Articolo
Enrico Bucci
L’etanolo unisce cosmo e cultura

L’etanolo Unisce Cosmo E Cultura Bucci Cover
biologia chimica evoluzione storia

Una molecola nata nelle nubi interstellari attraversa miliardi di anni di storia: usata dai lieviti per sopravvivere, metabolizzata dai primati frugivori e trasformata dall'uomo in bevanda rituale, sociale, inebriante.

Con l’arrivo del freddo, mi trovo davanti a un bicchiere di un buon vino rosso, e non posso far a meno di riflettere sulla sua componente inebriante e piacevole: molti composti conferiscono aroma, colore e sapore, ma uno su tutti è psicoattivo e ubiquitario nei prodotti alcolici che consumiamo: l’etanolo, l’alcool per eccellenza. È una delle poche molecole che attraversano tutta la nostra vita quotidiana in forme diversissime, senza che ci riflettiamo abbastanza. 

È certo nel bicchiere di vino a tavola, ma anche nel profumo che vaporizziamo sulla pelle, nel flacone di alcool denaturato che usiamo per pulire i vetri, nelle soluzioni disinfettanti ospedaliere, nei carburanti miscelati alla benzina. In tutti questi casi incontriamo lo stesso composto: una molecola piccola, CH₃–CH₂–OH, formata da due atomi di carbonio, sei di idrogeno e uno di ossigeno, con un gruppo funzionale chiamato gruppo ossidrilico (–OH), responsabile della sua natura anfipatica. Cambia il contesto in cui si presenta, e con il contesto cambiano gli effetti che produce.

Nel vino e nella birra l’etanolo è il risultato del lavoro dei lieviti, microrganismi unicellulari che vivono di zuccheri e li trasformano attraverso la fermentazione, un processo di estrazione energetica che non richiede ossigeno. Gli zuccheri vengono scissi in molecole più piccole e la cellula ottiene una piccola quota di energia sotto forma di ATP, valuta energetica universale delle cellule. L’etanolo e l’anidride carbonica sono i prodotti finali.

Questa apparentemente semplice via metabolica ha però alle spalle una storia evolutiva lunga quanto la vita stessa. La fermentazione è infatti una delle vie biochimiche più antiche del pianeta. È nata in un mondo privo di ossigeno, quando le prime cellule dovevano estrarre energia da ciò che trovavano senza potersi affidare alla respirazione aerobica. La glicolisi – la sequenza di reazioni che porta dal glucosio al piruvato – esiste da miliardi di anni ed è conservata in quasi tutti gli organismi viventi: un indizio potente di quanto fosse vantaggiosa, stabile e compatibile con ambienti variabili. La fermentazione alcolica dei lieviti è uno dei modi in cui questa via può continuare a funzionare anche quando il NAD⁺, indispensabile per la glicolisi, deve essere rigenerato senza ossigeno. In questo senso, ogni goccia di etanolo prodotta da un lievito è un frammento di vita arcaica che sopravvive intatto.

Com’è dunque avvenuto l’incontro fra questi microrganismi e la nostra specie? E cosa ha rappresentato culturalmente il fatto che un processo metabolico così antico diventasse parte integrante delle nostre società?

Quando gli esseri umani iniziano a conservare frutta, cereali e miele, scoprono per esperienza diretta che questi materiali, lasciati a contatto con l’acqua, fermentano spontaneamente. Non conoscono i lieviti, non sanno nulla di enzimi e NAD⁺, ma osservano che una parte del cibo “si trasforma” in una bevanda più stabile, più calorica, più aromatica e inebriante. La fermentazione diventa così uno dei primi esempi di tecnologia biologica sfruttata senza comprenderne il meccanismo.

La sua importanza deriva da una somma di proprietà: le bevande fermentate si conservano meglio dell’acqua stagnante, scorrono attraverso reti microbiche che eliminano sfidanti patogeni, e contengono piccole concentrazioni di etanolo che inibiscono la crescita di molti microrganismi dannosi. In civiltà prive di sistemi avanzati di depurazione, questo semplice fatto ha ridotto la morbilità e permesso la conservazione di calorie preziose nei periodi di carestia.

