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Enrico Bucci
La primavera con gli occhi di un’ape

La Primavera Con Gli Occhi Di Un'ape Bucci
biologia chimica evoluzione natura Scienza

Una sola mutazione distingue il nostro sguardo da quello degli insetti: è un'altra visione possibile, nella quale si fondono bellezza e funzione.

Uno dei più radicati fraintendimenti sulla scienza è l’idea che essa sia, in fondo, un mero strumento: qualcosa che serve, più o meno bene, a ottenere ciò che ci è utile. Si misura in risultati, si giudica in base alla sua capacità di risolvere problemi. Ed è innegabile che la scienza sia anche questo. Ma non è tutto.

C’è un altro aspetto, più raro e spesso trascurato: la scienza come sorgente di bellezza. Non bellezza pratica, ma bellezza vera. Non il fascino delle applicazioni, non l’ammirazione per la potenza tecnica: parlo dello stupore profondo, dell’intuizione di un ordine nascosto, dell’emozione che nasce quando si intravede l’armonia del mondo al livello più intimo. È un’estetica diversa, fatta di struttura, coerenza, funzione. E anche chi non è scienziato può accedervi, se è disposto ad ascoltare.

Mi capita, in certe giornate, di trovarmi esattamente in quel punto d’incontro. Per esempio, mentre passeggio nei boschi vicino casa, in questa stagione in cui i prati ombrosi si coprono di anemoni nemorose. Un tappeto di fiori bianchi, semplice ma perfetto. Anche chi di solito non si ferma a pensare alla biologia non può fare a meno di sentire qualcosa, una specie di sollievo o di respiro più ampio, davanti a quella fioritura ordinata. Eppure, per me, il bello non finisce lì. Comincia proprio lì.

So che quei fiori, come tutti i fiori, sono dispositivi sofisticati, costruiti per attrarre altri esseri viventi. So che il loro colore, il bianco che noi vediamo, è solo una versione parziale del messaggio che mandano. Perché gli impollinatori non vedono come noi. Le api, per esempio, percepiscono l’ultravioletto. E per loro, l’anemone nemorosa non è bianca. È segnata da contrasti invisibili, da zone che riflettono selettivamente la luce ultravioletta, che le guida con precisione verso il nettare. Quelle zone sono fatte da cellule epidermiche di forma conica, disposte in modo da diffondere la luce in maniera differente, e insieme offrire presa migliore alle zampe. Un fiore non è solo bello: è leggibile, e direzionale. È un invito al volo, alla discesa, al contatto. È una freccia luminosa rivolta a chi sa vederla.

Ma noi non la vediamo. Perché?

“Anche chi di solito non si ferma a pensare alla biologia non può fare a meno di sentire qualcosa, una specie di sollievo o di respiro più ampio, davanti a quella fioritura ordinata. Eppure, per me, il bello non finisce lì. Comincia proprio lì”.

Qui la riflessione si fa più profonda. Noi e le api condividiamo, nel nucleo dei nostri occhi, lo stesso principio molecolare: le opsine, proteine sensibili alla luce, legate a un pigmento chiamato retinale. Nei vertebrati, come noi, una particolare opsina (la rodopsina) è sensibile alla luce blu-viola. Ma una sola mutazione – una singola sostituzione di un aminoacido nella posizione 90 – è sufficiente a cambiare tutto. Se al posto di una glicina metti una lisina, come accade nelle api, quella stessa proteina diventa sensibile all’ultravioletto.

È un passaggio minimo, chimicamente parlando. Ma cambia l’intero spettro visivo di un organismo. Una lisina al posto giusto modifica la distribuzione delle cariche elettriche attorno al pigmento, abbassa l’energia richiesta per attivarlo, e rende possibile assorbire un fotone più energetico: quello dell’UV.

Una singola mutazione. Un solo punto. E il mondo cambia colore.

Negli insetti questa mutazione è la norma. Nei mammiferi si è persa più volte, in diversi momenti indipendenti, durante l’evoluzione. In alcuni casi è ricomparsa – negli uccelli, ad esempio – per vie diverse. La selezione naturale ha scelto, volta per volta, se vedere l’UV fosse vantaggioso o dannoso. In molti ambienti, distinguere l’ultravioletto è utile: orienta meglio nel volo, consente una più precisa distinzione tra superfici, rivela segnali altrimenti nascosti. Ma comporta anche un costo: la retina esposta all’UV è più fragile, più esposta ai danni. Dove non serve, conviene proteggerla e rinunciare a quella finestra sul mondo.

Una singola mutazione. Un solo punto. E il mondo cambia colore.

Nel nostro caso, l’evoluzione ha scelto la protezione. Siamo ciechi all’ultravioletto, e ci difendiamo da esso anche con pigmenti oculari che lo assorbono prima che arrivi alla retina. Ma in fondo, quella cecità è il frutto di una storia adattativa. Un compromesso. Un esito reversibile.

Ecco perché, per me, il tappeto bianco degli anemoni non è solo uno spettacolo estetico. È anche un’interrogazione. Un esempio vivente di come la forma e la funzione, la percezione e la selezione, si intrecciano a partire da eventi microscopici. Non c’è nulla di casuale nella bellezza di quel fiore. È un linguaggio a più livelli, scritto nella grammatica della chimica.

Per comprenderlo, non serve essere scienziati. Serve sapere che esiste. E accettare che ci sia un altro modo di guardare.

Chi si affida solo alla visione diretta, chi cerca il senso dell’universo nei simboli mistici o nei riflessi dell’anima, si perde tutto questo. Si accontenta di uno sguardo cieco all’ultravioletto. E quando cerca “sensi in più”, finisce spesso a dar credito a pseudoscienze, visioni deformate, fantasie vendute per rivelazioni.

Ma i sensi in più, quelli veri, li offre la conoscenza. Quella verificabile, criticabile, discutibile. Quella che racconta storie diverse, affascinanti proprio perché precise. È la scienza che ci dà occhi nuovi – non metaforici, ma reali. Ed è grazie a essa che possiamo vedere la primavera come l’hanno vista Botticelli, Vivaldi, Tagore: ma anche come la vedono le api.

Basta voler guardare. E sapere dove.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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