposta lo sguardo verso l’Asia.

Nel 2010, nello stesso anno del genoma di Neanderthal, dallo studio di un piccolo frammento osseo rinvenuto nella grotta di Denisova, nei monti Altaj, emerse una nuova popolazione: i Denisoviani. Il loro DNA era diverso da quello dei Neanderthal e dei sapiens, ma abbastanza vicino da indicare un’origine comune. Da allora i resti diretti di Denisoviani si contano sulle dita di una mano – qualche osso, un molare, un frammento mandibolare in Tibet – ma la loro eredità genetica è molto ampia: vive nel genoma di molte popolazioni asiatiche e oceaniche, fino al 5% in alcune isole del Pacifico.

Una delle scoperte più affascinanti è che un gene denisoviano, EPAS1, ha contribuito all’adattamento all’altitudine nei tibetani moderni, migliorando l’efficienza del trasporto di ossigeno. In questo caso l’introgressione – il trasferimento di un gene da una specie all’altra – non è un dettaglio marginale della storia umana, ma un vero episodio di evoluzione per prestito: una soluzione biologica nata in un’altra popolazione e incorporata nella nostra.

Gli ultimi anni hanno aggiunto complessità e precisione. Nel 2023 un gruppo internazionale ha pubblicato la sequenza di due individui trovati nella grotta di Chagyrskaya, sempre nei monti Altaj: una femmina adulta e un’adolescente, madre e figlia. È la prima coppia genetica mai identificata in una popolazione arcaica, e la loro parentela diretta mostra che le comunità neandertaliane erano piccole, probabilmente composte da poche decine di individui. L’analisi del cromosoma Y e del DNA mitocondriale indica una struttura sociale patrilocale, in cui le femmine si spostavano tra gruppi diversi. È un dettaglio antropologico, ma di una forza sorprendente: l’organizzazione sociale emerge da una statistica genetica, non da un manufatto.

Nel 2024, lo stesso consorzio ha confrontato genomi di Neanderthal e Denisoviani con quelli dei sapiens più antichi d’Asia, mostrando una rete di incroci multipli. Le popolazioni della Cina meridionale e del Sud-est asiatico conservano tracce di introgressione denisoviana indipendenti da quelle dei Melanesiani, segno che gli incontri furono numerosi e distribuiti nel tempo. La storia umana, vista dal DNA, assomiglia meno a una migrazione lineare e più a una trama di scambi intermittenti tra gruppi che si separano e si ritrovano.

Ogni nuovo dato obbliga a riscrivere il confine tra “noi” e “gli altri”.

Non esiste più un punto preciso in cui l’uomo moderno emerge dal resto: esistono gradazioni, interazioni, ibridazioni che si accumulano e si fondono. In questo quadro, la parola “specie” perde rigidità. Le definizioni zoologiche basate sull’interfertilità, nate per descrivere animali moderni, faticano a adattarsi a un passato dove gruppi umani con tratti diversi si incrociavano regolarmente.

La paleogenomica ha anche riportato alla luce popolazioni di cui non si conosce l’aspetto né il nome. Nel 2023 un gruppo del Max Planck Institute ha identificato tracce di un’antica linea umana sconosciuta in individui vissuti in Asia sud-orientale, probabilmente derivata da un ceppo pre-denisoviano. In assenza di fossili riconoscibili, il genoma è diventato l’unica prova della loro esistenza. È un caso emblematico del modo in cui il DNA sta riscrivendo la paleoantropologia: non più dall’osso alla molecola, ma dalla molecola al possibile corpo.

Anche l’Europa recente continua a riservare sorprese.

Nel 2024 e 2025 sono stati sequenziati nuovi individui del Paleolitico superiore provenienti da Grotta Paglicci (Puglia) e dal sito di Kostënki, in Russia. I dati confermano che, dopo i primi contatti con i Neanderthal, la popolazione europea attraversò un collo di bottiglia genetico seguito da una rapida espansione. L’analisi dei tratti immunitari mostra un progressivo accumulo di varianti provenienti dai Neanderthal, probabilmente vantaggiose nel nuovo ambiente euroasiatico.

Ogni genoma antico, in fondo, è un esperimento naturale di adattamento.

Le mutazioni non raccontano solo la discendenza, ma anche le risposte ambientali: resistenza alle infezioni, metabolismo energetico, tolleranza al freddo. Nei Neanderthal, ad esempio, i geni coinvolti nella sintesi lipidica e nella termoregolazione mostrano un’efficienza particolare, coerente con la vita in climi rigidi. In alcuni casi, le stesse vie metaboliche sono state successivamente selezionate anche nei sapiens che si spostarono verso nord, segno di una convergenza evolutiva più che di una differenza.