La fermentazione ha poi assunto un ruolo economico centrale: consente di trasformare surplus agricoli deperibili – cereali, frutti, miele – in prodotti a lunga conservazione, trasportabili e scambiabili. Grano, orzo, uva, riso e miglio diventano non solo alimenti ma vettori culturali, perché la fermentazione è prevedibile, ripetibile e migliora enormemente la qualità del cibo. È una delle prime forme con cui l’umanità addomestica non un animale o una pianta, ma un processo biologico: non alleviamo solo il lievito, ma la sua via metabolica.

A questo si aggiunge la dimensione simbolica. Le bevande fermentate entrano nei riti religiosi e politici, diventano parte dei banchetti, dei matrimoni, dei trattati di alleanza. In molte culture, il vino o la birra non sono solo il risultato di una reazione biochimica, ma un dono degli dèi, un elemento di identità collettiva, una sostanza che unisce gli individui e scandisce il tempo della comunità. L’ubriachezza controllata e condivisa diventa un mezzo per sospendere momentaneamente le gerarchie e generare coesione sociale, mentre la padronanza della fermentazione diventa segno di sapere tecnico e continuità culturale.

Il punto decisivo è che la fermentazione rappresenta la trasformazione di una via metabolica antichissima in uno strumento di civiltà. Gli stessi passaggi redox che un tempo permettevano a cellule primitive di sopravvivere in un mondo anossico diventano la base di intere economie, religioni e forme di socialità. Ogni fermentazione domestica è, senza che lo si sappia, un incontro fra un’eredità biochimica profonda e la storia culturale della nostra specie. E ogni bicchiere di vino non celebra soltanto un raccolto, ma una relazione millenaria fra esseri umani e metabolismo microbico, una forma di coevoluzione culturale in cui la chimica del lievito diventa architettura di società.

L’alcool denaturato, invece, è etanolo reso imbevibile mediante l’aggiunta di sostanze irritanti o tossiche: non ci interessa berlo, ma sfruttarne la capacità di sciogliere grassi, penetrare nelle membrane cellulari – sottili strutture composte da un doppio strato di fosfolipidi – e disturbare la struttura tridimensionale delle proteine, che è ciò che permette loro di funzionare. Le miscele idroalcoliche usate nei disinfettanti sfruttano proprio l’interazione fra la parte lipofila della molecola e la sua testa ossidrilica idrofila, insieme all’acqua che facilita la denaturazione delle proteine microbiche.

Fin qui tutto è noto. Ma cosa significa che l’etanolo, la stessa molecola del vino, esisteva molto prima del vino, molto prima dell’uva, molto prima perfino delle cellule? Cosa implica il fatto che sia stato identificato nello spazio interstellare?

“Quando gli esseri umani iniziano a conservare frutta, cereali e miele, scoprono per esperienza diretta che questi materiali, lasciati a contatto con l’acqua, fermentano spontaneamente. La fermentazione diventa così uno dei primi esempi di tecnologia biologica sfruttata senza comprenderne il meccanismo”.

L’etanolo – insieme ad altri alcoli semplici come il metanolo, CH₃–OH, il più semplice degli alcoli, e il propanolo, CH₃–CH₂–CH₂–OH, alcol a tre atomi di carbonio – è stato riconosciuto in grandi nubi molecolari fredde e rarefatte attraverso le sue righe di emissione, segnali caratteristici emessi quando la molecola ruota o vibra, ciascuno con una frequenza precisa che permette di identificarla a distanza di migliaia di anni luce. Queste nubi, come la celebre Sagittarius B2 vicino al centro galattico, hanno temperature che scendono fino a poche decine di gradi kelvin, densità estremamente basse e livelli energetici minimi: sono ambienti in cui, intuitivamente, ci si aspetterebbe che la chimica resti ferma al livello degli atomi, incapace di superare le barriere energetiche che portano alla formazione di legami chimici complessi.

E invece accade il contrario. Gli atomi di carbonio, idrogeno e ossigeno riescono a incontrarsi e a combinarsi in molecole che non dovrebbero formarsi così facilmente. Il gruppo ossidrilico -OH nasce da reazioni che avvengono sulla superficie di minuscoli granelli di polvere interstellare ricoperti da sottili mantelli di ghiaccio d’acqua, metano, ammoniaca e monossido di carbonio. Le particelle cosmiche ad alta energia e i fotoni ultravioletti provenienti da stelle lontane forniscono la minima quantità di energia necessaria a rompere e ricombinare legami, mentre i granuli di polvere agiscono come piattaforme fisiche che concentrano e orientano gli atomi, riducendo il disordine e favorendo la formazione di specie molecolari stabili.

