Come fanno lucciole e pesci abissali a generare luce? La risposta si trova nella bioluminescenza, un gruppo eterogeneo di affascinanti reazioni chimiche.
Da bambino, nelle sere d’estate, in vacanza in campagna, restavo incantato a guardare le lucciole brillare nel buio. Erano punti mobili di luce, come se qualcuno avesse acceso minuscole lanterne senza fuoco. Nessuna fiamma, nessun odore di bruciato, solo una luminosità silenziosa che sembrava nascere dal nulla. La luce, per me, era una cosa che si otteneva bruciando qualcosa – un fiammifero, la legna in un camino, il filamento di una lampadina (sì, per me all’epoca quel filamento bruciava) – ma quelle creature minuscole non morivano carbonizzate. Facevano luce, ma non scaldavano. E non consumavano nulla che potessi vedere.
Come può un sistema vivente generare luce? Non rifletterla né trasmetterla, ma produrla direttamente a partire da una trasformazione chimica, senza bisogno del sole o di un impulso elettrico. La risposta si trova in un gruppo eterogeneo di reazioni che prendono il nome di bioluminescenza, in cui una molecola, chiamata luciferina, viene ossidata – cioè reagisce chimicamente con l’ossigeno – grazie all’azione di un enzima specifico, detto luciferasi, generando un composto eccitato che rilascia energia sotto forma di fotone, cioè di particella elementare della luce, quando ritorna allo stato fondamentale.
Il termine luciferina non indica una sostanza unica, ma una classe di composti organici – cioè molecole contenenti atomi di carbonio legati fra loro in strutture complesse – capaci di emettere luce visibile in seguito a una reazione di ossidazione. La luciferasi è invece l’enzima – una proteina che accelera una reazione chimica senza consumarsi – che catalizza questa reazione: il suo ruolo è abbassare l’energia necessaria perché la luciferina reagisca con l’ossigeno, rendendo possibile la formazione del composto eccitato che produce luce. A seconda degli organismi, cambia radicalmente la struttura chimica della luciferina, così come cambia la luciferasi corrispondente: in alcuni batteri marini (organismi unicellulari che vivono in ambienti acquatici salini) la luciferina è un derivato dell’acido alifatico ridotto (un tipo di molecola a catena lunga con gruppi funzionali reattivi); nei coleotteri, come la lucciola, è una benzotiazolina carbossilata (cioè una molecola con un anello aromatico contenente zolfo e azoto, legato a un gruppo carbossilico —COOH); in certi ostracodi (piccoli crostacei planctonici) si tratta invece di una imidazopirazina (una molecola con due anelli azotati condensati). Non esiste quindi una struttura chimica comune tra le luciferine.
“Nella bioluminescenza una molecola, chiamata luciferina, viene ossidata – cioè reagisce chimicamente con l’ossigeno – grazie all’azione di un enzima specifico, detto luciferasi, generando un composto eccitato che rilascia energia sotto forma di fotone, cioè di particella elementare della luce, quando ritorna allo stato fondamentale”.
Questo porta a una domanda cruciale dal punto di vista evolutivo: ha senso parlare di evoluzione convergente (cioè dello sviluppo indipendente degli stessi adattamenti in organismi diversi), se le vie biochimiche, le strutture molecolari e i contesti cellulari sono tanto diversi? Oppure è più corretto pensare che la bioluminescenza sia emersa in risposta a pressioni selettive distinte, che in ciascun caso hanno favorito la produzione di luce per scopi differenti?
In effetti, la luce, come esito finale, è simile; ma i vantaggi selettivi che hanno spinto alla sua comparsa possono variare profondamente tra gli organismi. Nei batteri marini simbiotici, ad esempio, la luce serve a stabilire una relazione mutualistica con pesci o cefalopodi che usano il bagliore per comunicare o mimetizzarsi. In questo caso, la selezione agisce sulla capacità di essere ospitati, o sulla competitività all’interno del consorzio microbico, più che sulla luce in sé.