Guardando oggi a quell’enorme archivio molecolare che cresce ogni anno, si ha la sensazione di assistere alla trasformazione della paleoantropologia in una scienza quantitativa. Dove prima c’erano ipotesi basate su frammenti ossei, ora ci sono grafi di affinità genetica e modelli di flusso genico. Ma il risultato non è una riduzione della complessità: al contrario, è un modo per restituire al passato la sua varietà reale, fatta di incontri, errori, fusioni, scomparse e ritorni.

L’immagine che emerge è più umana, non meno.

Non più l’albero severo di una specie che sostituisce un’altra, ma una rete di scambi in cui le differenze si mescolano. E dentro quella rete, ogni frammento di DNA antico, per quanto piccolo, continua a parlare.

Il DNA non sopravvive solo nei corpi. Anche quando l’organismo si disgrega, le sue molecole restano intrappolate nell’ambiente: nel ghiaccio, nelle argille, nel guano, nella torba, nei sedimenti marini. È questa la logica del cosiddetto environmental DNA, o eDNA, che negli ultimi anni ha esteso il campo d’azione dell’archeologia molecolare ben oltre l’uomo. Ciò che fino a poco tempo fa era invisibile – la presenza di una specie in un luogo remoto o in un’epoca perduta – oggi può essere ricostruito leggendo frammenti di sequenza dispersi nel terreno.

Ogni frammento di DNA ambientale è una molecola rilasciata da cellule morte, incorporata nel substrato e protetta da minerali o sostanze organiche. Le argille, per esempio, legano i fosfati del DNA con una forza sufficiente a isolarlo dall’acqua e dall’ossigeno, rallentandone la degradazione. In condizioni ideali – basse temperature, pH neutro, assenza di radiazione ultravioletta – la molecola può sopravvivere per centinaia di migliaia di anni. Fino a pochi anni fa sembrava impossibile superare il milione. Poi, nel 2022, una scoperta in Groenlandia ha cambiato la scala.

“Le molecole estratte dai sedimenti o dal ghiaccio non partecipano più ai cicli vitali, ma conservano ancora la loro capacità di portare informazione. È un paradosso solo apparente: l’inerzia chimica può diventare una forma di memoria”.

Nel nord della penisola di Peary Land, in depositi fluviali del Pleistocene, un gruppo dell’Università di Copenaghen guidato da Eske Willerslev ha recuperato frammenti di DNA vecchi oltre due milioni di anni. Le sequenze, lunghe in media appena 25 basi, hanno permesso di ricostruire un intero ecosistema scomparso: una tundra popolata da betulle, pioppi, renne, lemming, oche e mastodonti. Le molecole erano intrappolate in minerali argillosi che ne avevano preservato la struttura come in un archivio naturale. È la più antica testimonianza genetica oggi conosciuta, e ha dimostrato che l’informazione biologica può resistere molto più a lungo di quanto si ritenesse possibile.

Quel risultato ha avuto un impatto immediato. Ha costretto i ricercatori a rivedere le stime di stabilità del DNA, ma soprattutto ha mostrato che la materia stessa può diventare un archivio informativo. I sedimenti non sono più un semplice contesto, ma un supporto attivo di conservazione. Da allora, il sequenziamento del DNA ambientale è stato applicato a depositi glaciali, guano fossilizzato, concrezioni di grotte e perfino residui di polvere in siti archeologici. Ogni volta, la scoperta è la stessa: frammenti di vita che persistono ben oltre la vita.

Nell’Artico, l’eDNA ha rivelato la presenza di specie scomparse decine di millenni prima delle stime ottenute dai fossili. In Siberia, sedimenti di 25.000 anni fa contengono ancora tracce di mammut e rinoceronti lanosi; in Alaska, il DNA di bue muschiato e cavallo pleistocenico mostra una sopravvivenza più lunga del previsto dopo il massimo glaciale. Anche nei laghi subglaciali dell’Antartide sono stati trovati frammenti di DNA batterico e algale di età superiore al milione di anni, custoditi sotto chilometri di ghiaccio.

Ma il campo più dinamico è quello che unisce la paleogenomica animale alla storia ecologica.

Nel 2023 un consorzio internazionale ha pubblicato il genoma quasi completo di un mammut lanoso di 52.000 anni fa, perfettamente conservato nel permafrost siberiano. Il confronto con altri esemplari ha mostrato che la diversità genetica della specie diminuì gradualmente, segno di un declino demografico lento e progressivo, non di un’estinzione improvvisa. È un’informazione fondamentale: mostra che la scomparsa di molte specie pleistoceniche non fu solo il risultato di catastrofi o caccia umana, ma anche di un indebolimento genetico cumulativo.

Il DNA dei mammut ha anche rivelato tratti di adattamento straordinari.