Il fatto che l’etanolo compaia proprio in questi ambienti estremi è rivelatore, perché mostra che il passaggio dalla chimica atomica a quella molecolare non è un privilegio della Terra primitiva né dei suoi ambienti energeticamente complessi, ma un comportamento quasi naturale della materia carboniosa nel cosmo. La domanda, semplice e decisiva, che sorge spontanea è: se in ambienti quasi privi di energia si possono costruire alcoli, cosa può accadere quando esistono flussi energetici molto maggiori, come quelli delle sorgenti idrotermali, delle collisioni geologiche o della radiazione solare su un pianeta giovane?

L’etanolo interstellare indica che la costruzione di molecole organiche non richiede sempre condizioni drastiche. È sufficiente un flusso minimo di energia, un supporto solido che stabilizzi le specie intermedie e una combinazione elementare di carbonio, idrogeno e ossigeno. Questo è il punto chiave: la chimica organica non attende la vita per organizzarsi; al contrario, prepara le condizioni affinché la vita possa emergere. In altre parole, i processi che portano alla formazione di alcoli sono accessibili già nelle condizioni più povere del cosmo. Quando questa chimica viene trasportata su superfici planetarie ricche di acqua liquida, minerali reattivi e sorgenti energetiche continue, il repertorio di molecole possibili non inizia da zero, ma da un insieme già parzialmente costruito nello spazio.

La presenza di etanolo nelle nubi interstellari dimostra quindi che la distanza fra chimica cosmica e chimica prebiotica è molto più corta di quanto si pensasse. Le molecole non aspettano la geologia per esistere: circolano nel cosmo, viaggiano sulle comete, si depositano sui pianeti, entrano nei cicli geochimici e, in alcuni casi, diventano parte della materia organica disponibile per la nascita dei primi protosistemi chimici terrestri. È come se la chimica del cosmo portasse avanti un lavoro preparatorio, costruendo i primi mattoni di un edificio che, molto tempo dopo, la chimica prebiotica terrestre completerà con reti redox, cicli metabolici primordiali e reazioni in grado di conservare energia.

Per questo l’etanolo interstellare non è un semplice dato astronomico ma un indizio profondo: mostra che il confine fra chimica dell’universo e chimica della vita non è netto, e che molte vie reattive che immaginiamo nate sulla Terra erano già operative altrove, in ambienti quasi immobili per temperatura e energia. Suggerisce che la vita non nasce da una chimica eccezionale, ma da una chimica ordinaria resa capace di organizzarsi. È questo, in ultima analisi, il significato di trovare alcoli – molecole che richiedono legami forti e riorganizzazioni atomiche precise – in luoghi dove l’energia è quasi assente: la materia carboniosa è capace di autoorganizzarsi già negli interstizi freddi del cosmo, e quando giunge su un pianeta giovane trova soltanto il terreno per continuare una storia che era già cominciata altrove.

Ma allora, qual è stato il ruolo dell’etanolo e dei suoi parenti nella chimica prebiotica terrestre? E soprattutto: che cosa rende interessanti le reazioni che trasformano aldeidi in alcoli?

Le aldeidi sono molecole che contengono un gruppo funzionale –CHO, costituito da un carbonio legato in doppio legame all’ossigeno (il gruppo carbonilico) e a un atomo di idrogeno. L’acetaldeide, CH₃–CHO, è fra le più semplici. Esperimenti di chimica prebiotica mostrano che superfici minerali ricche di nichel e zolfo – minerali simili a quelli delle antiche sorgenti idrotermali – catalizzano la formazione di acetaldeide da molecole semplicissime come l’acetilene, HC≡CH, un idrocarburo lineare con un triplo legame carbonio–carbonio. Si tratta di reazioni redox spontanee, in cui i minerali agiscono da sorgenti di elettroni e l’acqua da mezzo reattivo.

