Emissario tra le piante, medicina per gli umani, l'acido salicilico difende i vegetali ed è alla base dell'aspirina. La sua storia dimostra la continuità tra chimica e natura.
L’acido salicilico, e il suo sale chiamato salicilato, è una delle molecole più antiche e versatili della chimica biologica. È presente in un gran numero di piante, dove regola funzioni di difesa, comunicazione e sviluppo; ma è anche alla base di una delle più importanti conquiste della medicina moderna, l’acido acetilsalicilico, il principio attivo dell’aspirina. In questa duplice vita – messaggero vegetale e farmaco umano – si condensa un’intera storia naturale della conoscenza: quella di una sostanza che la vita ha inventato per sé e che la mente umana ha imparato a comprendere, riprodurre e infine perfezionare.
Nelle piante, il salicilato non è un semplice metabolita secondario, ma una molecola di regolazione. La sua presenza si concentra nei tessuti giovani, nelle foglie e nelle cortecce, dove la cellula vegetale lo sintetizza a partire dall’amminoacido fenilalanina, lungo una via biochimica chiamata via dello shikimato. È una catena di reazioni che conduce alla formazione di acidi aromatici, fra cui l’acido benzoico, da cui deriva il gruppo carbossilico e l’anello fenolico dell’acido salicilico. L’intero processo è controllato da enzimi che rispondono a segnali di stress, infezione o cambiamento ambientale. Quando una pianta viene aggredita da un fungo o da un batterio, o subisce un danno meccanico, la concentrazione locale di acido salicilico cresce rapidamente e si diffonde, attivando geni di difesa in altre parti della pianta. È il meccanismo noto come “resistenza sistemica acquisita”: una sorta di memoria immunitaria vegetale che rende l’intero organismo più pronto a rispondere a futuri attacchi.
Questo comportamento fu osservato sperimentalmente già negli anni Settanta, quando si scoprì che trattando una foglia con una sostanza infettiva, anche le foglie non infettate mostravano una maggiore resistenza. Solo più tardi si identificò l’acido salicilico come il messaggero responsabile. Da allora, la sua funzione è apparsa in molte altre risposte vegetali: dalla regolazione della fioritura al controllo della traspirazione, dalla maturazione dei frutti alla gestione dello stress termico. È una molecola che comunica lo stato fisiologico del sistema e che coordina la risposta: un ormone vegetale, nel senso più pieno del termine.
L’acido salicilico agisce modificando l’attività di proteine sensibili allo stato redox, cioè alla condizione ossidativa della cellula. In particolare, influenza la produzione di perossido di idrogeno e di radicali reattivi dell’ossigeno, segnali chiave nella comunicazione intracellulare delle piante. Quando aumenta la concentrazione di salicilato, il potenziale redox cambia, e una serie di proteine regolatrici si attivano o si disattivano. Ne risulta una risposta coordinata che può estendersi a tutta la pianta. In termini funzionali, il salicilato agisce come un modulatore del flusso informativo tra cellule e tessuti, permettendo alla pianta di comportarsi come un sistema integrato.
Nel linguaggio della chimica, l’acido salicilico è una molecola piccola e ordinata. È formato da un anello esagonale di sei atomi di carbonio, che i chimici chiamano “anello benzenico”: una struttura stabile e comune in molte sostanze naturali aromatiche, dai profumi alle resine vegetali. Su questo anello si trovano due gruppi reattivi che ne determinano il comportamento. Il primo è un gruppo ossidrile, cioè un atomo di ossigeno e uno di idrogeno legati insieme, capace di formare legami con l’acqua e con le proteine. Il secondo è un gruppo carbossile, formato da un atomo di carbonio legato a due di ossigeno, uno dei quali porta una carica acida. I due gruppi si trovano vicini sullo stesso lato dell’anello – in quella che i chimici chiamano posizione “orto” – e questa vicinanza permette loro di interagire, creando un piccolo legame interno che rende la molecola più stabile e le conferisce la capacità di unirsi facilmente a molte proteine biologiche. È proprio questa combinazione di semplicità e reattività che rende il salicilato una molecola così universale: abbastanza stabile da circolare nei tessuti, ma abbastanza attiva da modificare reazioni chimiche fondamentali.
Da questa stessa struttura dipendono anche le proprietà farmacologiche dell’acido salicilico negli animali. Quando viene ingerito, il salicilato viene assorbito rapidamente e distribuito nei tessuti. Qui interferisce con gli enzimi che trasformano gli acidi grassi in prostaglandine, le molecole che regolano l’infiammazione, la febbre e la percezione del dolore. Bloccando la loro sintesi, il salicilato attenua il segnale di allarme che mantiene attiva la risposta infiammatoria. Il risultato è una riduzione della temperatura corporea e del dolore.