Nei pesci degli abissi, invece, la produzione di luce può servire per attrarre prede, illuminare l’ambiente circostante o confondere i predatori; in altri casi ancora, come nelle lucciole, la funzione è riproduttiva: la luce è un segnale sessuale codificato in sequenze specifiche, riconosciute solo da individui della stessa specie. Un ulteriore caso interessante è rappresentato dai funghi bioluminescenti, noti fin dall’antichità per il loro bagliore verde in condizioni di buio e umidità. La bioluminescenza fungina è stata identificata in oltre 80 specie, quasi tutte appartenenti al clade Mycena o a generi affini. In questi organismi, la luciferina è un derivato dell’acido caffeico, e la reazione che produce luce è continua e non regolata attivamente. Gli studi più recenti suggeriscono che il vantaggio selettivo principale stia nell’attrazione degli insetti: la luce notturna favorirebbe la dispersione delle spore fungine, facilitando il trasporto da parte di artropodi attirati dal bagliore. In altri contesti, si ipotizza anche un ruolo antiossidante per il metabolismo che produce luce, ma l’ipotesi più sostenuta, e testata sperimentalmente in alcune specie tropicali, resta quella ecologica legata alla dispersione.
Un altro esempio rilevante di produzione di luce è quello del dinoflagellato marino Noctiluca scintillans, la cui bioluminescenza, attivata da stimoli meccanici, ha una funzione di tipo “allarme secondario”: quando un piccolo predatore ingerisce la cellula di Noctiluca, la luce emessa può attirare predatori più grandi, che attaccano il primo, aumentando così la probabilità di sopravvivenza delle colonie di Noctiluca.
“In totale, la bioluminescenza si è evoluta più volte di quanto abbiano fatto le ali”.
Come questi esempi possono far intuire, uno degli aspetti più notevoli, confermato anche da dati filogenetici, è la ripetuta comparsa indipendente del tratto bioluminescente: almeno 94 eventi di evoluzione indipendente, considerando tutti i rami noti della vita. Nei pesci, si contano almeno 27 origini separate; in totale, la bioluminescenza si è evoluta più volte di quanto abbiano fatto le ali. Alcune forme attuali, come certi coralli profondi, sembrano aver ereditato la bioluminescenza da antenati risalenti a più di 500 milioni di anni fa. Questo suggerisce che il vantaggio adattativo della luce – in ambienti scuri, profondi o interstiziali – sia talmente consistente da rendere la funzione ripetutamente selezionabile, ogni volta a partire da materiali biochimici differenti.
Ogni uso funzionale implica un diverso contesto ecologico e una diversa pressione selettiva: visibilità nello spettro ambientale, tempismo dell’emissione, controllo metabolico, efficienza della sintesi. Anche tra le specie di lucciola, infatti, si osservano differenze nelle sequenze della luciferasi che producono variazioni nel colore emesso, proprio perché differenti nicchie ecologiche – con differenti condizioni ambientali e comunità – hanno selezionato differenti lunghezze d’onda ottimali.
Queste osservazioni suggeriscono che la bioluminescenza non è un tratto singolo con un’origine unica, ma un fenotipo modulare, cioè un insieme di caratteristiche selezionate con combinazioni diverse in linea con obiettivi diversi. La luciferina e la luciferasi, dunque, sono nomi generici per strutture diverse, costruite indipendentemente da vie metaboliche differenti, ciascuna delle quali rappresenta una soluzione specifica a un problema biologico.
Dal punto di vista molecolare, la selezione naturale ha potuto agire ogni volta su substrati preesistenti – composti già presenti nel metabolismo cellulare – e su enzimi ancestrali dotati di una certa flessibilità strutturale. In alcuni casi, si è trattato di una cooptazione enzimatica: enzimi con funzione diversa (per esempio adenil-ligasi, monoossigenasi o trasferasi) si sono trasformati progressivamente in catalizzatori bioluminescenti, grazie a poche mutazioni che ne hanno modificato la specificità di substrato o la stabilità dell’intermedio reattivo. Questo processo è ben documentato, ad esempio, per la luciferasi delle lucciole, che si è evoluta da una proteina attivatrice di acidi grassi.
In altri casi, l’enzima e il substrato si sono evoluti insieme, in una dinamica di coevoluzione molecolare dove il cambiamento in una delle due componenti seleziona per modifiche complementari nell’altra. In tutti questi scenari, la pressione evolutiva non è sulla struttura della luciferina o della luciferasi in quanto tale, ma sulla qualità del segnale: intensità, durata, colore, modalità di controllo.