Il passaggio da un’aldeide a un alcol, cioè la riduzione del gruppo –CHO a –CH₂OH mediante l’aggiunta di elettroni, è un tipo di trasformazione che avviene naturalmente in ambienti ricchi di specie riducenti. Questo è il punto chiave. Perché mai dovrebbe interessarci che un’aldeide si trasformi in un alcol? Perché in questa oscillazione semplice fra forme ossidate e ridotte si intravede qualcosa che somiglia vagamente a un metabolismo.

E allora la domanda inevitabile è: come si passa da una semplice trasformazione chimica a un ciclo capace di trattenere energia, costruire molecole e continuare nel tempo?

Le reti protometaboliche – insiemi di reazioni non enzimatiche osservate in laboratorio – mostrano proprio questa dinamica. Aldeidi e chetoni (molecole simili alle aldeidi ma legate a due gruppi carboniosi) si alternano con le loro forme alcoliche attraverso scambi di elettroni e protoni; in alcuni passaggi si costruiscono legami carbonio–carbonio, in altri si rompono. Il risultato non è ancora un metabolismo, ma è una chimica che si organizza, che costruisce e demolisce molecole in modo ciclico, che immagazzina per un momento l’energia prima che venga rilasciata. È la prima forma possibile di accoppiamento fra energia ambientale e costruzione molecolare.

In questo quadro, l’etanolo è una fra le tante molecole ridotte che testimoniano quanto sia naturale e spontanea questa chimica. La presenza di alcoli a due o tre atomi di carbonio sia nelle nubi interstellari sia nelle simulazioni prebiotiche indica che la chimica degli alcoli è un ponte fra geochimica e biochimica, fra ambiente e metabolismo.

“Perché mai dovrebbe interessarci che un’aldeide si trasformi in un alcol? Perché in questa oscillazione semplice fra forme ossidate e ridotte si intravede qualcosa che somiglia vagamente a un metabolismo”.

Quando la vita si organizza in cellule, questa logica diventa un meccanismo raffinato. Nel lievito di birra, Saccharomyces cerevisiae, la fermentazione alcolica si basa proprio su questa alternanza. Il glucosio, uno zucchero a sei atomi di carbonio, viene trasformato in piruvato durante la glicolisi, con produzione di ATP e riduzione del cofattore NAD⁺ in NADH. Per continuare a estrarre energia dal glucosio, NAD⁺ deve essere rigenerato: ciò avviene riducendo l’acetaldeide a etanolo tramite l’alcol deidrogenasi. È la stessa logica della chimica prebiotica, ma resa efficiente da enzimi che orientano, velocizzano e controllano queste trasformazioni.

Qui si apre una questione più ampia: come è evoluta l’alcol deidrogenasi nei vertebrati, e perché esistono così tante versioni diverse di questo enzima?

Nei mammiferi esiste un’intera famiglia di enzimi chiamata ADH, alcool deidrogenasi, suddivisi in sette classi: ADH1, ADH2, ADH3, ADH4, ADH5, ADH6 e ADH7. Ogni isoforma è la variante leggermente diversa della stessa proteina, con proprietà specifiche. ADH1 e ADH2 sono le forme principalmente coinvolte nell’ossidazione dell’etanolo a acetaldeide nel fegato; ADH3 è antichissima, presente già nei primi animali multicellulari, ed è specializzata nell’ossidazione del formaldeide, un aldeide tossica molto reattiva; ADH4 è altamente efficiente nel metabolizzare etanolo e altri alcoli presenti in piccole quantità nei frutti maturi; ADH7, espressa nelle mucose orali e gastriche, contribuisce alla “prima-pass metabolism”, la metabolizzazione dell’alcol prima che raggiunga il sangue.

Nei primati frugivori alcune varianti di ADH4 e ADH7 hanno subìto mutazioni che le rendono significativamente più efficienti nel metabolizzare l’etanolo. È un dato affascinante, perché indica un adattamento alla frutta fermentata, consumata occasionalmente ma in modo ricorrente. In molte specie di uccelli frugivori compaiono varianti di ADH parallele a quelle dei primati, un esempio di convergenza evolutiva che suggerisce che l’esposizione all’etanolo sia stata un fattore ecologico reale e persistente.

Ma perché un animale dovrebbe evolvere un enzima più rapido nel gestire l’etanolo? Quale vantaggio concreto poteva fornire?