Alcune varianti di geni coinvolti nella termoregolazione – come TRPV3, che regola la sensibilità al freddo, o SLC24A5, che influenza la pigmentazione – compaiono indipendentemente anche in orsi polari e bisonti artici. È un caso di evoluzione convergente osservabile a livello molecolare: specie lontane che rispondono in modo simile allo stesso vincolo ambientale. In questo senso, la paleogenomica non studia solo la storia, ma la fisica della vita – il modo in cui la materia vivente esplora le soluzioni possibili all’interno delle leggi della termodinamica e della mutazione.

Le piante raccontano un’altra parte della storia.

Nel 2023 un gruppo di ricerca di Zurigo ha analizzato DNA di sedimenti lacustri delle Alpi, scoprendo come le comunità vegetali si siano riorganizzate dopo l’ultima glaciazione. Le specie pioniere – salici, betulle, ginepri – comparivano appena poche decine d’anni dopo il ritiro dei ghiacciai. L’eDNA, in questo caso, ha fornito una risoluzione temporale di pochi decenni, impossibile da ottenere con i pollini fossili. È un esempio di come le tecniche nate per la preistoria umana stiano diventando strumenti per la paleoecologia e per lo studio dei cambiamenti climatici.

Un’altra applicazione, ancora più recente, riguarda i suoli e i reperti archeologici. Nel 2024, ricercatori dell’Università di Vienna hanno isolato DNA umano da sedimenti della grotta di Satsurblia, in Georgia, risalenti a 25.000 anni fa, senza alcun osso o dente associato. È la prima dimostrazione che il materiale genetico disperso nel suolo può sostituire la mancanza di resti anatomici, ricostruendo una presenza biologica invisibile ma reale. Il principio è semplice: anche l’assenza di corpo non significa assenza di informazione.

Questi risultati aprono la strada a un modo diverso di pensare la materia biologica: non qualcosa che si esaurisce con la morte, ma un flusso di informazione che il tempo può rallentare, non cancellare. Ogni molecola sopravvissuta diventa un frammento di storia fisica, e la distinzione tra biologico e geologico si fa più sottile.

C’è anche un aspetto più concreto e immediato: la comprensione dei limiti di conservazione del DNA antico è utile per stimare la possibilità di ritrovamenti futuri. I modelli termici elaborati dopo la scoperta groenlandese suggeriscono che il DNA può mantenersi intatto per oltre tre milioni di anni se confinato in ambienti costantemente freddi e privi di ossigeno. In questo scenario, regioni come l’Alaska, la Siberia e l’Antartide diventano archivi naturali di informazione genetica. Non è un caso che i progetti di trivellazione del permafrost e dei ghiacciai polari siano oggi condotti con protocolli di biocontenimento rigorosi: ogni carotaggio è potenzialmente un documento della biosfera perduta.

Nel frattempo, la tecnologia continua a spingersi verso la miniaturizzazione e l’automazione. Sistemi di sequenziamento portatili, basati su nanopori, consentono di leggere il DNA direttamente sul campo, riducendo i tempi e i rischi di contaminazione. È lo stesso principio usato per rilevare tracce biologiche su Marte o nelle lune ghiacciate del sistema solare: l’idea che la materia possa conservare la sua memoria informativa non è più un’astrazione, ma un parametro sperimentale.

Il DNA antico, umano o ambientale che sia, sta cambiando il modo in cui pensiamo la durata della vita sulla Terra. Ogni nuova sequenza è una verifica dei limiti fisici della memoria biologica, un esperimento naturale di stabilità. Il genoma non è solo un archivio della storia evolutiva, ma anche un registro della materia e delle sue trasformazioni. In ciascun frammento, ciò che leggiamo non è soltanto una sequenza di basi, ma la cronaca delle reazioni chimiche che l’hanno accompagnata per millenni.

Questa prospettiva sposta il confine tra ciò che consideriamo vivo e ciò che definiamo residuo. Le molecole estratte dai sedimenti o dal ghiaccio non partecipano più ai cicli vitali, ma conservano ancora la loro capacità di portare informazione. È un paradosso solo apparente: l’inerzia chimica può diventare una forma di memoria. Per questo ogni frammento di DNA antico è insieme testimonianza biologica e documento geologico.

Nell’arco di pochi decenni, la paleogenomica ha unito discipline che un tempo si ignoravano: biologia molecolare, geochimica, statistica, storia evolutiva. Il risultato non è soltanto un insieme di dati più precisi, ma una visione più coerente della continuità della vita. Le stesse regole fisiche che oggi governano la conservazione del DNA in un permafrost artico spiegano anche la fragilità delle molecole che ci compongono. L’analisi del passato diventa così un modo per misurare la resistenza della vita alla degradazione, e per comprendere i limiti entro i quali l’informazione biologica può sopravvivere.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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