È un meccanismo sfruttato da molto prima che comparisse la nostra medicina: anche gli animali, prima dell’uomo, hanno imparato a sfruttare l’acido salicilico, ottenendolo da molte piante diverse.
Nei cervi europei e nordamericani è stato documentato che, durante i mesi freddi, quando la diffusione di infezioni respiratorie aumenta e il metabolismo richiede più energia, gli animali consumano grandi quantità di cortecce di salice, altrimenti trascurate in altri periodi dell’anno. L’analisi chimica delle cortecce mostra un alto contenuto di salicina, precursore naturale dell’acido salicilico. Gli individui che adottano questo comportamento mostrano una temperatura corporea più stabile e un recupero più rapido dalle malattie stagionali. È un gesto che si tramanda nei branchi, osservato nei giovani che imitano gli adulti.
Un comportamento analogo è stato osservato nei gorilla di montagna (Gorilla beringei beringei), studiati da Michael Huffman e colleghi in Rwanda e in Uganda. Durante gli episodi di febbre o di infestazione da parassiti intestinali, questi primati cercano e consumano foglie di Vernonia amygdalina, una pianta amara ricca di composti salicilici e di alcaloidi con proprietà antiparassitarie. Gli animali ne masticano alcune foglie e poi le sputano, assorbendo solo il succo. Dopo poche ore, la temperatura corporea si riduce e i parassiti intestinali calano drasticamente. Gli individui sani, invece, non mostrano alcun interesse per quelle foglie. Il comportamento è così preciso che si può prevedere un episodio di malattia osservando la scelta alimentare: la selezione della pianta precede di poco la guarigione.
Anche gli scimpanzé mostrano una conoscenza sorprendente dei principi vegetali. In Tanzania, nel Parco Nazionale di Mahale, sono stati osservati mentre inghiottivano intere foglie non masticate di Aspilia mossambicensis e Aspilia pluriseta, piante le cui superfici ruvide aderiscono alla mucosa intestinale e intrappolano i parassiti. Queste stesse foglie contengono derivati del salicilato, che contribuiscono a ridurre l’infiammazione intestinale provocata dai vermi. Gli scimpanzé che si alimentano così mostrano feci prive di parassiti nel giro di un solo giorno. Si tratta di una pratica costante e circoscritta: gli stessi individui, quando sani, non adottano il comportamento.
“Nei cervi europei e nordamericani è stato documentato che, durante i mesi freddi, quando la diffusione di infezioni respiratorie aumenta e il metabolismo richiede più energia, gli animali consumano grandi quantità di cortecce di salice, altrimenti trascurate in altri periodi dell’anno”.
Negli elefanti africani del Kenya e della Tanzania, le osservazioni sono altrettanto chiare. Dopo lunghi viaggi o durante la stagione calda, quando il rischio di infezioni batteriche della pelle aumenta, gli animali cercano con insistenza rami di Acacia nilotica e Combretum micranthum, che contengono salicilati e tannini. Ne strappano la corteccia con la proboscide e la masticano a lungo, ingerendo il succo e sputando le fibre. Gli etologi hanno notato che il comportamento è più frequente tra le femmine gravide o in allattamento, e che spesso coincide con una diminuzione di febbre e irritazioni cutanee. In un caso documentato, un gruppo di femmine incinte consumò grandi quantità di Boraginaceae e Acacia, inducendo apparentemente il parto: una dimostrazione di conoscenza fisiologica finissima.
Comportamenti analoghi, seppur meno documentati, si osservano in molte specie domestiche o semi-selvatiche. Le capre di montagna brucano le foglie giovani di salice o di pioppo, ricche di acido salicilico, quando ferite o affaticate. Anche alcuni cavalli selvatici scelgono spontaneamente piante del genere Salix o Populus dopo lunghi sforzi, e in laboratorio è stato verificato che l’assunzione di salicina riduce la temperatura corporea anche in equini.
Nei cani e nei gatti, che condividono parte del nostro metabolismo, il comportamento è più raro ma riconoscibile: i cani talvolta ingeriscono erbe ricche di salicilati e poi le rigettano, eliminando materiale gastrico irritante e beneficiando dell’effetto calmante dei salicilati stessi.
Non a caso, il salicilato è entrato anche nella pratica veterinaria moderna. Nei bovini e nei suini viene impiegato come antipiretico e antinfiammatorio; nei cavalli, in dosi controllate, per alleviare dolori muscolari e articolari; nei cani, in formulazioni adattate, come analgesico.
Eppure, come abbiamo visto, a prescindere dalla nostra medicina veterinaria, molte specie sono in grado di selezionare da sole le piante che contengono salicilato, perché riconoscono l’effetto attraverso sensazioni corporee dirette: il gusto amaro, la riduzione della febbre, il sollievo dal dolore. L’esperienza individuale si traduce in apprendimento, e l’apprendimento diventa cultura di gruppo. Gli etologi parlano, infatti, di “farmacoetnologia animale”: una conoscenza condivisa delle proprietà curative del mondo vegetale.