La risposta viene dalla combinazione di ecologia, comportamento e biochimica. I frutti maturi, quelli energeticamente più preziosi, spesso iniziano a fermentare già prima di cadere dall’albero. L’odore dell’etanolo è volatilissimo e riconoscibile, e in ambienti tropicali densi di rivali è un segnale affidabile della presenza di zuccheri in concentrazioni elevate. Poter individuare a distanza un grappolo di frutti maturi significa accedere per primi a una fonte calorica ricca, facilmente digeribile, e soprattutto concentrata in brevi finestre stagionali. In altre parole, l’etanolo agiva come un faro olfattivo che guidava gli animali verso il cibo migliore, e la selezione favoriva chi possedeva enzimi in grado di metabolizzare rapidamente le piccole quantità di alcol ingerite.

Gli scimpanzé offrono un esempio concreto di questo quadro. Osservazioni recentissime condotte in Uganda e Costa d’Avorio hanno permesso di stimare che gli individui selvatici ingeriscano, attraverso la sola frutta fermentata, circa quattordici grammi di etanolo al giorno, una quantità che nell’uomo corrisponde a una o due unità alcoliche. La concentrazione nel singolo frutto è bassa – intorno allo 0,3% – ma il volume totale consumato è enorme. Nessuno di questi animali appare ubriaco: la metabolizzazione è rapida, l’assunzione è diluita nel tempo, e l’etanolo entra nel loro bilancio calorico come un alimento stabile. È qui che la variante di ADH4 comparsa nei grandi primati circa dieci milioni di anni fa mostra il suo significato: rende questi animali capaci di usare l’etanolo non come un imprevisto tossico, ma come una piccola estensione del valore energetico del frutto.

Altre specie mostrano un quadro simile. Le scimmie ragno del Centro America, che si nutrono di frutti abbondantemente fermentati, eliminano metaboliti dell’etanolo nelle urine, prova che lo assorbono regolarmente. Anche vari passeriformi frugivori – tordi, merli, storni – ingeriscono frutti fermentati senza alcun segno d’intossicazione, nonostante le concentrazioni alcoliche talvolta elevate: possiedono isoforme di ADH molto efficienti, capaci di smaltire l’etanolo in tempi brevissimi. L’idea che emerge da queste osservazioni è semplice: dove c’era frutta, c’era etanolo; dove c’era etanolo, la selezione plasmava gli enzimi che lo gestivano meglio.

Resta però una domanda più sottile, che riguarda il comportamento: esiste, nei primati non umani, un ruolo sociale del consumo di frutta fermentata? Le evidenze sono suggestive ma ancora limitate. In alcune comunità di scimpanzé, l’accesso a determinate fonti di frutta molto matura sembra diventare un evento attorno al quale si organizzano brevi riunioni di gruppo. Il cibo ricco di zuccheri ha un valore sociale per i primati; quando questo stesso cibo è fermentato, porta con sé anche la possibilità di modulare, seppur lievemente, l’umore e l’interazione. Non si tratta di ubriachezza per come la intendiamo noi, ma di un ammorbidimento delle tensioni, un aumento della tolleranza reciproca, un effetto tenue ma non trascurabile sulla dinamica sociale. È significativo che gli studi condotti sui metaboliti dell’etanolo nelle urine degli scimpanzé siano stati accompagnati da osservazioni comportamentali che mostrano una riduzione dei conflitti nelle giornate di maggiore disponibilità di frutta molto matura. Non è una dimostrazione, ma è un segnale coerente.

Anche negli uccelli frugivori esiste qualche indizio, più sfumato: in alcune specie i gruppi si aggregano attorno alle fonti di frutta fermentata con una densità superiore alla media, come se la combinazione tra odore, gusto e nutrimento fosse un polo di convergenza sociale.

In tutti questi casi il vantaggio evolutivo non è l’ebbrezza bensì la capacità di sfruttare cibi che per altri erano inaccessibili o rischiosi, ampliando la nicchia alimentare e aumentando la probabilità di sopravvivere in un ambiente competitivo. L’etanolo, in natura, è un derivato della maturazione e della decomposizione: evitare del tutto i frutti fermentati avrebbe significato rinunciare a una parte significativa delle calorie disponibili. Gli animali che possedevano ADH più efficienti potevano invece consumare questi frutti senza compromessi, con un vantaggio netto nella raccolta di energia. Da qui la selezione di varianti più performanti.