“La luciferina e la luciferasi sono nomi generici per strutture diverse, costruite indipendentemente da vie metaboliche differenti, ciascuna delle quali rappresenta una soluzione specifica a un problema biologico”.
Parlare di “luciferina” e “luciferasi” al singolare, dunque, è una semplificazione utile solo se accompagnata dalla consapevolezza che si tratta di una categoria funzionale, non strutturale. Ciò che accomuna tutte queste molecole non è l’origine, né la composizione chimica, ma il risultato adattativo: una luce prodotta a basso costo energetico, in condizioni compatibili con la vita cellulare, e utilizzabile come segnale informativo o in altri modi utili.
A livello fisico, la produzione di luce avviene nel momento in cui la molecola che ha subìto la reazione chimica – in particolare la ossiluciferina risultante dall’ossidazione della luciferina – si trova in uno stato elettronico eccitato. Questo significa che uno dei suoi elettroni è stato promosso a un orbitale molecolare di energia superiore, cioè a una configurazione quantistica instabile e temporanea. Il ritorno a uno stato a energia più bassa, detto stato fondamentale, comporta il rilascio dell’energia in eccesso sotto forma di fotone, cioè un quanto di radiazione elettromagnetica. La lunghezza d’onda del fotone – cioè la distanza tra due massimi consecutivi dell’onda luminosa, che determina il colore della luce visibile – dipende direttamente dalla differenza di energia tra lo stato eccitato e quello fondamentale.
In termini pratici, questa differenza di energia è regolata dalla struttura molecolare dell’ossiluciferina e dalle sue interazioni con l’ambiente immediato all’interno del sito attivo della luciferasi. Il sito attivo è la tasca tridimensionale in cui la reazione avviene, e può influenzare la polarizzazione della molecola, la sua rigidità conformazionale, la possibilità di formare legami idrogeno o di partecipare a stati di risonanza elettronica. Tutti questi fattori modulano la distribuzione elettronica della molecola eccitata, e quindi l’energia del fotone emesso. Anche piccole variazioni nella struttura della luciferasi – come la mutazione di un singolo amminoacido vicino al sito attivo – possono spostare lo spettro di emissione di decine di nanometri, passando dal verde al rosso o al blu.
Questo rende il sistema estremamente plastico dal punto di vista evolutivo, ma anche utile in ambito tecnologico: è possibile progettare varianti artificiali di luciferasi che emettono luce a lunghezze d’onda diverse, per ottenere segnali distinti e tracciabili in esperimenti simultanei. La meccanica quantistica sottostante a questo processo – ovvero la descrizione rigorosa degli stati elettronici e dei salti energetici – conferisce alla bioluminescenza una precisione di cui si possono calcolare i parametri fisici in modo predittivo. In altre parole, non è solo una reazione che produce luce: è una misura diretta della struttura molecolare, espressa in lunghezze d’onda.
Per questo motivo, in ambito biotecnologico, la chimica della bioluminescenza è oggi alla base di molte applicazioni: i saggi enzimatici (test per misurare l’attività di un enzima), i sistemi di imaging molecolare (tecniche che permettono di visualizzare cellule e processi biologici in tempo reale), e i tracciatori cellulari (marker luminosi che permettono di seguire cellule vive nel tempo). Tutto ciò è reso possibile dalla possibilità di introdurre nelle cellule i geni per la luciferasi e fornire la luciferina come substrato, ottenendo un segnale visibile preciso, localizzabile e misurabile con alta sensibilità.
A chi, come quel bambino che fui un tempo, si chiede come fosse possibile fare luce senza calore, senza fiamma, senza bruciare nulla, questa è la risposta che la scienza oggi è in grado di dare: la fiamma non serve, se al suo posto c’è un orbitale eccitato che rilascia la sua energia sotto forma di fotone. E non serve un accendino, se una molecola e il suo enzima sono stati modellati dalla selezione naturale per trasformare una reazione chimica in un lampo visibile. Nessuna magia: solo l’evoluzione che ha trovato, in più di novanta modi diversi, la via per rendere utile anche un raggio di luce.