Dal punto di vista evolutivo, la spiegazione è semplice. La selezione naturale favorisce individui capaci di ridurre il danno di un’infezione o di un’infiammazione; chi riconosce per esperienza che una pianta amara lenisce aumenta la propria sopravvivenza e trasmette quel comportamento. Nel tempo, la popolazione conserva la capacità di associare un sapore o un odore a un effetto benefico. È lo stesso principio che, in modo più complesso, ha portato l’uomo a costruire la farmacologia: la trasformazione di una conoscenza sensoriale in conoscenza razionale.
Nel caso della nostra specie, l’uso medicinale del salice è attestato in papiri egizi e testi sumerici. Ippocrate lo raccomandava per febbre e dolori. Per secoli, la preparazione consisteva in infusi o decotti di corteccia, e il principio attivo rimaneva sconosciuto. Solo nel XIX secolo la chimica cominciò a svelare la natura della sostanza responsabile. Johann Buchner isolò la salicina nel 1828; Raffaele Piria, poco dopo, la trasformò in acido salicilico, individuandone la formula e le reazioni. L’acido salicilico divenne così una delle prime molecole in cui si poté riconoscere la relazione diretta fra struttura chimica e azione fisiologica, e da allora le sostanze ad azione calmante della febbre sono chiamate antipiretici.
Tuttavia, il salicilato naturale presentava limiti pratici: era poco solubile e irritava lo stomaco. Gli sforzi della chimica organica si concentrarono nel tentativo di renderlo più tollerabile. Nel 1853 Charles Frédéric Gerhardt lo trattò con anidride acetica, ottenendo un derivato acetilato, ma il suo procedimento non era stabile. Quarant’anni più tardi, nel 1897, nei laboratori della Bayer, la reazione fu ripresa e ottimizzata. Ufficialmente, la sintesi è attribuita a Felix Hoffmann, ma documenti successivi hanno rivelato che il progetto era stato ideato e diretto da Arthur Eichengrün, chimico ebreo tedesco poi perseguitato e internato sotto il regime nazista. La sua rivendicazione, per anni ignorata, è oggi considerata credibile dagli storici della chimica.
Da quella sintesi nacque l’acido acetilsalicilico, più stabile e meno irritante, che mantenne intatta l’attività del salicilato ma ne migliorò la tollerabilità. Il principio attivo dell’antico infuso di salice era diventato un farmaco preciso e riproducibile. Per la prima volta, la medicina disponeva di una molecola capace di coniugare efficacia, purezza e sicurezza. Era nato un modello: la natura forniva la struttura, la chimica la razionalizzava.
L’acido acetilsalicilico, la nostra aspirina, agisce acetilando in modo irreversibile un enzima, la ciclossigenasi, che trasforma un acido grasso, l’acido arachidonico, in prostaglandine. Queste molecole, nei tessuti animali, sono mediatori di infiammazione, dolore e febbre. Il legame chimico che l’acido acetilsalicilico forma con l’enzima lo rende inattivo, interrompendo la catena di segnali che mantengono la reazione infiammatoria. Da questa stessa azione deriva anche l’effetto antiaggregante: nelle piastrine, l’inibizione dell’enzima impedisce la produzione di trombossano, riducendo la tendenza alla coagulazione.
La precisione di questa interazione è straordinaria: un singolo gruppo acetile trasferito a un singolo residuo di serina nel sito attivo dell’enzima è sufficiente per bloccarne la funzione.
“Il salicilato non agisce soltanto all’interno della pianta che lo produce, ma può essere convertito in una forma volatile, il metil salicilato, capace di diffondersi nell’aria e raggiungere altre piante. È, a tutti gli effetti, una forma di linguaggio chimico tra organismi vegetali”.
Vale a questo punto la pena di osservare come, nel mondo animale, la stessa molecola che nelle piante funge da segnale di difesa, per aumentare la risposta a un potenziale patogeno, agisce come modulatore di risposta nel verso opposto, diminuendo febbre e infiammazione. È un esempio di simmetria funzionale inversa: ciò che in un organismo accende, in un altro attenua. Il lessico chimico è comune, ma il contesto assegna un significato differente alle “parole chimiche”.
E non è finita qui.
Oggi la ricerca ha aggiunto un capitolo inatteso alla storia del salicilato. Per molto tempo si era pensato che la sua funzione nelle piante si limitasse alla risposta locale allo stress o all’infezione, ma esperimenti condotti negli ultimi decenni hanno rivelato un fenomeno sorprendente: il salicilato non agisce soltanto all’interno della pianta che lo produce, ma può essere convertito in una forma volatile, il metil salicilato, capace di diffondersi nell’aria e raggiungere altre piante. È, a tutti gli effetti, una forma di linguaggio chimico tra organismi vegetali.