La storia del rapporto fra animali e alcol, vista così, non è una storia di anomalie o di incidenti etologici: è un capitolo dell’ecologia della frutta. L’etanolo è stato parte della dieta di molte specie molto prima che diventasse un prodotto culturale umano. Quando poi la nostra specie ha imparato a concentrare l’etanolo in bevande fermentate e distillate, ha semplicemente spinto un antico rapporto biochimico fuori dal suo equilibrio evolutivo. In natura, l’etanolo è una traccia, un segnale, un sottoprodotto del frutto maturo; nelle società umane diventa sostanza autonoma, oggetto di cultura, di rito, di dipendenza.

“La storia del rapporto fra animali e alcol, vista così, non è una storia di anomalie o di incidenti etologici: è un capitolo dell’ecologia della frutta. L’etanolo è stato parte della dieta di molte specie molto prima che diventasse un prodotto culturale umano”.

Ma se l’evoluzione ha selezionato enzimi così efficienti nel metabolizzare piccole quantità di etanolo, come reagisce l’organismo quando incontra quantità dieci, cento o mille volte superiori? La sua capacità di diffondersi attraverso le membrane cellulari lo porta rapidamente nel sangue e poi nel cervello. Il fegato lo ossida ad acetaldeide tramite ADH1; l’acetaldeide, molecola estremamente reattiva, viene poi ossidata ad acetato dall’enzima aldeide deidrogenasi. Se l’arrivo dell’etanolo è troppo rapido, l’acetaldeide si accumula, causando i sintomi dell’intossicazione. Nel cervello, l’etanolo modula recettori del GABA, del glutammato, della dopamina, degli oppioidi endogeni e della serotonina, alterando l’umore e il controllo motorio.

Perché la stessa molecola che uccide rapidamente un batterio è in grado, in dosi più piccole, di modificare in modo così sottile la nostra percezione, il nostro comportamento, la nostra memoria? La risposta sta nella sua struttura anfipatica – una testa ossidrilica che forma legami idrogeno con l’acqua, e una coda idrofoba che si insinua fra i lipidi delle membrane – ma anche nel modo in cui questa piccola molecola interagisce con l’impalcatura elettrica e chimica delle sinapsi.

Quando la concentrazione è alta, come accade sui batteri, l’etanolo disorganizza immediatamente la membrana: i lipidi che la compongono non riescono più a mantenersi compatti, le proteine perdono la loro forma funzionale, e la cellula collassa. Ma nel cervello la situazione è diversa. Qui la membrana non è solo una barriera: è una superficie densissima di recettori, canali ionici e pompe che controllano il passaggio di sodio, potassio, calcio e cloro, orchestrando l’attività elettrica dei neuroni. L’etanolo a basse concentrazioni non distrugge questa architettura: la modula.

La prima interazione cruciale riguarda i recettori del GABA, il principale neurotrasmettitore inibitorio del cervello. Si tratta di proteine-canale che, quando attivate, permettono l’ingresso di ioni cloruro nel neurone, iperpolarizzandolo – cioè rendendo meno probabile che generi un potenziale d’azione. L’etanolo aumenta la probabilità che questi canali restino aperti più a lungo: amplifica l’inibizione. È un effetto sottile ma profondo, perché un cervello che inibisce di più è un cervello che rallenta, che attenua le risposte, che lascia scorrere il mondo con meno controllo cosciente. È la sensazione iniziale dell’ebbrezza: un leggero cedimento dei margini.

L’altro polo è il glutammato, il principale neurotrasmettitore eccitatorio. I suoi recettori NMDA – grandi canali ionici complessi, fondamentali per la plasticità sinaptica e la formazione dei ricordi – sono particolarmente sensibili all’etanolo. La molecola ne riduce l’attività, limitando l’ingresso di calcio, lo ione che avvia le cascate molecolari responsabili del consolidamento delle sinapsi. È qui che nasce la difficoltà a formare nuovi ricordi e la perdita di precisione nei movimenti: il cervello continua a registrare, ma non stabilizza.

Questi due effetti – potenziamento dell’inibizione GABAergica e riduzione dell’eccitazione mediata dal glutammato – non si limitano a sommarsi: si intrecciano, modificando il bilanciamento globale della rete. Cambiano la coerenza dei ritmi elettrici corticali, scardinano la capacità di sincronizzare attenzione, postura, coordinazione.

A concentrazioni più elevate entra in gioco un altro livello: l’interferenza con i canali ionici voltaggio-dipendenti, le proteine che regolano l’apertura e la chiusura dei flussi di sodio e potassio durante il potenziale d’azione. L’etanolo altera la fluidità del doppio strato lipidico che li circonda, modificando la cinetica con cui questi canali si aprono e si chiudono. Anche variazioni minime sono sufficienti a rendere meno preciso l’impulso elettrico: basta questo a generare goffaggine, ritardo nella risposta, perdita di coordinazione.

Un ulteriore effetto riguarda le vie dopaminergiche della ricompensa. L’etanolo non stimola direttamente i recettori della dopamina: agisce modulando i neuroni GABAergici che normalmente ne limitano l’attività. Riducendo l’inibizione, aumenta indirettamente il rilascio di dopamina, producendo la componente edonistica, la sensazione di calore emotivo e di lieve euforia che accompagna le prime fasi dell’assunzione.

La tossicità cronica ha invece un’origine diversa. Nel fegato l’etanolo viene ossidato in acetaldeide, una molecola reattiva che forma addotti con proteine e DNA; nel cervello, però, il problema principale è l’adattamento dei recettori stessi. L’inibizione prolungata dei recettori NMDA induce il neurone a compensare, sintetizzandone di più. Quando l’etanolo scompare, questi recettori risultano eccessivi e ipersensibili: il glutammato, di colpo, li sovraccarica. Il calcio entra in quantità eccessive, attivando vie di stress ossidativo e portando alla morte di alcune cellule. È questo il nucleo della neurotossicità dell’alcol: non solo il danno diretto, ma la risposta adattativa che diventa essa stessa patologica.

Eppure, a causa dell’attrazione preumana per la frutta matura e del significato culturale e prosociale del consumo di alcool, non riusciamo facilmente ad abbandonarne il consumo, una molecola nata nelle reazioni geochimiche della Terra primitiva, già presente nelle nubi interstellari, utilizzata dai lieviti per sopravvivere senza ossigeno, metabolizzata dai vertebrati in migliaia di varianti enzimatiche e, infine, trasformata dalla cultura in strumento di convivialità, dipendenza, cura e disinfezione.

Ogni volta che apriamo un flacone di alcool denaturato sfruttiamo la capacità dell’etanolo di destabilizzare membrane e proteine microbiche. Ogni volta che solleviamo un bicchiere, sperimentiamo un effetto completamente diverso della stessa molecola: l’interazione con i recettori del nostro cervello. E ogni volta che osserviamo come un lievito converta zucchero in alcol, possiamo riconoscere un’eco dei primi cicli chimici che hanno unito energia e materia in un circuito autosostenuto.

L’etanolo è uno dei punti in cui la chimica del cosmo, la geologia delle prime Terre e la biologia degli organismi moderni si incontrano. È un esempio preciso di come una molecola possa essere al tempo stesso un prodotto della geochimica, un intermediario del protometabolismo, un rifiuto metabolico microbico, un segnale ecologico, un nutriente marginale, un disinfettante potente e una sostanza capace di alterare il comportamento. Vederlo nella sua continuità evolutiva significa leggere nella stessa molecola una storia che inizia prima della vita e continua nella cultura umana.

Enrico Bucci

Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è stato ricercatore presso l’istituto IBB (CNR) fino al 2014. Dal 2006 al 2008 ha diretto il gruppo R&D al Bioindustry Park del Canavese. Nel 2016 ha fondato Resis Srl, azienda dedicata alla promozione dell’integrità della ricerca scientifica pubblica e privata. È professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia presso il dipartimento di Biologia. È consulente per l’integrità nella ricerca scientifica per diverse istituzioni pubbliche e private, sia in Italia che all’estero.
Il suo lavoro nel campo dell’integrità scientifica è apparso su diverse riviste nazionali e internazionali, inclusa Nature ed è stato premiato a Washington nel 2017 con il “Giovan Giacomo Giordano NIAF Award for Ethics and Creativity in Medical Research”. È autore di oltre 100 articoli scientifici su riviste peer reviewed, di alcuni libri divulgativi e di una rubrica quotidiana di divulgazione su «Il Foglio».

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