Il metil salicilato è una versione esterificata della molecola: il gruppo acido dell’acido salicilico viene legato a un gruppo metile, rendendo la sostanza più leggera e volatile. Questa modifica è sufficiente a farle attraversare la barriera della foglia e disperdersi nell’atmosfera circostante. La trasformazione avviene grazie a un enzima, una metiltransferasi che utilizza l’energia del metabolismo cellulare per trasferire il gruppo metile. Il risultato è una sostanza profumata e diffondibile, che noi conosciamo come “essenza di wintergreen”, il caratteristico odore di menta dolce presente in alcune pomate balsamiche e dentifrici. Nelle piante, tuttavia, il metil salicilato non serve a profumare ma ad avvertire. Quando una foglia di tabacco, di soia o di pomodoro viene attaccata da un fungo o da un insetto, aumenta rapidamente la produzione di acido salicilico e, subito dopo, di metil salicilato. La molecola si libera nell’aria e, nel giro di pochi minuti, raggiunge le foglie vicine o addirittura piante diverse nelle vicinanze. Queste, percependo il segnale, attivano una cascata di reazioni di difesa: aumentano i livelli di enzimi antiossidanti, sintetizzano proteine antimicrobiche e rinforzano le pareti cellulari. È un’allerta preventiva, una mobilitazione generale in risposta a un pericolo localizzato.
Gli esperimenti che hanno svelato questo meccanismo sono stati condotti negli anni Novanta da studiosi come James Farmer e Clarence Ryan. In uno dei più noti, piante di tabacco infettate da un fungo vennero collocate in una camera chiusa insieme a piante sane, ma separate da un filtro che impediva il contatto fisico. Dopo poche ore, le piante sane avevano attivato le stesse proteine difensive di quelle infette. Analizzando l’aria, i ricercatori identificarono la presenza di metil salicilato e di altre molecole volatili prodotte come messaggeri. Bastava eliminarle dall’atmosfera perché il fenomeno scomparisse.
Il metil salicilato è solo una delle tante “parole” di questo linguaggio invisibile, ma è una delle più universali. In diverse specie di piante – dal tabacco alla soia, dal trifoglio all’abete – la sua emissione accompagna sempre un segnale di pericolo. In alcune piante, come la menta o la betulla, il metil salicilato è prodotto costantemente in piccole quantità, contribuendo al profumo caratteristico; ma quando avviene un’aggressione, la concentrazione aumenta anche di cento volte.
Questa scoperta ha trasformato il modo in cui pensiamo le piante. Non sono organismi isolati, ma nodi di una rete di scambio di informazioni chimiche che avviene attraverso l’aria. Le molecole come il metil salicilato sono vettori di informazione fisiologica, paragonabili ai feromoni nel mondo animale. E come accade per i feromoni, il messaggio non si limita alla specie che lo emette: in molti casi viene riconosciuto anche da piante di specie diverse. Una pianta di tabacco può avvertire una di pomodoro vicina; un frassino può reagire all’allarme chimico di un acero; un campo di soia può attivarsi in modo coordinato, come se il vento portasse un messaggio di pericolo comune.
Dal punto di vista evolutivo, questo meccanismo rappresenta una forma primordiale di cooperazione. Una pianta che emette metil salicilato quando è attaccata non trae vantaggio diretto immediato: avverte i suoi simili, che diventano più resistenti. Ma la selezione naturale può favorire anche queste strategie apparentemente altruiste, perché la sopravvivenza del gruppo – di una colonia o di una popolazione vegetale – aumenta le probabilità di sopravvivenza dei singoli membri. È, in termini molecolari, una selezione di gruppo ante litteram: un vantaggio condiviso mediato da un segnale chimico, tanto più vantaggioso in quanto spesso piante relativamente vicine sono cloni della stessa pianta di partenza, o comunque strettamente imparentate fra loro.
È difficile non riconoscere l’eleganza di questo sistema. La stessa molecola che per l’uomo è un farmaco capace di ridurre il dolore, per le piante è un segnale d’allarme che salva sia gli individui, attivandone le difese antiparassitarie, sia interi ecosistemi, scambiando informazione chimica. Nella nostra fisiologia attenua la febbre, nella loro attiva la difesa: in entrambi i casi ristabilisce l’equilibrio dopo un disturbo.
Il salicilato non è un’invenzione della scienza, ma una scoperta di relazione. È la dimostrazione che le molecole non appartengono a un regno o a una specie: sono frammenti di un linguaggio universale che la vita utilizza per mantenersi in equilibrio. E che la chimica è natura, al contrario di quanto continuamente sentiamo ripetere.